Ho sempre creduto alle tue parole, alle tue gentilezze, alle tue carezze, al tuo sorriso da bambino, al tuo essere sempre presente, alla tua presunta gelosia, ma anche i tuoi scoppi d’ira, al tuo cambiare lo sguardo, alle tue accuse, alle tue stranezze.
Ho sempre creduto che ogni tua azione e ogni tua reazione fossero in qualche modo dovute al momento.
Momento di vita che, nel sottotraccia che non sono riuscita a vedere, conserva i segni di un vetro rotto, spezzato, di un dolore che nessuno ha visto, che non hanno voluto vedere, che non si è colto, che si è evitato e che nemmeno tu hai saputo osservare nei vari momenti difficili della tua vita. Quando, e se ci sono stati, per te, momenti difficili nella tua di vita.
Quei momenti che ti hanno fatto diventare un mostro senza sapere di esserlo, senza mostrarlo, o celandolo agli occhi di tutti, agli occhi del mondo, forse, ma dubito, anche ai tuoi di occhi, ma non ai miei. In fondo, in alcuni momenti, in quello specifico momento della mia vita, ho visto, ho sentito, sono stata colpita e sono andata avanti. Con il mio velo, il velo della fierezza delle donne, sempre pronte a proteggere, se stesse, i figli, le amiche, i genitori, anche per assurdo te, ad andare avanti alla ricerca di un avanti migliore, a vergognarsi per non essere riuscite a bloccare uno schiaffo, a sentirsi in colpa per quello schiaffo, quell’urlo, quel disprezzo gridato a voce alta nelle mura domestiche che, da sempre, conservano alterano i ricordi.
E c’è stato un momento nella mia vita, al ristorante, al bar, in pizzeria, al cinema, a scuola, in cui mi è sembrato di non essere visionaria, di non essere sola perché un altro per una frazione di secondo ha avuto la mia stessa percezione. Mi è sembrato perché poi gli sguardi sono tornati altrove, ognuno da dove era partito.
Sotto sempre sotto, l’evidenza del disagio, di un dolore rimosso viene quasi sempre celata, nascosta, dietro una maschera, fatta delle tante maschere della vita che ognuno a modo suo porta nei solchi della pelle segnati dalla ruvidezza del tempo che scorre e lascia traccia, di quel sottotraccia mentale, che rimane in modo indelebile sul volto e traspare, a volte, nel cambiamento improvviso di uno sguardo che fa paura, che fa tremare, e che spesso la mente rimuove nel preferire la negazione del dire: “mi sbaglio”, “non è vero”, “è stato un momento”, “cambierà”, “cambierò”, “è colpa mia”.
Non mi sbaglio però se in quegli occhi non mi vedo, non mi riconosco, ma colgo l’immagine di una me costruita, una proiezione di me che poca ha a che fare con me.
Non mi sbaglio se non vengo riconosciuta nella mia essenza, se copro ruoli fantasmatici al quale non posso, nemmeno con tutta la mia volontà aderire. Moglie, madre, sorella, amica, nonna, zia, padre, figlio, fratello, chi c’è in quella ricostruzione?
Non io, io sono altro, cerco altro e mi sento in colpa per non riuscire a dare fondamento a quello sguardo che vira improvvisamente e che ho captato in uno, tanti momenti della tua vita e che nessuno, nemmeno io, ha avuto il coraggio di guardare con l’intensità che merita.
E chi l’ha fatto, quando l’ha fatto, forse una volta sola, non è riuscita poi a dire quello che ha scoperto.
Gli occhi delle donne, pronti sempre a perdonare, a coprire di delicatezza, dolcezza, amore, quanto possono scorgere a livello istintivo, pronti a cercare il bene quando il bene è lontano dall’orizzonte e annebbia la vista di un colore impervio, indecifrabile che alcune riescono a focalizzare con precisione ma che, ancora troppo spesso, assume sfumature diverse in base ai momenti dell’altro.
Momenti cangianti che accecano, momenti, freddi, cupi, che si mescolano in un caleidoscopio di immagini che confondono, annebbiano di nuovo la vista e si tramutano in violenza quando ormai forse è troppo tardi.
Veli di donne che dobbiamo saper cogliere prima che sia troppo tardi.