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In un recente articolo pubblicato sul Financial Times (“Music chiefs put faith in stream power”, 18/19 gennaio 2014) si dà notizia che nell’anno appena trascorso le vendite di canzoni in formato digitale (download) hanno registrato un calo pari al 6% nel mercato statunitense. È la prima volta che un anno si chiude con il segno negativo da quando, nel 2003, la Apple inaugurò la piattaforma di vendita iTunes store. Al contrario, sono in crescita – pur essendo ancora molto inferiori rispetto a quelli generati dai download – i ricavi dei servizi online, come lo svedese Spotify o il francese Deezer (a cui a breve si aggiungerà l’americano Beats Music), che, previo accordo con i titolari dei diritti (d’autore e connessi), mettono a disposizione degli utenti intere librerie musicali in streaming.
Questi servizi si mantengono – a fatica – economicamente utilizzando modelli di business che si fondano sul pagamento di un abbonamento mensile cosiddetto premium (in media intorno ai 10 euro), che l’utente è incentivato a sottoscrivere dopo una fase di accesso gratuito in minima parte compensato dalla presenza di inserti pubblicitari. Attualmente, gli abbonati a pagamento di un servizio come Spotify sono circa un quarto degli abbonati “gratuiti” dello stesso servizio (6 milioni contro 24 milioni); un dato comunque incoraggiante se si pensa che, nel settore dell’editoria digitale (giornali, riviste), gli abbonati premium rappresentano una percentuale molto più bassa dei lettori totali.
Fermo restando che i download rappresentano ancora la spina dorsale del mercato della musica digitale (basti pensare che l’ultimo album di Beyoncé, pubblicato solo in formato digitale sulla piattaforma iTunes, ha venduto quasi un milione di copie già nei primi tre giorni), questo mutamento – almeno in prospettiva – delle abitudini dei consumatori (dal download allo streaming) consente di svolgere alcune brevi riflessioni. La prima attiene al tema della pirateria digitale, la seconda alla salvaguardia delle prerogative morali degli autori, la terza al pluralismo culturale.
Sotto il primo profilo, la svolta culturale del passaggio dall’acquisto di un singolo album o brano (ammesso che si tratti di acquisto e non di mera licenza d’uso) all’abbonamento a un prezzo forfettario a un servizio in streaming riflette il graduale allontanamento del mercato della musica digitale dai modelli distributivi tradizionali che, negli ultimi quindici anni, sono stati devastati dalla pirateria. L’ascolto della musica non è più dipendente dalla proprietà di un supporto, seppur virtuale, come poteva essere il file mp3 (erede, quale corpus mechanicum, del vinile, della cassetta e del cd), ma si basa sull’accesso a un’ampia collezione di contenuti immateriali ospitati in uno spazio altrui ma fruibili sui propri device (computer, smartphone, lettore mp3, etc.).
Rinunciando a copiare i meccanismi del commercio dei prodotti fisici, si cercano di prevenire anche le ormai collaudate contromosse dei “pirati”: se il pagamento del servizio viene effettuato in via preventiva e forfettaria, il titolare dei diritti ha già ottenuto la rendita auspicata, potendosi disinteressare delle successive utilizzazioni illegittime delle opere (laddove tecnologicamente possibili). Nel mercato non circolano più beni singolarmente individuati e suscettibili di riproduzione illecita, ma licenze di accesso a librerie musicali che consentono la mera fruizione delle opere. In questo modo, l’offerta legale di contenuti musicali su Internet diventa finalmente innovativa, perché non si limita più a importare gli schemi tradizionali di stampo proprietario nel contesto digitale, ma consente agli utenti di ottenere un’utilità – l’accesso illimitato a una libreria di opere in continua espansione – che non sarebbe loro accessibile nel mondo off line; un’utilità, quindi, per cui gli utenti sono disposti a riconoscere un compenso.
Sembra, in altri termini, che il mercato musicale stia compiendo un deciso passo in avanti in chiave post-moderna, coerentemente con la logica dematerializzata dell’economia dei servizi (e non più dei beni) tipica del tardo capitalismo attuale. Il problema di questo modello, semmai, è quello di abituare nuovamente gli utenti a pagare per un servizio che, negli anni di incertezza – per non dire di assenza – dell’industria musicale su Internet (non a caso, gli anni d’oro della pirateria), è stato usufruito in maniera gratuita (oltre che illegale). Diventa allora determinante, ma è un lavoro che spetta agli economisti della cultura (come il collega di redazione Mattia de’ Grassi, che al tema ha dedicato varie pubblicazioni), trovare – per citare il titolo di una fortunata trasmissione degli anni Ottanta – il “prezzo giusto” dell’accesso a questi servizi in abbonamento, laddove l’aggettivo giusto rappresenta il compromesso tra quanto un utente è disposto a pagare (sapendo che l’alternativa è la gratuità) e quanto è necessario per rendere sostenibile – a livello professionale e non amatoriale – l’attività degli attori dell’industria musicale (e quindi per remunerare degnamente, tra gli altri, compositori, artisti e produttori di fonogrammi).
Il raddoppiamento degli abbonati ai servizi di streaming a pagamento registrato negli ultimi due anni sembra dimostrare che si è sulla buona strada, anche se, come si legge nel citato articolo del Financial Times, questo boom di sottoscrizioni non consente (ancora) di compensare i minori ricavi derivanti dalla diminuzione dei download. Ed infatti, una canzone diffusa un milione di volte in streaming sulla piattaforma Spotify genera circa 7 mila dollari di ricavi per i titolari dei diritti, l’equivalente di appena 12 mila download. Tuttavia, volendo vedere il lato positivo, e richiamando le tesi esposte in più libri da Lawrence Lessig, i profitti generati dai servizi in streaming, per quanto notevolmente inferiori ai ricavi derivanti dal modello proprietario di download, sono comunque maggiori del nulla che si ottiene dalla pirateria. In altri termini, è questa un’occasione, anche dal punto di vista sociologico e demografico, per riportare nell’alveo del consumo legale una vasta fetta di fruitori di contenuti musicali, compensando nel medio-lungo termine i modesti profitti di questi primi anni.
Sotto il secondo profilo, questa modalità di fruizione della musica pare più rispettosa del diritto morale degli autori all’integrità delle proprie opere, laddove per opere si intendono gli album e non solo i singoli brani. Il possibile contrasto tra tale facoltà contrattualmente irrinunciabile e la frantumazione degli album nei suoi singoli elementi costitutivi, reso prassi dalla possibilità di acquistare (scaricare) solamente uno o più brani e di ascoltarli in modalità casuale, era stato portato all’attenzione dei giuristi dai Pink Floyd.
Nel 2010, il gruppo britannico aveva richiesto a una corte inglese e ottenuto che fosse inibita alla propria casa discografica la vendita in formato digitale dei singoli brani dei propri album – dei singoli brani, cioè, slegati dagli album di appartenenza (considerati dei veri e propri concept album). Le librerie musicali in streaming salvaguardano l’integrità degli album e, quindi, la contestualizzazione dei singoli brani voluta dagli autori, fermo restando che gli utenti possono comunque decidere di ascoltare – in modo del tutto identico a quanto avviene nel mondo off line – i singoli brani che preferiscono, così come possono creare delle playlist (quelle che nel linguaggio off line si chiamano compilation o mixtape) mettendo in sequenza brani di autori e album diversi.
Sotto il terzo profilo, infine, l’accesso a un catalogo di brani assemblato da altri consente agli utenti di entrare in contatto con opere e autori inizialmente sconosciuti, aumentando gli scambi culturali all’interno della società. Nella logica del download è implicito che i nomi più forti, anche a livello di marketing, siano quelli più distribuiti (venduti), a esclusione degli altri; nella logica dello streaming, al contrario, il maggior ascolto dei nomi più forti non esclude l’accesso ai nomi meno noti, i quali sono inclusi nel pacchetto cui accede l’utente. Al riguardo, alcuni servizi, come iTunes Radio, Last.fm o l’italiana Stereomood (progetto finanziato dalla Regione Lazio e ospitato da EnLabs, incubatore della Luiss), accentuano questo aspetto di esplorazione del catalogo, proponendo agli utenti (non la possibilità di scegliere la singola canzone che vogliono ascoltare, ma) una sequenza casuale di brani sul modello radiofonico basata su un algoritmo che risponde alle richieste dell’utente (che può indicare un autore, un genere, un brano o anche solo un umore da cui partire).
I modelli di distribuzione di opere musicali in streaming, mediante l’accesso a una libreria realizzata di concerto con i titolari dei diritti ovvero l’offerta di un servizio random di tipo radiofonico, possono contribuire a salvaguardare, se non proprio a enfatizzare, il valore fondamentale del pluralismo e della diversità dell’offerta culturale, aprendo all’utente le porte di tanta musica (in particolare: indipendente) che un sistema basato sulla compravendita di singole opere fortemente pubblicizzate dall’industria rischia di tenere chiuse.
La condizione affinché ciò accada, come segnala de’ Grassi, è che questi modelli siano sostenibili anche per i distributori di contenuti indipendenti (come Last.fm o Stereomood, o come Mubi nel caso delle opere cinematografiche). Se invece il mercato si concentrerà su pochissimi grandi distributori di contenuti, legati a doppio filo con le major (le poche che sono rimaste) o addirittura nella duplice veste di produttori-distributori, con la conseguenza di tagliare fuori chiunque non si adegui al modello di business (che si estende anche alla lingua, al formato, ai contenuti delle opere e così via) da essi imposto, si correranno gli stessi rischi di impoverimento, omogeneizzazione e censura dell’offerta culturale congeniti nei modelli distributivi attualmente dominanti.