Europa
Scattare foto alle portate è ormai una moda su Instagram, che siano tuoi gli elaborati culinari o di qualche altro poco importa, basta che siano belli e colorati ed ecco che parte il click e l’immediata condivisione sul social che fa capo a Facebook e raccoglie tutti gli appassionati di fotografia. Ma alcuni famosi chef e anche alcuni ristoratori hanno detto basta: ‘Vietato postare foto!’. Ma è giusto?
La nuova bestia nera dei ristoratori: Instagram. Si va sempre più diffondendo la moda di condividere foto dei piatti dei ristoranti, ma alcuni grandi chef si ribellano.
Prendendo spunto da un articolo del New York Times (che racconta persino di clienti visti montare sulla sedia di locali, anche eleganti, per realizzare qualche veduta ”aerea” dei piatti scelti) Les Inrocks dedica alla vicenda un lungo articolo con una serie di valutazioni anche giuridiche, che a sua volta Culture visuelle mette al centro di una forte critica e di una analisi di carattere antropologico.
Dunque, in Francia – racconta Mathieu Dejean su LesInrocks – qualche grande cuoco ha protestato sui giornali. Alexandre Gauthier, chef del ristorante la Grenouillère, a La Madelaine-sous-Montreuil (Pas-de-Calais), e Gilles Goujon, chef a tre stelle all’Auberge du Vieux Puits a Fontjoncouse, nell’Aude, hanno vivacemente contestato questo esibizionismo gastronomico.
Non solo disturberebbe la sua clientela – dice Goiujon -, ma gli danneggerebbe la reputazione.
Ma cosa dice la legge su questa nuova infatuazione delle reti sociali? C’è qualcosa di illecito nel diffondere il contenuto di un’ attività gastronomica attraverso una foto? I ristoranti possono privarci del food-porn?
#eJournalism è una rubrica settimanale promossa da Key4biz e LSDI (Libertà di stampa, diritto all’informazione).
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Savoir-vivre e savoir-faire
“In Francia le ricette di cucina non sono protette dal diritto d’autore: e quindi non c’è niente d’illegale nel fotografare i piatti e diffondere la foto sui social network, tanto più che il cliente paga per prendere possesso e mangiare quello che gli viene portato nei piatti – spiega a Dejan un avvocato parigino specializzato nel campo, Jean-Marc Felzenszwalbe -. Un piatto può essere protetto dal diritto d’autore solo quando ha in sé, per la sua apparenza e la sua messa in scena, l’originalità di un cuoco, cosa che è estraneamente rara”, aggiunge il legale.
Il solo rimedio sarebbe quindi, nella maggioranza dei casi, nella pedagogia. “Avere dei vicini che scattano foto con i flash a più riprese può essere seccante quanto avere al tavolo vicino qualcuno che fuma. I ristoratori sono tenuti a far rispettare le regole del savoir-vivre“, osserva il legale. Insomma, si tratta soprattutto di una questione di buon senso e di rispetto.
“Goujon ha parlato addirittura di clienti equipaggiati con treppiedi o dei flash!”,– esclama Aude Baron, redattrice capo del Nouvel Observateur e autrice di un blog gastronomico Resto-de-Paris. “E’ evidente che in queste condizioni disturbano gli altri, come quelli che parlano a voce troppo alta o battono le mani o sono visibilmente brilli. Se invece si utilizza un piccolo apparecchio fotografico o lo smartphone, come fa la maggior parte delle persone, in maniera discreta, non dà fastidio. E, anzi, fa della pubblicità ai ristoratori, perché il nome del ristorante viene generalmente citato quando si pubblicano quelle foto su Instagram, Facebook e Twitter”.
“Un attentato al piacere privato”
Qualche ristoratore americano – riporta LesInrocks – usa delle misure drastiche. A San Francisco il Four Barrel Coffee ha affisso un cartello che invita a “non postare foto su Instagram”, mentre a Los Angeles l’Eva Restaurant offre uno sconto del 5% alle persone che lasciano il loro cellulare all’ingresso.
In Francia, alla già citata Grenouillère da 3 anni i menu sono dotati di un disegno del divieto di utilizzo degli apparecchi fotografici.
Mentre lo chef, Alexandre Gauthier, punta il dito contro una pratica che, secondo lui, è ”incompatibile con la filosofia del ristorante”:
“L’arte di mangiare è un momento di intimità e di condivisione con le persone che sono con noi a tavola, cosa che è in contraddizione col mettere online delle foto che restano in permanenza sui vari Instagram, Twitter o Facebook. Il messaggio che voglio trasmettere è che è meglio conservare un ricordo emozionale del momento, invece che digitale. Cerchiamo di creare una parentesi nella vita dei nostri clienti e se loro sono sempre connessi non ci possiamo riuscire. Non è un capriccio da star, io voglio solo suggerire alle persone di disconnettersi per meglio vivere quei momenti”.
E comunque, al di là dell’interesse dei clienti, allo chef Gilles Goujon l’idea che il primo venuto possa considerarsi un critico gastronomico non va giù. E si lamenta della cattiva qualità delle foto prese con gli smartphone.
Rottura delle convenzioni rituali
L’articolo di Dejan – ribatte André Gunthert su Culture Visuelle – è tutto schierato dalla parte del ristoratore, considerato come parte lesa, e descrive il cliente-fotografo come un disturbatore, senza mai chiedersi quali sono gli usi di quell’immagine.
Come le foto ai musei, la registrazione visuale al ristorante viene presentata come la rottura di una convenzione in una struttura ternaria composta da 1) uno spazio fortemente ritualizzato; 2) un visitatore descritto come un ospite, tollerato da 3) una istanza tutelatrice, che è a guardia del rito ed ha poteri imperativi sul modo di farlo rispettare.
Malgrado la testimonianza di Aude Baron, critico gastronomico secondo cui ‘‘bisogna lasciare una certa libertà al consumatore“, l’articolo insiste sugli aspetti più scoccianti della pratica fotografica. L’uso del flash, del treppiede, o il ‘‘vedere dei clienti salire sulla sedia per realizzare una veduta ‘aerea’ del loro piatto”, sembrano in effetti dei comportamenti esagerati.
La verosimiglianza della descrizione soffre tuttavia della vicinanza con la menzione dello smartphone, poco compatibile con questi usi dimostrativi. Al museo come al ristorante – sostiene Gunthert – quello che disturba non è tanto l’operazione discreta di uno scatto, ma lo strepito del guardiano che ordina di mettere.
Quelli che denunciano la pratica fotografica agitano la minaccia nei confronti del diritto morale del cuoco-autore. Creazione originale, il piatto non rischia di soffrire dal’ essere riprodotto senza cipria? E si può immaginare senza tremare la critica selvaggia a cui si abbandonano sulle reti sociali degli ignoranti sprovvisti di qualsiasi competenza culinaria? E allora ci si può chiedere addirittura se sia ragionevole lasciarli gustare quelle opere d’arte.
Stranamente, l’argomento al centro dell’articolo degli Inrocks è tuttavia di grande interesse sul piano antropologico. Perché permette di verificare che la fotografia ha realmente un potere appropriativo, visto che lo scatto viene vissuto come un furto da parte del guardiano del rito.
Ma un furto di cosa? La foto di una tavola o di un piatto non può alterare la sostanza che viene riprodotta. Quello che la pratica fotografica disturba è il buon svolgimento del rituale. Si va al museo per guardare, al ristorante per mangiare, non per fare il furbo e mettere la propria firma sulle opere.
Il vero problema che suggeriscono questi laboriosi esercizi di denuncia è: perché un atto benevolo come una fotografia continua a suscitare una tale irritazione? E’ una forma di primitivismo che confonderebbe l’immagine con la cosa? Una buona risposta – conclude Gunthert – è che il modo di consumare, quello che Certeau chiamava ”l’ arte di fare”, fa parte integrante del rapporto con l’opera e che la fotografia costituisce proprio una operazione appropriativa e prima di tutto una appropriazione del modo di consumare l’opera.