Key4biz

People&Tech. Eccesso di calorie digitali, ci vuole una dieta

In un contesto in cui le tecnologie digitali hanno invaso la vita di tutti, determinando una quasi totale dipendenza da esse, c’è anche chi si sveglia dal torpore per proporre riflessioni critiche ed agire di conseguenza.

Nessuno vuole demonizzarle, sarebbe impensabile farne a meno. Siamo ormai proiettati nell’Internet di tutte le cose (Internet of Everything, IoE) e nulla e nessuno distoglierà dal procedere a passi da gigante verso questa direzione. È però interessante chiedersi a quale livello della celebre piramide dei bisogni di Maslow le tecnologie digitali si collocano: forse addirittura in quello di base, i cosiddetti bisogni fisiologici, vale a dire quelle attività necessarie all’individuo per sopravvivere, come il mangiare ed il bere. Probabilmente, infatti, una delle prime cose che molte persone fanno la mattina è quello di verificare (magari con la tazza di caffè in mano) i loro profili social, i tweet ed i post che hanno perso durante la notte. Senza contare lo sviluppo di patologie emergenti, come la sindrome determinata dal timore di rimanere disconnessi (nomofobia), nella quale lo smartphone e la raggiungibilità sono per chi ne soffre la linfa vitale. A parte il serio rischio della dipendenza, c’è il fatto che tablet e smartphones sono diventati parte integrante del nostro mondo e caratterizzano il nostro stile di vita. La parola chiave non è rinuncia, ma moderazione.

Riprendendo una possibile equiparazione con il bisogno fisiologico di mangiare, a fronte di un surplus di calorie alimentare o di grasso in eccesso, si avverte dopo un po’ il bisogno di regolare la propria dieta. Vedersi allo specchio e non piacersi, induce a fare dei sacrifici; può anche essere il nostro medico di base a consigliarci di rivedere il nostro piano alimentare per una questione non tanto di estetica, quanto di salute. Ma come stimolare il bisogno di una dieta ipodigitale per il surplus di calorie in eccesso? Questo sì che è un problema, dal momento che è piuttosto complicato darsi dei limiti d’uso giornaliero. Ammesso poi che ci sia la consapevolezza di un uso eccessivo. Le tecnologie digitali sono ormai lo specchio in cui ci si riflette. L’immagine che ne rimandano è potentissima e le calorie digitali sono necessarie al suo potenziamento: la visibilità sui social network, ad esempio, si alimenta di interazioni e, se si interrompe la catena, si rischia di rimetterci in visibilità.

Nell’interazione individuo-tecnologie sembra quindi che le seconde stiano avendo la meglio. Occorre ristabilire un equilibrio, rimettere le persone al centro di questa interazione, responsabilizzando anche chi detiene il potere della progettazione e della produzione. Tristan Harris, designer con un’esperienza presso Google, è convinto dell’importanza di progettare recuperando il valore umano, in modo da permettere alle persone di spendere meglio il proprio tempo ed evitare eccessi di distrazioni. Egli ritiene che smartphone e piattaforme social utilizzano meccanismi che richiamano il funzionamento delle slot machine: in entrambi i casi c’è il rischio di creare dipendenza negli utilizzatori/utenti.

Partendo da queste considerazioni, insieme ad altri ex dipendenti di Google e Facebook, Harris ha dato vita ad un centro, il Center for Human Technology, per aumentare la consapevolezza degli utenti rispetto al “dirottamento dell’attenzione” determinato dalle tecnologie.  Con la collaborazione di Common Sense, un’organizzazione no-profit che si occupa di educare all’uso appropriato delle tecnologie digitali, è stata avviata una campagna informativa dal titolo “Truth about tech”, con l’obiettivo di raggiungere 55.000 scuole pubbliche negli Stati Uniti. Mediante il coinvolgimento anche di decisori politici, industrie ed esperti di salute pubblica, l’intenzione è spingere i colossi tecnologici a ripensare e ridisegnare gli strumenti digitali tenendo conto della loro eccessiva intrusività e dei rischi legati alla dipendenza.

Sta davvero cambiando qualcosa?

Exit mobile version