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People&Tech. I nostri dati, un baratto poco trasparente

Violazioni di profili, test psicologici predittivi utilizzati sfruttando app, raccolta di informazioni e utilizzo di dati di utenti per scopi elettorali: uno scenario inquietante quello emerso dallo scandalo di Facebook e che continua ad allargarsi, visto che ad essere finiti nei server della società inglese Cambridge Analytica sarebbero 87 milioni di profili di utenti, anziché i 50 finora indicati.

Lo scandalo, sebbene apprezzabile come trama di un film, ha in realtà svegliato dal torpore una moltitudine di persone che forse qualche dubbio sulla gestione della quantità di dati che si riversano sui social se l’era pure creato. La vicenda nuda e cruda di Facebook ha scoperchiato il vaso di Pandora, con Zuckerberg che ha ammesso le responsabilità della sua azienda, caduta in una crisi senza precedenti.  Atto dovuto e, di questi tempi, certamente apprezzato.

Quello su cui riflettere è che, come accade purtroppo il più delle volte, solo quando capita qualcosa di grosso tutti si attivano per correre ai ripari e cominciare a trovare colpe e colpevoli. Prima però si lascia correre. O meglio, qualcuno le cose le dice e mette in guardia dai pericoli, ma poi le logiche di mercato risultano vincenti. Il business è business, è più facile gridare al lupo quando ormai i buoi sono scappati dal recinto, piuttosto che preoccuparsi per tempo delle conseguenze di situazioni, tutto sommato, anche prevedibili. Se infatti, è ormai chiaro che il potere è determinato dalla quantità di informazioni che si detengono, è altrettanto chiaro che i nostri dati, che contribuiscono a quel potere, vanno protetti adeguatamente.

Sono una fautrice dell’”uso consapevole” delle tecnologie digitali: lo ripeto da anni in tutte le salse, perché credo fermamente che per utilizzarle in modo appropriato, riducendone il più possibile i rischi, sia necessaria la presa di consapevolezza da parte dell’utente. È importante, ad esempio, discernere i rischi ai quali ci si espone condividendo le proprie informazioni personali sui social; ma è altrettanto importante essere consapevoli del valore economico che, nella società appunto dell’informazione, hanno i propri dati.  Il fatto che si possa accedere ad una piattaforma di networking in modo gratuito dovrebbe far accendere un campanellino d’allarme, visto che difficilmente qualcuno ti offre qualcosa in modo gratuito.

La vicenda dovrebbe quindi far riflettere sull’importanza di essere informati in modo corretto e trasparente sui rischi e sui vantaggi dell’uso di tecnologie digitali. Se si continuano a decantare solo i benefici, trascurando la parte più oscura, le persone continueranno ad usare in modo disinvolto tutto quello che viene loro proposto, in nome della semplificazione del vivere quotidiano.

È quello che sta accadendo, ad esempio, con riferimento alle tecnologie IoT e all’intelligenza artificiale: si parla tanto di come cambieranno in meglio le nostre vite (c’è da discutere anche su cosa significa “migliorare”), ma intanto si trascura di informare adeguatamente sui rischi di sicurezza e per la privacy. Perché è ovvio che siccome queste tecnologie digitali hanno grandi potenzialità, possono essere sfruttate anche da soggetti criminali per fini malevoli.

Il fattore umano è sempre centrale, di qualsiasi tecnologia si tratti, la quale di per sé è neutra: a darne valenza positiva o negativa è l’uso che le persone ne fanno. E quando parlo di persone, mi riferisco sia ai consumatori che ai gestori dei servizi offerti. L’uso consapevole è dunque presupposto indispensabile, ma in vicende come quella di Facebook non è sufficiente se ad esso non corrisponde, da parte dei gestori delle piattaforme, un uso etico e trasparente dei dati degli utenti, condizione base per garantire un rapporto di fiducia con gli stessi.

Se proprio i nostri dati sono destinati ad essere la moneta di scambio del presente e del futuro, che almeno questo baratto avvenga ad armi pari.

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