#Cosedanoncredere. Se l’appeal dei prodotti italiani arricchisce le holding straniere

di di Massimiliano Dona (Segretario Generale Unione Nazionale Consumatori) |

Sfruttare e preservare valori quali creatività, professionalità operaia e competenza artigiana, rendendoli ancor di più il vero valore aggiunto del made in Italy potrebbe aiutare a mettere davvero a frutto l'investimento nel nostro capitale umano.

#cosedanoncredere è una rubrica settimanale a cura di Massimiliano Dona promossa da Key4biz e Unione Nazionale Consumatori.
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Italia


Massimiliano Dona

Acquistare un’auto italiana, fino a qualche anno fa voleva dire scegliere una vettura disegnata, prodotta e venduta da persone italiane con un marchio riconosciuto in tutto il mondo e sinonimo di made in Italy. Oggi che Fiat è diventata FCA, società di diritto olandese, quotata a New York con residenza fiscale in Gran Bretagna, di italiano è rimasto ben poco se non la facile ironia che la scelta del nome può provocare.

Da poltrone Frau a Valentino e poi Loro Piana, Pernigotti, Bertolli e ultima in ordine di tempo Krizia: sono solo alcuni dei casi più eclatanti di marchi italiani acquisiti dalle ricche holding straniere, che aumentano i loro fatturati grazie all’appeal dei prodotti italiani (seppur non italiani al 100 per cento), ma che si traducono in considerevoli mancati introiti per il sistema Italia.

 

Il settore maggiormente in difficoltà è probabilmente l’alimentare, attaccato su tutti i fronti da imitazioni che lo screditano e acquisizioni internazionali che però poi continuano a vantarsi del tricolore. Nel contempo, campagne mediatiche come quella del New York Times, di qualche tempo fa, in cui si allude a sofisticazioni del nostro olio di oliva, sicuramente non aiutano, ma dobbiamo ammettere che evidenziano un problema denunciato più volte da organi di vigilanza, movimenti dei consumatori e dagli stessi produttori.

Insomma, siamo tutti sostenitori dell’Italianità e crediamo nel valore aggiunto dei nostri prodotti, ma non possiamo nasconderci dietro alla chimera del made in Italy come panacea a tutti i mali: dati alla mano, per tornare all’olio,  produciamo circa 510 mila tonnellate di oliva, ne consumiamo 730 mila; importiamo circa 600 mila tonnellate di olio grezzo ed esportiamo 392 mila tonnellate di olio confezionato. Vien da sé qualche perplessità.

Ciò non significa che ci siano dei rischi per i consumatori, ma parlando di made in Italy è il caso di ricordare che non tutti i prodotti “tipici” sono integralmente italiani, ma soltanto quelli a Denominazione di Origine Protetta (DOP). In pratica, quindi, soltanto alcuni formaggi, qualche salume ed i vini  sono prodotti con materie prime italiane: tutti gli altri, anche quelli contrassegnati come Indicazione Geografica Protetta (IGP), Specialità Tradizionale Garantita (STG), Denominazione Comunale (DE.CO), possono essere realizzati anche utilizzando materie prime di importazione.

D’altronde, il significato del made in Italy non può essere ridotto alle sole materie prime (che intendiamoci rappresentano per alcuni prodotti eccellenze indiscutibili): creatività, professionalità operaia, competenza artigiana, sostenibilità ed innovazione sono pietre miliari che possono puntellare la nostra pur fragile economia.

Valorizzare  e  preservare questi valori rendendoli ancor di più il vero valore aggiunto del made in Italy potrebbe aiutare per mettere davvero a frutto l’investimento nel nostro capitale umano!

 

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