Prima ancora del tonfo delle Borse degli ultimi giorni, i grandi gruppi della pubblicità mondiale hanno cominciato a perdere un bel po’ di valore. Oltre che per il calo dei profitti, molti sostengono che la causa vada anche ricercata in recenti analisi come quella della Bank of America Merril Linch: “Gli investimenti in marketing hanno imboccato una strada molto precisa – hanno scritto gli analisti di BAML – lasciando indietro storytelling e creatività e puntando piuttosto sulla tecnologia, la customer experience, e la trasformazione digitale del business in un’ottica data driven”.
Con tutta probabilità i motivi del calo vengono da più lontano, come ci ha spiegato in quest’intervista Alberto Contri, docente di Comunicazione Sociale all’Università Iulm e autore, di recente, del saggio McLuhan non abita più qui? (pubblicato da Bollati Boringhieri), nel quale ha dedicato molte pagine al “lento suicidio delle agenzie di pubblicità”, dialogando anche con alcuni protagonisti del settore, offrendo così un quadro assai completo e molti motivi di riflessione.
Key4biz. Perché nel suo saggio lei parla di lento suicidio delle agenzie?
Alberto Contri. Quando ho cominciato a lavorare in pubblicità a inizio anni Settanta, le agenzie venivano remunerate con il 15% sull’investimento media. Quando le campagne avevano successo e il budget cresceva, crescevano di conseguenza i profitti dell’agenzia, senza un corrispondente aumento dei costi, il che era semplicemente una manna. Così in quegli anni d’oro le agenzie fecero grandi affari, includendo la consulenza strategica e creativa nel fee complessivo per l’acquisto mezzi. Da un certo punto in poi i clienti hanno cominciato a voler ridurre quella percentuale, la concorrenza è aumentata, e sempre più spesso le agenzie hanno offerto alle imprese la creatività inclusa nel fee dell’acquisto mezzi, sul quale – specie se grandi – potevano ricevere dai mezzi particolari sconti sull’acquisto di ingenti quantità di spazi pubblicitari per clienti diversi. Sono meccanismi complessi, che ho fatto illustrare con molti dettagli nel mio saggio a Fidelio Perchinelli, per moltissimi anni direttore dell’Associazione Italiana Agenzie di Pubblicità. Per quanto riguarda il lento suicidio, intendo l’aver progressivamente rinunciato a farsi pagare la consulenza strategica e creativa, puntando soprattutto a diventare dei broker finanziari, concentrandosi soprattutto sull’acquisto mezzi da cui oggi ricavano il proprio principale sostentamento. In particolare, i grandi gruppi hanno inglobato nel tempo le centrali d’acquisto media, massimizzando al massimo i famosi extra-sconti, un tempo chiamati “over commission”, e oggi assai più elegantemente “diritti di negoziazione”. Senza i profitti di questi potenti centri media oggi i grandi gruppi pubblicitari potrebbero implodere.
Key4biz. Cosa dicono in proposito le associazioni degli investitori pubblicitari, come l’UPA?
Alberto Contri. Da tempo sostengono che i diritti di negoziazione avrebbero dovuto essere ristornati ai clienti, ma a parte la difficoltà di suddividerli in proporzione a tanti diversi budget, se avvenisse veramente le agenzie chiuderebbero, perché – ove esista – la sola remunerazione per la consulenza creativa non sarebbe sufficiente a sostenere i costi delle strutture pubblicitarie.
Del lento suicidio fa parte anche la pressione dei vertici multinazionali delle agenzie che, per fare fatturato e accontentare sempre di più i clienti, ritengono addirittura ingombranti i direttori creativi di grande spessore, più portati a cercare idee creative e a sperimentare strade nuove piuttosto che ad eseguire in fretta. La riprova è data dal fatto inconsueto accaduto proprio nelle ultime settimane: cinque importanti direttori creativi italiani si sono dimessi dalle rispettive agenzie, il che la dice lunga su come il processo sia arrivato ad un punto assai critico.
Key4biz. Nel suo saggio lei spiega anche cosa ha comportato per le agenzie di pubblicità lo sviluppo dei nuovi media
Alberto Contri. Ricordo per sommi capi, rimandando al saggio, che la complessità della gestione degli strumenti necessari per una campagna efficace sui social media richiede l’impiego di molte risorse umane specializzate oltre a quelle tradizionali. Ma dato che il costo dei nuovi media è assai inferiore a quello dei media classici, la percentuale (oramai ridotta all’osso) destinata all’acquisto mezzi, in questo caso non ricopre neanche lontanamente i costi. Senza contare che in un campo non ancora ben conosciuto, si sono messi ad operare centinaia di singoli operatori o piccole strutture molto abili a maneggiare la neo-lingua di Internet e a offrirsi a costi bassissimi. Dato che le aziende in tempi di crisi tendono a risparmiare il più possibile, le agenzie si sono trovate spiazzate da una ulteriore concorrenza spietata. Ora, recuperare i danni fatti diventa sempre più difficile, anche per una rischiosa deriva che sta prendendo la cultura professionale di tanti giovani manager pronti a mitizzare soprattutto le novità, come sono considerati oggi i big data.
Key4biz. Ma la sempre più precisa profilazione dei target non è la nuova frontiera della comunicazione pubblicitaria?
Alberto Contri. Bisogna intendersi. È ovvio che più sono precisi i dati che abbiamo, meglio riusciamo a parlare con il nostro interlocutore, e questa è sicuramente l’importante novità offerta dal nuovo ambiente digitale (fatto di social media e di piattaforme di vendita on-line). Così è tutto un correre a cercare di accaparrarsi i dati, visto che gli analisti di Merril Linch hanno decretato la morte della creatività e il radioso futuro del business data driven. Sembra però impossibile che gente che, ieri non ha saputo prevedere la bolla speculativa, oggi, senza sapere nulla di comunicazione, si senta autorizzata a stabilire che strada debbano prendere gli investimenti di marketing, e venga pure creduta. Per cui accade che una grande società di consulenza come Accenture si compri centri media e agenzie digitali. Ma è lì la soluzione? Dice Andrea Concato, direttore creativo di grande esperienza: “Appare chiaro che se le agenzie, già impoverite, perdono la corsa davanti alla consulenza e ai dati, non resta più nessuno che conosca le marche, che sappia come farle crescere e risplendere, che sappia creare quell’insight distintivo e rilevante che nessun algoritmo saprà inventare. Un buco enorme da riempire. Perché quando sei arrivato davanti a Gino e sai tutto di lui, dovrai pur dirgli qualcosa!”.
In questa frase fulminante c’è una profonda verità, che già la Young & Rubicam negli anni sessanta diffuse con un annuncio pubblicitario ancora più valido oggi. Era il tempo in cui si stava cominciando a fare pianificazioni media con i primi grandi mainframe. L’annuncio mostrava un volto di donna con una lacrima sul viso, mentre l’head line recitava: “UN COMPUTER NON SA PIANGERE. E il testo: Se interrogate un computer potrete sapere tutto di lei. Quanti anni ha, dove abita, cosa legge, cosa compra. Potrete scoprire che programmi tv guarda e a che ora. Saprete che programmi ha per Natale e se è sposata. MA SOLO UN COPYWRITER PUO’ DIRVI PERCHE’ STA PIANGENDO. La Young & Rubicam crede nei computer. Ma la Young & Rubicam ama i copywriter”.
Ecco cosa non stanno capendo gli entusiasti delle magnifiche sorti e progressive della tecnologia e del business data driven: i dati sono in realtà delle commodity (a parte i sempre più gravi problemi di privacy) se non vengono interpretati e gestiti da chi sa costruire messaggi interessanti, toccanti e convincenti: cosa che solo degli ottimi e sperimentati creativi sono in grado di fare.
Key4biz. Qualcuno le contesta di essere un laudator temporis acti, uno che rimpiange il passato…
Alberto Contri. Stupidaggini. Basti citare per tutti l’esempio di Facebook, una delle società di maggiore successo della nuova era digitale. Chi conosce i fondamentali della comunicazione pubblicitaria, sa che ottenere un like, una condivisione dei propri post, un commento positivo, rispecchia alla lettera i bisogni secondari della famosa scala disegnata dal grande psicologo americano Abraham Maslow: essere apprezzati, essere riconosciuti, avere un ruolo nella propria comunità. Quella scala fu disegnata negli anni sessanta, e quindi dovrebbe essere roba vecchia, no? Eppure Mr. Zuckerberg ci ha costruito sopra una società in grado di capitalizzare circa 400 miliardi di dollari. Questi azzimati analisti, questi entusiasti delle magnifiche sorti e progressive dell’economia digitale non hanno evidentemente competenze interdisciplinari, non conoscono la storia, sono preda delle mode del momento, forse non hanno nemmeno letto Chris Anderson quando spiega come i grandi meccanismi che regolano l’economia della comunicazione e della pubblicità sono rimasti sempre gli stessi, come quello della third part economy, ad esempio. Un meccanismo secondo il quale c’è sempre qualcuno che paga, comprando della pubblicità da un editore, da un mezzo, da un fornitore di contenuti o di servizi, perché io utente possa fruire di qualcosa gratis: un programma televisivo, un servizio di posta elettronica, la visione di un video, eccetera. Io aggiungo all’osservazione di Anderson che semmai oggi c’è una grave complicazione in più: per me utente non è più davvero gratis come prima (quando davo comunque il mio tempo e la mia attenzione), anzi: oggi mi vedo costretto a cedere la mia privacy, un bene oltremodo prezioso. Ritengo che contro il sempre più insopportabile abuso dei dati personali ci potrebbe essere ben presto una rivoluzione di carattere globale. Con tanti saluti al marketing data-driven.
Finché non succederà, avremo certamente bisogno dei dati per raggiungere Gino, ma anche e soprattutto di qualcuno che sappia come parlargli. Faccio un esempio concreto: non so come, ma le compagnie telefoniche e di energia hanno scovato il numero del mio cellulare, così mi ritrovo importunato ad ogni ora del giorno da qualcuno che mi propone di cambiare abbonamento. Mai una volta che lo facesse con un approccio perlomeno curioso, intelligente, minimamente interessante. Bene: hanno trovato una cosa preziosa come il numero di telefono di Gino, il famoso dato, ma non sanno come parlargli. C’è altro da aggiungere?
Key4biz. Nel suo saggio lei cita esempi di aziende e agenzie che amano computer e copywriter, quindi un approccio integrato può e deve esistere secondo lei…
Alberto Contri. Certo. E non parlo mica di aziendine qualunque. Parlo ad esempio del più grande investitore del mondo, la P&G. Racconto di come il responsabile globale del Brand, Marc Pritchard – che è anche presidente dell’ANA (l’Upa americana) – nel 2016 si sia rivolto alle agenzie digitali dicendo che non ne poteva più di tutte le loro complessità, e che dalle agenzie di pubblicità del suo gruppo avrebbe preteso da allora in poi sempre di più in termini di consulenza strategica, creativa e operativa, e in una forma ben coordinata. Oh guarda: un ritorno al passato? Ma no, un ritorno al buon senso, a quella visione olistica fatta di analogico e digitale, di dati e di pensiero, che sa riflettere sulla specifica entropìa di un sistema di comunicazione che proprio perché complesso va gestito in forma necessariamente integrata. A fronte di tutto ciò penso che chi darà retta agli analisti della Merril Linch potrà trovarsi presto nei guai.
Key4biz. Un avvertimento alle società di consulenza, che, secondo alcuni rumors, starebbero ronzando intorno ai grandi gruppi della pubblicità?
Alberto Contri. Non avverto nessuno, semplicemente cerco di ragionare. Ho grande stima delle società di consulenza, in particolare di quelle che propongono analisi serie taylor made e non rivendono a tutti la stessa cosa. Anche perché sono rimaste le uniche a parlare direttamente con i vertici delle imprese, e quindi hanno contatti molto preziosi. Ma vorrei sottoporre loro la domanda che mi ha posto Fidelio Perchinelli: se le aziende hanno preso a remunerare sempre meno le agenzie di pubblicità, una volta che le società di consulenza avranno inglobato le risorse e i costi delle agenzie digitali, delle agenzie tradizionali e dei centri media, come faranno a farsi pagare per la consulenza aziendale, la consulenza cosiddetta digitale, la consulenza di branding e comunicazione, la consulenza per le pianificazioni? Conoscendo come ragionano i clienti, come minimo chiederanno un robusto sconto quantità, considerato che la consulenza creativa già non la pagavano più, o comunque troppo poco… Mi pare una domanda tutt’altro che peregrina. E comunque non comprerei mai un’auto a cui occorre come minimo rifare il motore. Ma i creativi non dovrebbero comunque preoccuparsi: al massimo si tratterà di trasferirsi da un’agenzia ad una società di consulenza, in un grande facite ammuina. Perché con i soli big data nessuno ci potrà mai fare niente.