#Odiens è una rubrica a cura di Stefano Balassone, autore e produttore televisivo, già consigliere di amministrazione Rai dal 1998 al 2002, in collaborazione con Europa.
Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.
Pubblicato in Odiens, Europa il 2 settembre 2014
Non si può dire che per la Rai tutto sia fermo. Ad aprile, privatizzando (parzialmente) il parco torri e aprendo la partita organizzativa delle sedi regionali il governo, per la prima volta da trentacinque anni a questa parte, ha introdotto vero movimento nell’azienda pubblica.
Poi la stessa azienda ci ha messo del suo con il varo (nientepopodimeno) della (progressiva) unificazione delle testate ereditate dalle lottizzazioni degli anni ’70. Con l’implicita conseguenza che d’ora in poi, altro che “pluralismo”, il servizio pubblico dovrà, come accade altrove, scavare verso l’obiettività e la completezza, e su questi parametri dovrà confrontarsi con il giudizio dei telecomandi anziché delle lottizzanti commissioni di vigilanza.
Se con i tg si tocca il lato della “espressione” della politica, con tutte le relative ossessioni per la visibilità etc, (e non è cosa da poco avere aperto operativamente questo lato della constituency Rai), resterebbe ora da affrontare l’altro lato politico della Rai, quello dove il fatturato si misura in euro anziché in chiacchiere.
E parliamo ovviamente del meccanismo di garanzia che interessa Mediaset: il duopolio, il mostro un tempo dominante come il Tyrannosaurus Rex, che però con quel che accade fra pubblicità e web si va trasformando in un lucertolone. Sempre affamato, anzi di più, ma lucertolone. Qui i paletti spartitori ereditati dal passato sono due: 1) il tetto pubblicitario imposto alla Rai (che può trasmettere un quinto degli spot di Mediaset); la saturazione dell’etere free realizzata dal duopolio con sei reti generaliste e innumerevoli canalini più o meno tematici o microgeneralisti.
Posto che il governo stesso ha detto di voler procedere veloce con il rinnovo della concessione di Servizio pubblico, al punto da avviare già in questo settembre una ampia consultazione in vista del varo di un ddl per l’inizio del 2015, verrebbe quasi da dire: aspettate, non aggiungete questa carne al fuoco!
Ma poi ci ricordiamo che la industria della tv ha i suoi tempi, che la organizzazione dei palinsesti e le pianificazioni dei budget pubblicitari non ammettono brusche svolte; che si va a cicli annuali; che la stagione 2014-2015 è già praticamente andata e che a star fermi si rischia semplicemente di replicarla anche per il 2015-2016. Così, rinviando il tutto al post riforma, passeremmo un biennio a parlare e litigare, ma in un panorama industriale immobile, con lo stesso assetto delle reti Rai, con la dispersione delle risorse, la dequalificazione delle factory interne ed esterne, l’assenza dai mercati esteri, l’occupazione in crisi cronica sia dentro sia fuori dell’azienda pubblica.
Forse stavolta il buon senso delle cose da fare dovrebbe avere la meglio sul tradizionale buon senso dilatorio della politica. E la decisione, con la relativa responsabilità di scegliere fra lo star fermi e il darsi una mossa, sta più a viale Mazzini che a Palazzo Chigi.