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ilprincipenudo. ‘Themepark killed Cinecittà’ ovvero della decadenza della politica culturale italiana

Angelo Zaccone Teodosi

#ilprincipenudo è una rubrica settimanale promossa da Key4biz a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult.
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Secondo appuntamento della rubrica settimanale #ilprincipenudo, ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz.

Giovedì 10 luglio è stata presentata Cinecittà World, con la benedizione del Ministro per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo Dario Franceschini (era annunciata la presenza del premier Matteo Renzi, che però alla fin fine non s’è visto): un parco a tema “ispirato” alla storia degli “studios” di via Tuscolana. 250 milioni di euro di investimenti, 1.000 attualmente e 2.500 a regime posti di lavoro, atteso un pubblico di 1,5 milioni e mezzo di spettatori l’anno. Così è stato dichiarato dall’Italian Entertainment Group (Ieg), controllata da Luigi Abete, Diego Della Valle, Aurelio De Laurentiis, dalla famiglia Haggiag, dal Gruppo Generali.

Fin qui, la telegrafica notizia, ma la vicenda merita un approfondimento, perché è sintomatica della deriva del sistema culturale italiano.

La vera Cinecittà è sostanzialmente morta, e se ne costruisce una… di plastica paradossalmente laddove sorgevano gli “studios” di Dinocittà (250 ettari sulla via Pontina, inaugurati nel 1962), la “competitor” di Cinecittà negli anni d’oro del cinema italiano. Si tratta, certamente, di una plastica… “griffata”, dato che nella progettazione del “theme park” sono state coinvolte vecchie glorie del cinema italiano come lo scenografo Dante Ferretti ed il compositore Ennio Morricone. Offre “20 attrazioni” ed 8 “set cinematografici” (“set” per modo di dire), nonché 4 “teatri di posa” (anche qui, in senso traslato).

Chiunque abbia un approccio post-moderno (o semplicemente realista) con l’industria culturale, potrà anche storcere il naso, ma non potrà contestare che i parchi a tema siano una delle manifestazioni inevitabili dell’economia dell'”entertainment”. E non potrà contestare che producono occupazione, stimolano indotto, sono strumenti del turismo “culturale” (pur in senso lato assai) e del marketing territoriale (la “leva”, i “moltiplicatori”, ecc.). Insomma, in fondo, male non fanno. Nemmeno i “reality tv”, in fondo, fanno male… Sono entrambi però epifenomeni di una “società dello spettacolo” che diviene sempre più pervasiva, e che riduce la politica e la cultura stessa a “rappresentazioni”, simulacri del reale: quel “teatrino della politica”, tanto criticato da Berlusconi, che pure è stato il primo promotore di una visione spettacolar-mediale della politica stessa; quella logica festivaliera, per cui si comprano e leggono sempre meno libri, ma i festival sulla “letteratura” sono paradossalmente kermesse (spettacolari) assai affollate.

Quel che stupisce è che, fatta salva qualche rara eccezione, la morte della Cinecittà reale  (“fabbrica del cinema”, un tempo) e la nascita della Cinecittà virtuale (ludico parco a tema), fenomeni che si sviluppano in surreale contemporaneità, vengono registrati dalla stampa, dai media, dalle istituzioni, dai politici… come se nulla fosse. Il “naturale” corso delle cose?!

Nessuno (o quasi) si interessa più di Cinecittà vera, ed i riflettori si concentrano su quella finta. Soltanto “l’Unità” ricorda che i sopravvissuti lavoratori di Cinecittà (soggetto senza identità strategica, ormai inglobato dal Mibact) inscenano a Roma una manifestazione di protesta, al grido “Via i banchieri da Cinecittà”. E sulla strana privatizzazione di Cinecittà affidata ad Abete, non è ancora stato scritto il pamphlet rivelatore, che la vicenda merita.

Gli investitori Ieg rivendicano un “100 per 100” di capitali privati, ma omettono di specificare quanto abbiano pagato per l’utilizzazione del “marchio” Cinecittà. Peraltro, ci risulta che nessuno, dalle parti di via Tuscolana o al Ministero, abbia mai promosso una valutazione del valore commerciale (a livello di marketing internazionale), del “brand” Cinecittà. Ed è tutto dire. La dinamica ricorda la vicenda dei due “colossei”, quello storico e quello cosiddetto “quadrato”: l’operazione Della Valle supersponsor per il Colosseo (con infinite polemiche sui valori di prestazione/controprestazione), o la Fendi conduttrice del Palazzo della Civiltà del Lavoro (affittato al gruppo di alta moda dal 2013 al 2028; si ricordi peraltro che Fendi non è più realmente italiana da anni, essendo ormai controllata da Lvmh, colosso del lusso guidato da Bernard Arnault).

Frammentazione di interventi, lo Stato che elemosina danari dagli sponsor, cessione di tasselli del patrimonio culturale nazionale, assenza di strategia politica, deficit di “policy”.

I segnali vengono da lontano: basti ricordare la latitanza dello Stato, due decenni fa (correva l’anno 1994), quando una delle industrie culturali del nostro Paese, la storica Ricordi, fu ceduta alla multinazionale Bmg-Bertelsmann. Silenzio assordante del Governo.

L’ufficio stampa di Cinecittà World ha gioco facile: lo spettacolo delle attrazioni suscita – giustappunto attrazione – e la rassegna stampa dei quotidiani odierni è discretamente soddisfacente, per Abete & Co.

Tra le voci lievemente dissonanti, soltanto quella del sempre eterodosso Gianluca Nicoletti, che, su “La Stampa”, scrive che Cinecittà World è “un parco a tema che ricostruisce quel tempio del fittizio che fu Cinecittà. Con il passare del tempo anche quella ricostruzione posticcia ha assunto la dignità di reperto storico, ora entra a far parte di un’archeologia del modernariato posticcio (…) è un’entità nel tempo bislacco dove nulla sarà mai come fu”. Per il resto, il plauso dei giornalisti (pur cinefili) appare diffuso.

Eppure, la domanda sul senso e sulle modalità dell’intervento della “mano pubblica” nel sistema culturale italiano è ancora viva: quel che mancano sono le risposte adeguate, perché prevalgono ancora interventi-tampone. Si grida quasi al miracolo per un provvedimento valido, qual è il decreto cosiddetto “Art Bonus” che sta per divenire legge dello Stato, ma pochi hanno il coraggio di rimarcare che si tratta ancora di poca cosa, rispetto alla enormità e complessità dei problemi della cultura italiana. Che è esangue nella struttura industriale (sottocapitalizzazione e polverizzazione), che è sempre più povera nei consumi (Istat conferma).

Quel che manca, continua a mancare, è una visione strategica, di ampio respiro, un approccio lungimirante. Basti pensare che è ancora in funzione l’ultimo atto di una politica culturale degna di questo nome: quel Fondo Unico per lo Spettacolo, istituito nel 1985. Il Fus è stato oggetto di interventi modificativi, ma son stati tutti pannicelli caldi. Il Ministro Franceschini ha promosso una riforma dei meccanismi tecnico-regolamentativi di sovvenzionamento (maggior tecnicismo, miglior trasparenza), ma non ha avviato una riflessione globale sul perché e sul come lo Stato deve sostenere lo spettacolo dal vivo, piuttosto che la musica registrata, e/o la produzione di videogame, e/o l’editoria libraria e giornalistica, e/o l’emittenza radiotelevisiva locale, eccetera (“e/o”): tutto questo è ancora affidato a leggi vecchie e obsolete, a compartimenti stagni, a un sistema normativo frutto di sedimentazioni continue, che hanno prodotto una amalgama confusa e contraddittoria, conservatrice dell’esistente. Ogni tanto, qualche guizzo: c’è chi propone di fare un “museo dell’audiovisivo e del cinema” a Roma, mettendo insieme quel che resta di Cinecittà e confidando nell’apporto Rai; c’è chi pensa che il polveroso Centro Sperimentale di Cinematografia potrebbe divenire scuola di alta formazione anche per Rai, e finanche per Mediaset e Sky; c’è chi pensa che le sedi territoriali Rai potrebbero lavorare in sinergia con le migliori tv private locali… Idee in libertà, anche valide, che non vengono mai colte, approfondite, verificate, sviluppate, portate “a sistema”… mentre il Governo di turno (destra/sinistra/centro: la cromia è quasi indifferente) governa sostanzialmente “alla giornata”.

Infine, va precisato: Ieg avrà anche investito 250 milioni di euro, ma prevede un fatturato annuo di 55 milioni di euro. Nell’arco di pochi anni, l’investimento sarà tranquillamente rientrato. E, sebbene Abete e soci neghino, c’è qualche maligno che sostiene che l’operazione sia in verità ben compensata dalla chance di edificare 45 ettari, ed il rischio della speculazione edilizia (a Roma poi…) è sempre in agguato.

E lo Stato (“spettacolare”) benedice.

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