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E’ quasi superfluo rimarcare quanto il complessivo quadro normativo della PI si sia complicato – e con speciale intensità nell’ultimo cinquantennio – rispetto alla classica rappresentazione delle grandi Convenzioni di fine ‘800, Parigi e Berna. In estrema sintesi, alla intrinseca diversità di oggetto, funzione, lineamenti caratteristici dei singoli paradigmi fondamentali (brevetto, marchio, diritto d’autore), sì è aggiunta una progressiva frammentazione interna, per così dire, dei medesimi.
Si pensi alla varietà di modelli brevettuali ‘speciali’ (per novità vegetali, biotecnologie, topografie di semiconduttori) [1] , o alla varietà di (regimi dei) diritti c.d. connessi con il diritto d’autore. Si pensi poi alla crescente reciproca ‘ibridazione’ e sovrapposizione (cd overlapping) dei paradigmi medesimi: come avviene, ad esempio, per la tutela dei prodotti dell’industrial design, affidata ad un regime di registrazione che fonde lineamenti di stampo brevettuale con altri caratteristici della tutela dei segni distintivi. E altresì alla cd cumulabilità di detto regime con la protezione di diritto d’autore.
Non ultimo fattore di complicazione è costituito dalla presa di coscienza della necessaria ‘interferenza’ delle norme sulla concorrenza (sleale e antitrust) nel regime dei diversi paradigmi della PI. Il tutto, poi, è oggetto di una sempre più intensa alluvione regolatoria, sia nazionale sia internazionale, comunitaria in particolare.
La continua (dis)articolazione del quadro normativo della PI ha favorito il radicarsi di una riflessione e persino di una didattica che sogliono ricostruire i singoli istituti – e i loro ‘sottosistemi’ – secondo un’ottica per così dire separatista. Che quegli istituti legge isolatamente: non solo l’uno dagli altri, bensì anche rispetto al complessivo panorama di principi giuridici che investe le attività e gli interessi coinvolti dall’esercizio dei diritti di proprietà intellettuale. Un panorama che ovviamente comprende, in cima alla piramide, i riferimenti costituzionali.
Detta tendenza ‘separatista’ (cui non pare azzardato ricollegare un modo di produzione legislativa sempre più ‘formato’ da interessi settoriali, e conseguentemente sempre più insensibile all’imperativo di coerenza sistematica) ha indubbiamente contribuito e contribuisce a produrre risultati di alto approfondimento analitico. Tuttavia essa espone l’interprete al rischio di sacrificare due preminenti esigenze metodiche, che un’autorevole dottrina anglosassone definisce con i termini, rispettivamente, di consistency e di coherence [2]. Quella, da un lato, di leggere la disciplina di uno specifico paradigma in senso non contraddittorio con l’indicazione normativa che, rispetto alla stessa ‘materia’, un altro paradigma esprima in relazione ad una funzione protettiva distinta, e come tale intrinsecamente ‘non conflittuale’. L’esigenza, dunque, che…la destra sappia quel che fa la sinistra, evitando di metter capo ad altrimenti facili contraddizioni interne alla disciplina della PI.
L’altra esigenza che una ricostruzione a compartimenti stagni dei diversi paradigmi della PI rischia di sacrificare, è quella or ora accennata – e che anche la nostra Corte di Cassazione fece propria, nell’ultimo decennio del secolo trascorso, sotto l’impulso di Giuseppe M. Berruti – e cioè di interpretare la disciplina della PI in modo coerente con i principi di rango costituzionale (nella sintesi di formale e materiale) complessivamente riferibili alle attività coinvolte ed alle pretese fatte valere nell’ambito dei conflitti di interesse fra titolari diversi, e fra titolari e terzi, scaturenti dall’esercizio di diritti di proprietà intellettuale. Un insieme di principi, riconducibili in essenza alle due fondamentali ‘libertà eguali’ di iniziativa economica (e quindi di concorrenza), e di espressione (nel lato attivo e passivo). Principi che la disciplina di quei paradigmi avvince, e il ruolo direttivo dei quali – ruolo primario, non residuale – nell’interpretazione della normativa ordinaria non potrebbe esercitarsi in modo organico nell’ambito, appunto, di una ricostruzione ‘separatista’ dei diversi paradigmi.
E v’è (ben) di più. Quei principi di rango costituzionale esprimono i canoni etico-politici della comunità organizzata, storicamente elaborati ed affermati attraverso la dialettica, spesso accesamente conflittuale, tra diversi interessi sociali. Preterire quei principi, e comunque non valorizzarli effettivamente come stella polare della ricostruzione della disciplina, comporta l’ulteriore e ancor più grave rischio di non capire dove (e perché) ‘si va’, o se si preferisce, cui prodest cui nocet, a seguito dell’adozione di questo, o quell’altro, provvedimento legislativo, o indirizzo interpretativo.
Il rischio dunque, per i giuristi, di ridursi a pur eleganti esegeti e/o pur eruditi ‘specialisti’: bravissimi a contare gli alberi ma incapaci di vedere la foresta, e di percepire il vento che l’attraversa. O peggio ancora: bravissimi nell’usare sapienza esegetica ed erudizione specialistica per mascherare ‘tecnicamente’ soluzioni al servizio di obbiettivi (leggi: interessi particolari) non dichiarati.
Note
[1] Richiamo la nota, felice definizione di “stellare”, che Vincenzo Di Cataldo riferisce al sistema brevettuale contemporaneo.
[2] N.MacCormick, Coherence in Legal Justification, in A. Peczenik, L. Lindhal, B. van Roermund (eds.), Theory of Legal Science, Reidel,Dordrecht, 1984, 235-251.