«Vuoi stare fermo? Non ce la faccio mi sto annoiando. E allora gioco»
Quante volte come genitori, come docenti, come semplici osservatori ci siamo trovati a pronunciare o ad ascoltare queste parole? Nella società attuale, le nuove generazioni sull’onda delle richieste di performance di cui si è fatta carica l’infanzia, sono state investite dal fare, dall’essere occupati in qualcosa, vuoi che sia il corso di nuoto, le lezioni di giapponese, la lettura veloce. Tutto scorre velocemente, in una perenne rincorsa al fare, che nella traduzione del fare digitale ha trovato la sua massima e sintonica espressione.
Spazi di vita che non permettono di conoscere momenti di vuoto, quello stacco dal fare, che fa della sospensione l’attivatore principale per sviluppare pensieri, idee, progetti, desideri che fondono attese.
In questa produttività costante, anche il gioco si è trasformato in una rincorsa costante al piacere che rischia di erodere sfere canoniche della strutturazione del se come la disciplina, l’impegno, lo sforzo per raggiungere determinati risultati e nel contempo la capacità di attendere e di desiderare.
Sappiamo quanto i device abbiano colto le esigenze dell’uomo conformandosi ai suoi bisogni primari, facendo leva sulla loro presenza costante che assolve il compito in maniera efficiente e prontamente efficace. Da tata tuttofare che calma e distrae se il bambino fa capricci, a eterno paese dei balocchi che permette al bambino di divertirsi senza uscire di casa, bypassa il parco giochi e la richiesta costante che tutti i bambini fanno: «mamma, papà giocate con me?».
Se ho il desiderio di giocare e ho il device a portata di mano, non dovrò più impegnarmi nello sforzo di chiedere ai miei, che sono tanto indaffarati e che mi rispondono il più delle volte di aspettare. Basterà accendere il dispositivo e potrò immergermi nel mondo magico dei videogiochi che tuttavia rischia di cancellare e riconfigurare a suo piacimento gli anni magici della prima infanzia. Magia che viene offuscata dalla mancanza del desiderio, dell’attesa, dall’incapacità di gestire la noia, nella facilità e nell’illusione di essere liberi e di volare in un mondo fantastico che in realtà di fantastico non ha nulla se non la preordinata capacità di catturare attenzione togliendo fantasia e immaginazione.
Tutto nel gioco online è preordinato, costruito a priori sulle leggi della psicologia che sanno attivare le leve motivazionali orientando scelte dettate dall’istintiva curiosità del bambino, dalla voglia di essere premiato, di raggiungere un determinato livello nell’atavica ricerca della competizione con l’altro che ha mosso sempre aggregazioni giovanili e non.
L’onnipresenza ludica che non richiede sforzi organizzativi è una potente chimera sia per bambini, sia per adulti possono correre il rischio di avvalersi della tecnologia per delegare le richieste di condivisione ludica dei loro bambini a vantaggio di un tempo guadagnato per loro. Tempo guadagnato che diverrà nella traiettoria evolutiva del bambino tempo di non richieste, di poche domande e di chiusure affettive in momenti di crescita importanti come l’adolescenza. Nelle richieste, nelle domande, si celano bisogni, e nelle mancate risposte si creano aspettative che saranno poste alla base dell’agire in autonomia quando non si avrà più la necessità di porre quesiti.
Nel gioco si costruisce l’apprendimento e come
in tutte le conquiste esperienziali cela altro oltre al divertimento. Nel
gioco il bambino tasta la presenza dell’altro, presenza che non è di certo
fisica ma affettiva, in quel toccare la mente per riconoscersi dentro la mente
del genitore: «mi passi la
paperella, ti do la paperella», sorridi
e sorrido nel sentirmi capito, compreso e nel sintonizzarmi con te progredisco
di livello e raggiungo conquiste evolutive che sono alla base del mio sviluppo
cognitivo. Nel «mamma sono qui giochi con me» iniziano le domande
che traghettano l’istintivo bisogno di verifica del mio bisogno di essere amato
capito, accettato, compreso, riconosciuto. Ti chiedo di giocare e verifico
altro che sarà la base del mio essere altro nel mondo. Richieste ludiche dei
bambini che celano altri tipi di richieste, rimarcando come ci ricorda Jean
Piaget che lo sviluppo cognitivo del bambino si struttura sull’abitudine al
gioco. Voci di grandi osservatori di bambini ci hanno già
detto che le richieste di essere insieme in una condivisione affettiva a
tonalità positiva come un diapason incrementa quegli stati di benessere che si
trasmettano ad altre necessità e doveri.
Nella scalata evolutiva scandita dal ritmo
sonno-veglia, tra una poppata e l’altra e un riposino, il bambino fa la sua
imperiosa richiesta di giocare ed è proprio nel gioco, che si costruisce il
linguaggio comunicativo tra genitore e figlio, fatto di gesti, di
riconoscimenti, di scoperte, di amplificazione di parole che colgono sguardi e
creano intese.
Quell’intesa di divertirsi insieme che permette di costruire un percorso di conoscenza del mondo che parte dal gioco, dalla curiosità, dalle emozioni positive e sedimenta all’interno della famiglia la sintonia ludica che tanto servirà in seguito.
Imprinting ludico pertanto che deve essere attentamente preservato per evitare di correre il rischio che il digitale diventi il maggior competitor della presenza genitoriale.
Il bambino nel gioco chiede, fa domande, sviluppa progetti, condivide e se come ci ricorda Rodari si danno quei ‘fogli via’ di chiusura che verranno conservati nel libro nero dei ricordi, si solca la strada per il via da noi futuro che nel confronto con il device onnipresente ci traghetta inevitabilmente in una abitudine cognitiva malsana. Se il device non si stanca mai di giocare, permette di condividere con me, mi premia, mi consola, è sempre con me, non potrà mai superare il suo innato livello di fabbrica che è quello di non riuscire a trasmettere affetti, né di costruire legami affettivi se non in forma di dipendenza. E allora forse il ricordare una delle lezioni di Gianni Rodari ai genitori è il principale antidoto per superare momenti di stanchezza eccessiva da parte dei grandi e di avvalersi del gioco con i nostri bambini come il miglior strumento di prevenzione rispetto a configurazioni ludiche in cui la ricaduta di attenzioni nello schermo maschera assenze affettive fondanti.
Ridere insieme, divertirsi insiemi, dare adito e potenziamento alle emozioni positive è riconosciuto, anche nella trasversalità interdisciplinare (Siegel, Byron 2018), come il miglior starting point per sedimentare all’interno del cervello l’imprinting ludico che legittima il gioco ad attivatore di pensiero e magia e mai di compulsione e assenza.
Bibliografia
Rodari, G. (1996), Pensieri per genitori 7 piccoli spunti per grandi riflessioni. Editore: D.O.GE.
Siegel D., Byron P. (2018), Yes Brain. Come valorizzare le risorse del bambino, Raffello Cortina Editore, Milano.