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Come ogni rivoluzione tecnologica, anche la robotica porta con sé molti timori legati, in questo caso specifico, al fatto che l’automazione dei processi produttivi possa generare una massiccia perdita di posti di lavoro.
Una paura abbastanza diffusa: secondo un’indagine commissionata nel 2012 dalla Commissione Europea, il 70% degli intervistati riteneva che i robot “potrebbero rubare il loro lavoro”. Altri studi prevedono che nel giro di un decennio il 50% dei posti di lavoro sarà automatizzato.
Il rischio c’è: è innegabile infatti che le tecnologie abbiano scompaginato il mondo del lavoro. E’ altrettanto vero però che i robot stanno contribuendo anche ad aumentare i nostri standard di vita (l’automatizzazione dei processi produttivi, ad esempio, rende i prodotti meno costosi) a migliorare il livello delle cure mediche (pensiamo alla chirurgia di precisione, che aumenta le percentuali di sopravvivenza dei pazienti e riduce nel contempo i tempi di ricovero, o alle applicazioni per l’assistenza agli anziani), ad accelerare gli interventi in caso di terremoti o altri eventi catastrofici (come avvenuto dopo l’incidente nucleare di Fukushima).
Da consumatori, quindi, difficile pensar male dei robot e delle loro innumerevoli declinazioni.
Il pericolo più serio che si corre, quindi, è stato più volte sottolineato, non è tanto che un robot ci rubi il lavoro, ma che le prossime generazioni non riescano a maturare le competenze necessarie per trovare lavoro nei settori al alta densità di specializzazione nati dai nuovi sviluppi tecnologici.
Invece che seminare il panico, sarebbe forse meglio correre ai ripari, aiutando giovani e meno giovani a mettersi al passo con l’evoluzione. Ma in che modo? Innanzitutto puntando sull’istruzione e sullo sviluppo delle competenze tecnologiche necessarie per essere competitivi nel nuovo contesto lavorativo, ma anche semplificando il mercato del lavoro, con contratti più semplici da rescindere così che capitale e lavoro possano essere ricollocati rapidamente per creare nuova occupazione.
Come ha sottolineato sul Financial Times Marc Andreessen, co-fondatore di Andreessen Horowitz e Netscape, “…in tutto questo allarmismo si tende a dimenticare anche che la rivoluzione tecnologica ha messo i mezzi di produzione alla portata di tutti, sotto forma di smartphone, tablet e PC con connessione a banda larga”.
Miliardi di persone, nel giro dei prossimi anni, avranno accesso illimitato alle informazioni, alla comunicazione e all’istruzione, avranno quindi gli strumenti per partecipare all’economia globale.
“E’ difficile credere che il risultato non sia lo scatenarsi diffuso della creatività, della produttività e del potenziale umano. È assurdo pensare che le persone non saranno più utili”, dice ancora Andreessen, spiegando che, innanzitutto, “i robot e l’intelligenza artificiale non sono poi così potenti come la gente è portata a credere. C’è ancora un grosso gap tra quello che vogliamo fargli fare e quello che effettivamente possono fare e questo vuol dire che c’è ancora un enorme divario tra quello che molte persone fanno a lavoro e quello che i robot e l’intelligenza artificiale possono sostituire”.
Anche quando, tra qualche decennio, i robot e l’intelligenza artificiale saranno più potenti, ci saranno ancora molte cose che le persone potranno fare e loro no in termini di “creatività, innovazione, esplorazione, arte, scienza, intrattenimento, cura del prossimo”, ha sottolineato Andreessen
E’, quindi, un dato incontrovertibile che quando l’automazione è abbondante e a buon mercato il ‘fattore umano’ diventa merce ancora più rara e preziosa. Ne è l’esempio il fatto che le vendite di musica continuano a scendere, mentre la musica dal vivo è un business più florido che mai.
Non bisogna poi dimenticare che molti di noi oggi fanno lavori che fino a pochi decenni fa erano ancora inimmaginabili e lo stesso sarà da qui ad altri 30 anni: “non abbiamo idea dei lavori che verranno ma sono certo che ne nasceranno tantissimi. Sostenere quindi che un numero enorme di persone perderà il lavoro e non troverà nient’altro vuol dire avere poca fiducia nella creatività umana”, ha concluso.