L’Italia mette la freccia a destra e esce dalla Via della Seta
Siamo stati i primi tra i Paesi occidentali ad annunciare l’adesione alla nuova Via della Seta cinese, la Belt and Road Iniative (BRI) e dopo qualche anno di tentennamenti e pressioni politiche esterne siamo stati sempre i primi in Occidente a lasciarla.
Il tutto in sordina, senza annunci sensazionali o prese di posizioni polemiche, anzi, il Governo italiano, forse per non dare troppo fastidio al gigante cinese, ha semplicemente notificato a Pechino la nostra intenzione di uscire dall’accordo da noi siglato nel 2019 durante il Governo Conte I.
I motivi sono ormai noti a tutti: perché l’intesa non ha prodotto i benefici attesi; per superare l’anomalia di un legame così strutturato con la Cina, unico caso nel G7, che aveva provocato non poche preoccupazioni da parte di Washington e Bruxelles.
Meloni: “Strumento che non ha dato i risultati attesi”
“Io penso che si debbano mantenere e migliorare rapporti di cooperazione commerciale ed economica con la Cina, ma che lo strumento della Via della Seta non abbia dato i risultati che erano attesi”, ha detto la premier Giorgia Meloni a margine della visita ad Artigiano in Fiera.
La risposta cinese è stata affidata al portavoce del ministero degli Esteri, Wang Wenbin: “La Via della Seta è un’iniziativa di successo e la più grande piattaforma al mondo di cooperazione tra Paesi. La Cina si oppone alla denigrazione e al sabotaggio dell’iniziativa, così come al “confronto tra blocchi”. Più di 150 Paesi, inclusa l’Italia, hanno partecipato al terzo Forum BRI di metà ottobre”.
Come dire: fino a due mesi fa eravate con noi e ora avete cambiato idea all’improvviso?
Certamente, le pressioni politiche sull’accordo tra Roma e Pechino per l’adesione alla BRI non sono mai mancate in questi anni, soprattutto da parte di Washington, che ha sempre visto di cattivo occhio questa collaborazione così stretta.
Ma non solo, il nostro Paese è da sempre strategico per l’Alleanza atlantica, soprattutto oggi che gli scenari di guerra si allargano da Nord (Ucraina) a Sud (Palestina) lungo la faglia geopolitica euro-asiatica. Inoltre, a settembre, l’Italia ha aderito ad un progetto comune promosso dagli Stai Uniti per un nuovo corridoio economico che vede l’Europa raggiungere l’India, passando per il Medio Oriente.
Manco a dirlo, una concreta alternativa alla BRI cinese.
BRI non vantaggiosa per noi, ma partenariato saldo tra Roma e Pechino
Nelle intenzioni italiane, comunque, i rapporti con Pechino non si indeboliranno, ma torneranno a svilupparsi in un modo più pragmatico.
L’uscita dell’Italia dalla Via della Seta, come spiegato da Luca Mirone in un articolo per l’Ansa, è stata preceduta da una missione in Cina del segretario generale della Farnesina, Riccardo Guariglia, in estate e a seguire dalla visita del ministro degli Esteri, Antonio Tajani: “incontri in cui è stata confermata l’intenzione di coltivare il partenariato strategico tra i due Paesi e in cui sono stati avviati i passi preparatori per la visita del presidente Sergio Mattarella l’anno prossimo in Cina”.
La stessa Meloni ne ha parlato con il premier Li Qiang a margine del G20 in India, lo scorso settembre, e l’interlocutore ha preso atto della decisione italiana, pur senza essere d’accordo. “Nazioni europee che non hanno fatto parte della Via della Seta sono riuscite a stringere rapporti più vantaggiosi dei quelli che a volte stringevamo noi“, ha spiegato di recente la premier. Mentre Tajani ha parlato apertamente di Germania e Francia, che hanno ottenuto “dati dell’export” verso la Cina “più vantaggiosi” di quelli dell’Italia.
La Cina ha investito 1.000 miliardi di dollari nella nuova Via della Seta
Sono passati dieci anni precisi dall’avvio della nuova Via della Seta. Era infatti il 7 settembre 2013 quando il presidente cinese Xi Jinping ha tenuto un discorso all’Università Nazarbayev di Astana, in Kazakistan, dal titolo “Lavoriamo insieme per costruire la cintura economica della Via della Seta”, evocando la storia dell’antica Via della Seta, che Xi fa risalire al lavoro svolto da un inviato cinese nel II secolo aC.
Da quel giorno 154 Paesi nel mondo, compreso il nostro, hanno aderito all’immenso progetto, che oggi si declina in quattro aree strategiche: cooperazione politica tra gli Stati membri, connettività infrastrutturale (dalle strade ai porti, le ferrovie, i gasdotti e le infrastrutture digitali), facilitazione e promozione delle relazioni commerciali e una maggiore connettività finanziaria (che ora include la Banca asiatica per gli investimenti nelle infrastrutture, il Fondo per la Via della Seta e altri meccanismi di prestito).
Per questi motivi oggi si parla di Via della Seta Digitale, Via della Seta Artica, Via della Seta Sanitaria, Via della Seta Spaziale e Via della Seta Verde.
Oggi, dei 193 Stati delle Nazioni Unite, circa l’80% (154) fanno parte della BRI. Non ne fanno parte il Nord America, parte del Sud America, Giappone, India e Australia.
Di questi l’unico Paese che suona strano non faccia parte della BRI è l’India, che in definitiva nutre una profonda sfiducia nei confronti di Pechino, risentita del fatto che la nuova Via della Seta passi attraverso il Kashmir amministrato dal Pakistan, acerrimo nemico di Dheli.
La spesa cinese nella BRI, un impegno finanziario disomogeneo per continenti
Dal 2013 al 2023, la Cina ha investito nella nuova Via della Seta oltre 1.000 miliardi di dollari. Solo nella prima metà dell’anno in corso sono stati firmati 100 accordi BRI per un valore complessivo di 43 miliardi di dollari, in crescita del 20% sullo stesso periodo del 2022.
Secondo il Report “China Belt and Road Initiative (BRI) Investment Report 2023 H1” del Green Finance & Development center, un’area di crescita di importanza strategica è quella dei metalli e dell’estrazione mineraria. L’impegno cinese nel settore è cresciuto del 131% rispetto alla prima metà del 2022. Particolarmente rilevanti per la transizione green sono i minerali e i metalli, come il litio, e le batterie per i veicoli elettrici.
L’impegno cinese nella BRI non è stato distribuito equamente tra tutte le regioni. I paesi dell’area sub-sahariana hanno registrato un aumento del 130% degli investimenti cinesi e del 69% dei contratti di costruzione.
La regione è diventata dominante per l’impegno nel settore edile e la seconda regione target più importante per gli investimenti BRI (dopo l’Asia orientale).
I paesi del Medio Oriente hanno continuato a essere uno dei principali destinatari dell’impegno cinese, ricevendo 8,1 miliardi di dollari in totale, ma significativamente meno dei 12,3 miliardi di dollari nei primi 6 mesi del 2022.
I paesi BRI dell’Asia orientale, nel frattempo, hanno ampliato la cooperazione con la Cina da 8,84 miliardi di dollari a 13,2 miliardi di dollari, rispettivamente nei primi 6 mesi del 2022 e del 202.
È interessante infine notare che i paesi BRI sudamericani non hanno registrato alcun impegno nel settore edile nei primi 6 mesi del 2023, ma una crescita significativa (+227%) negli investimenti, ricevendo nel complesso il più alto livello di impegno cinese nella regione dal 2018.