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Perché il settore dell’audiovisivo sta cercando di cancellare gli sceneggiatori?

A quanto pare, il mercato dell’audiovisivo è in crescita, anche in Italia. Anzi, in forte crescita, con tutto quel che ne consegue in termini industriali.

E su questo, tutti concordi. Tutti concordi anche nel dire che si tratta di un mercato al centro del quale ci sono le storie, perché senza una storia, non si può fare un film, né una serie-tv, né una web-serie. E alle storie si dà –  apparentemente – la caccia.

Ora, di norma: dove c’è una storia c’è un narratore. Cioè colui che è in grado di strutturarla e di scriverla.

I narratori del pianeta audiovisivo sono gli sceneggiatori. Gli autori del copione, senza i quali nulla può avere inizio. Negli USA l’industria lo sa bene, tanto da affidare allo sceneggiatore, nella maggioranza dei casi, il ruolo di show-runner della serie: figura che detiene il controllo creativo, artistico e del budget. Il che consente alla serialità americana di possedere una forte identità e di essere curata nel dettaglio, di rappresentare universi coerenti e senza sbavature.

In Italia accade un fatto curioso. Anche qui le storie sono al centro, ma evidentemente si auto-generano. Perché dello sceneggiatore, apparentemente, non vi è traccia.

Leggiamo insieme questo bando: “Biennale College – Cinema, giunto alla 7a edizione (2018-2019), arricchisce la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia con un laboratorio di alta formazione, ricerca e sperimentazione aperto a un massimo di 12 team di registi e produttori emergenti di tutto il mondo. Lo scopo è lo sviluppo e la produzione di fino a 3 lungometraggi a micro-budget (per una cifra non superiore a 150mila euro), che saranno presentati alla Mostra di Venezia 2019”. Dopo qualche riga si ribadisce: “Alla Call di Biennale College – Cinema International possono partecipare team composti da registi alla loro opera prima o seconda, associati a produttori che abbiano realizzato almeno tre audiovisivi, o un lungometraggio di finzione, o un documentario, distribuiti e/o presentati ai Festival”.

Lo sceneggiatore, lo screenwriter, non è contemplato. Cosa significa? Che si tratta di un bando rivolto solo a registi che siano anche per forza sceneggiatori?

Che uno sceneggiatore c’era, ha lavorato ma si preferisce non averlo fra i piedi? O si presuppone che l’idea della storia da sviluppare ce l’abbia avuta il produttore?

E, se così fosse, chi dovrebbe svilupparla? Chi è in grado di scrivere un copione, se non qualcuno che lo fa di professione?

Quarta possibilità: se lo sono dimenticato. Coloro che hanno concepito il suddetto bando – che si inserisce in un’iniziativa promossa da un ente prestigioso e che dispone di un buon budget – hanno rimosso dalle loro conoscenze l’esistenza di una categoria che annovera, anche non volendo uscire dai confini nazionali, gente come Age e Scarpelli, Suso Cecchi D’Amico, Ennio Flaiano, Steno, Cesare Zavattini, Vincenzo Cerami.

Ora, qualcuno potrebbe pensare che sia così in tutto il mondo. Naturalmente no. I bandi internazionali di sviluppo prevedono in genere un team composto da produttore, regista, sceneggiatore. In quanto sindacato degli sceneggiatori, scriviamo alla Biennale Cinema per chiedere delucidazioni. Nessuna risposta.

Più o meno nelle stesse ore in cui cerchiamo di fare luce su quest’anomalia, vengono rese pubbliche le candidature dei Nastri d’Argento. Ovviamente esiste la candidatura per la sceneggiatura. Per la stragrande maggioranza delle testate, però, non esistono i candidati. I nomi degli sceneggiatori non vengono fatti. Anche le sceneggiature della cinquina dei Nastri d’Argento si sono auto-scritte.

Sempre più o meno nelle stesse ore leggiamo un’intervista rilasciata da Pupi Avati al Giornale. Il maestro dichiara: “Il cinema italiano in realtà è gravemente malato. Ha il virus della cattiva scrittura. Buoni attori, registi, operatori non mancano, ma non abbiamo più i migliori sceneggiatori del mondo. Inoltre una volta facevamo tutti i generi. Oggi è solo commedia. Anzi, commediola. ‘Perfetti sconosciuti’ ha successo? Non si fa altro che tentare di riprodurlo, ossessivamente.”

Tutti noi proviamo per il maestro Avati rispetto e affetto. Però vorremmo dirgli che no, non è così. Che forse il problema è un altro e che a mancare, in Italia, è semmai il coraggio produttivo. Che tanto per fare un esempio il nostro socio Nicola Guaglianone per riuscire a realizzare la sua idea di “Jeeg Robot”, cioè un’idea appena un po’ fuori dagli schemi della commediola, ha impiegato dieci anni. Che i produttori italiani assai di rado prendono in considerazione le proposte degli sceneggiatori che non siano anche registi. Che se qualcuno di noi si presentasse da un produttore con il copione de “La decima vittima” il produttore chiamerebbe il 118. Perché sono loro, i produttori, a nutrire una certa passione per la ripetizione ossessiva. Sono loro, per lo più, a non voler rischiare.

Vorremmo anche dirgli che quando vengono messi nelle condizioni di esprimersi, i nostri sceneggiatori sono in grado di partorire serie che si vendono e che vengono apprezzate in tutto il mondo. Che quando per disperazione vanno a studiare all’estero, i nostri giovani aspiranti sceneggiatori, ottengono ottimi risultati.

Ci rendiamo conto però che non è al maestro Avati che questi concetti vanno ribaditi. È l’intero Paese a soffrire di una lacuna culturale, ad aver rimosso un’intera categoria. A partire dalla stampa che quasi mai nomina coloro che hanno ideato e scritto, per arrivare agli organizzatori dei maggiori festival che dimenticano di citare gli sceneggiatori sui programmi o di invitarli ai panel. Nessuno stupore, poi, se lo spettatore comune, in Italia, confonde lo sceneggiatore con lo scenografo, e a volte è convinto che le battute di un film le inventino gli attori.

Il problema è che rimuovere e/o svalutare la categoria di coloro che inventano e scrivono le storie significa rimuovere e/o svalutare le storie stesse. Se questa lacuna non verrà colmata, sarà molto difficile che la nostra industria cinematografica e televisiva decolli davvero.

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