#Tecnolaw: Cyberbullismo, il Codice di Autoregolamentazione sotto la lente

di di Marco Scialdone (Avvocato, DIMT – Diritto, Mercato, Tecnologia) |

Italia


Cyberbullismo 2

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L’8 gennaio u.s. è stata approvata la prima bozza del Codice di Autoregolamentazione per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo [1].

Il Codice, redatto con il supporto delle associazioni di categoria, di esperti e di rappresentanti delle istituzioni, è ora in consultazione pubblica per ottenere ulteriori suggerimenti dagli utenti del web.

 

Com’è dato leggere nelle premesse del testo, l’esigenza di un’autoregolamentazione sul tema da parte dei fornitori di servizi di social networking e, più in generale, dei fornitori di servizi di condivisione di contenuti online nasce dalla consapevolezza del ruolo che essi hanno assunto negli ultimi anni nelle dinamiche comportamentali.

 

Si assiste, infatti, alla “crescente tendenza dei giovani a sviluppare, attraverso l’uso dei nuovi media, una forma di socialità aggressiva e violenta che può indurre all’adozione di comportamenti discriminatori e denigratori verso i propri coetanei che spesso sfociano in episodi di cyberbullismo, attraverso la diffusione di post ed immagini o la creazioni di gruppi “contro“.

 

Stante quanto sopra, si è cercato di definire all’interno del testo oggi in consultazione un insieme di regole cui gli aderenti accettano di vincolarsi al fine di prevenire e contrastare il proliferare del fenomeno del cyberbullismo.

 

Prima di entrare nel merito dei singoli articoli che compongono il Codice, giova premettere alcune riflessioni di carattere generale sul ruolo crescente che i codici di autoregolamentazione vanno assumendo nei fenomeni legati alla Rete.

 

Da oltre un decennio, autorevole dottrina [2] ha sottolineato come da un modello di Stato onnipresente (fattore di sovraregolamentazione), si sia passati ad un altro in cui la volontà privata sostituisce l’intervento statale. Sotto tale profilo, è innegabile che l’avvento di Internet, quale strumento di comunicazione globale, abbia portato a un indebolimento del concetto di sovranità nazionale e, dunque, della legge quale modello autoritativo di regolamentazione dei rapporti sociali.

 

Soprattutto nelle relazioni virtuali (giacché interamente realizzate in Internet) si assiste a un’autopoiesi delle regole: basti pensare alla c.d “netiquette” (traducibile in italiano in “galateo della Rete”), ossia quell’insieme di norme che disciplinano il comportamento di un utente in contesti telematici, non  imposte da alcuna legge, ma il cui mancato rispetto è sanzionato con la disapprovazione da parte degli altri utenti della Rete, fino all’isolamento del soggetto “maleducato” [3].

 

Vi è, da un lato, una perdita della centralità del monopolio pubblico statale della produzione normativa, dall’altro, un utilizzo dell’autoregolamentazione come strumento maggiormente efficace per la produzione di regole giuridiche nel mutato contesto tecnologico.

 

Può capitare, poi, che l’autopoiesi, espressione dell’autonomia privata, possa ricevere un riconoscimento istituzionale successivo, divenendo parametro dell’interpretazione giurisprudenziale che ne legittimità l’operatività come prassi consolidata di settore [4].

 

In questi casi, “la legittimazione che riceverebbe sul piano dell’ordinamento generale permetterebbe all’autoregolamentazione di superare i tradizionali limiti di efficacia inter partes dell’autonomia privata, consentendo alle regole autopoietiche di vincolare anche coloro che assumono la posizione di terzi rispetto ai gruppi o associazioni che le regole hanno posto e sottoscritto, quasi come fossero esse stesse fonti del diritto oggettivo” [5].

 

Merita un doveroso cenno il ruolo che la normativa comunitaria ha saputo svolgere in subiecta materia: proprio a livello comunitario nasce il fenomeno dei codici deontologici e di buona condotta in un’ottica di semplificazione ed ottimizzazione delle fonti normative.

 

Non a caso, nella vicenda di cui ci si occupa, l’articolo 16 della direttiva 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno (“Direttiva sul commercio elettronico”), ha previsto che “1. Gli Stati membri e la Commissione incoraggiano: a) l’elaborazione, da parte di associazioni o organizzazioni imprenditoriali, professionali o di consumatori, di codici di condotta a livello comunitario volti a contribuire all’efficace applicazione degli articoli da 5 a 15; b) la trasmissione volontaria dei progetti di codici di condotta a livello nazionale o comunitario alla Commissione; c) l’accessibilità per via elettronica ai codici di condotta nelle lingue comunitarie; d) la comunicazione agli Stati membri e alla Commissione, da parte di associazioni o organizzazioni professionali e di consumatori, della valutazione dell’applicazione dei codici di condotta e del loro impatto sulle pratiche, consuetudini od usi relativi al commercio elettronico; e) l’elaborazione di codici di condotta riguardanti la protezione dei minori e della dignità umana”.

 

Ecco, dunque, che la bozza di Codice di autoregolamentazione per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo, posto in consultazione pubblica, costituisce attuazione del disposto summenzionato, nella consapevolezza che, rispetto a condotte che si consumano integralmente sulla Rete, il ruolo del provider o del gestore della piattaforma è fondamentale per la prevenzione di dinamiche distorte della comunicazione online.

 

Nel codice si prevede che gli intermediari della comunicazione (fornitori di servizi di social networking, piattaforme di User Generated Content, ecc.) aderenti al Codice, debbano attivare appositi meccanismi di segnalazione di episodi di cyberbullismo, al fine di prevenire e contrastare il proliferare del fenomeno.

 

Siffatti sistemi dovranno essere adeguatamente visibili, semplici e diretti, in modo da consentire al minore l’immediata segnalazione di situazioni di pericolo e dovranno essere disponibili nella lingua dell’utente che effettua la registrazione alla piattaforma.

 

Poiché nel caso del cyberbullismo ciò che rileva non è tanto il singolo evento, ma la concentrazione di eventi in un lasso ristretto di tempo, gli aderenti al Codice si impegnano a rendere efficienti i meccanismi di risposta alle segnalazioni, anche attraverso l’oscuramento cautelare temporaneo del contenuto lesivo segnalato.

 

Nel rispetto della normativa sulla riservatezza dei dati personali, potranno essere promosse e attuate apposite politiche che consentano alle Autorità competenti di risalire all’identità di coloro che utilizzano il servizio per porre in essere comportamenti discriminatori con l’intento di colpire o danneggiare l’immagine e/o la reputazione di un proprio coetaneo.

 

Si prevede, inoltre, l’istituzione presso il Ministero dello Sviluppo Economico, di un Comitato di Monitoraggio che avrà il compito di verificare l’effettiva applicazione del Codice da parte degli operatori aderenti: laddove si riscontrino delle violazioni, il Comitato potrà formulare uno specifico richiamo nei confronti dell’aderente che se ne sia reso responsabile.

 

Come è agevole verificare, il Codice richiama molte delle prassi in uso sulle singole piattaforme di social networking o di user generated content per quanto attiene la presenza di contenuti illeciti o offensivi e denigratori nei confronti di terzi.

 

Già oggi le condizioni di utilizzo delle principali piattaforme (si pensi a Facebook, Twitter, YouTube, Vimeo) prevedono meccanismi di segnalazione e rimozione: tuttavia, gli episodi della cronaca degli ultimi mesi dimostrano che essi non sono sufficienti se non si crea un idem sentire tra tutti i soggetti coinvolti con una maggiore responsabilizzazione (nei limiti, ovviamente, di quanto previsto dalla normativa comunitaria e nazionale in materia) degli intermediari della comunicazione.

 

Il testo posto in consultazione, pur nella sua perfettibilità, ha il pregio di porre al centro della discussione il tema dell’autoregolamentazione in un contesto, quale quello di Internet, in cui è sempre più evidente che l’intervento repressivo dello Stato arrivi in ritardo, oppure sia limitato alle condotte più gravi.

 

Al contrario la tutela dei c.d. “corpi elettronici” (per citare un’espressione cara al Prof. Stefano Rodotà), ossia l’insieme delle informazioni che definiscono il modo in cui possiamo presentarci ed essere riconosciuti in Rete, implica un intervento puntuale in grado di tutelare la nostra identità nei nuovi contesti sociali (tali sono i contesti di Facebook o Twitter, ad esempio).

 

La strada dell’autoregolamentazione appare, dunque, a parere di scrive, quella che meglio è in grado di rispondere in prima istanza alle predette esigenze di tutela, lasciando all’intervento normativo statale, da un lato, un ruolo di copertura e di controllo dell’autonomia privata, dall’altro la repressione delle condotte maggiormente lesive dei diritti e delle libertà individuali.

 

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[1] Il cyberbullismo o ciberbullismo (ossia “bullismo” online) è il termine che indica atti di bullismo e di molestia effettuati tramite mezzi elettronici come l’e-mail, la messaggistica istantanea, i blog, i telefoni cellulari, i cercapersone e/o i siti web. Il termine cyberbullying è stato coniato dall’educatore canadese Bill Belsey. I giuristi anglofoni distinguono di solito tra il cyberbullying (cyberbullismo), che avviene tra minorenni, e il cyberharassment (“cybermolestia”) che avviene tra adulti o tra un adulto e un minorenne. Tuttavia nell’uso corrente cyberbullying viene utilizzato indifferentemente per entrambi.” (Fonte Wikipedia, voce “cyberbullismo”, consultata il 16 gennaio 2013)

 

[2] Cfr. G. ALPA, La c.d. giuridificazione delle logiche dell’economia di mercato, in Riv. Trim. proc. Civ. 1999, pag. 725 ss.

 

[3] Cfr. G. Ziccardi, Etica e Informatica. Comportamenti, tecnologie e diritto, Milano 2009, pag. 28, “si è lungamente dibattuto con riferimento al regime sanzionatorio da applicare nel caso di un’eventuale trasgressione alla norme di comportamento previste dalla netiquette: essendo la netiquette un documento di autoregolamentazione elaborato da soggetti privati, non da istituzioni pubbliche, l’unica forma di sanzione prevedibile potrebbe essere quella di escludere il trasgressore dai gruppi di discussione, oppure di impedirgli l’accesso e la fruizione di determinati servizi disponibili online (quelle che si potrebbero definire sanzioni tecnologiche). Non trattandosi di norme aventi carattere giuridico vincolante, non possono infatti essere imposte: il tentativo è quello di operare, in determinati ambienti e comunità, affinché siano accettate volontariamente dagli utenti”.

 

[4] Cfr. A. Vitale, I Codici di autoregolamentazione tra autonomia collettiva e coregolamentazione. I codici di buona condotta e la normativa sulla privacy, Roma 2004, pag. 16.

 

[5] A. Vitale, id., pag. 17.

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