Italia
#PAdigitale è una rubrica settimanale a cura di Paolo Colli Franzone promossa da Key4biz e NetSquare – Osservatorio Netics. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.
L’allarme in rete si è propagato velocemente, in questo periodo di transizione dall’anno vecchio all’anno nuovo: nella programmazione dei fondi strutturali 2014-20, pare, non ci saranno risorse destinate all’infrastrutturazione digitale.
Brutta notizia, assolutamente.
Anche se …
Anche se, pensandoci bene, forse questa potrebbe essere una bella notizia. Nel senso che potrebbe essere – finalmente – l’occasione giusta per iniziare a fare una checklist per provare a capire se abbiamo per caso dimenticato qualcosa, prima di “chiedere soldi”.
Perché noi siamo quella stessa Italia che ha quasi letteralmente “bruciato” centinaia di miliardi (di lire) a suo tempo allocati sul mitico “piano nazionale di e-government” (2001) che di cose ne ha prodotte davvero pochine; siamo la stessa Italia che non è riuscita a finire di spendere qualche miliardo di euro del mitico “Piano per la Società dell’Informazione” della programmazione 2007-13.
Varrebbe la pena di chiedersi il perché.
Scartando assolutamente l’ipotesi dell’incapacità nell’execution (siamo capaci, quando vogliamo), non rimangono che due possibili fattori di debolezza: la nostra capacità di pianificare e la debolezza nella governance dell’innovazione.
Il primo è, forse, il problema più serio: da anni ci ripetiamo che occorre un vero e proprio “piano industriale dell’innovazione”, ma non riusciamo a scriverlo. Ci limitiamo a fare “wish list“, elenchi della spesa dove inanelliamo “titoli” (interoperabilità, cooperazione applicativa, data center, open data, web 2.0, eccetera) e affianchiamo a ciascun titolo una cifra. Nella migliore delle ipotesi, arriviamo a fare un Gantt e a mettere in fila qualche indicatore di performance costruito “a comodo nostro”.
Provate a fare una ricerca in rete, digitando “piano industriale dell’innovazione”: troverete un sito (Ministero della PA), dei documenti datati 2011-2012, programmi di convegni. Stop.
Peraltro, i documenti (ancorché “vecchi”) risultano anche “concettualmente sbagliati”.
Un “piano industriale” è qualcosa di concettualmente e strutturalmente definito: non è, innanzitutto, un “elenco di titoli” o una declaratoria di obiettivi strategici con annessa sintesi delle azioni finalizzate al loro raggiungimento. Dovrebbe essere un documento finalizzato in primo luogo a definire una vision di lungo periodo (“come sarà la Pubblica Amministrazione del 2020”, per fare un esempio) identificando il percorso per la creazione di valore: cosa, quando, come, con quali persone, con quali mezzi finanziari, con quali ritorni preventivati.
Noi, purtroppo, ci siamo limitati a identificare il “cosa” e il “quanto potrebbe costare”. Paradossalmente, dimenticandoci di descrivere il “risultato finale” (la “nuova PA”).
Il secondo fattore (la governance) è ormai diventato quasi una barzelletta: dal 2006 (e sono passati quasi otto anni!) abbiamo provato tutte le combinazioni possibili, affidando a tavoli più o meno probabili il compito di trovare “la ricetta perfetta”, l’equilibrio “politico” tra i diversi livelli amministrativi (Stato-Regioni-Autonomie Locali).
Tavoli frequentati perlopiù da “tecnici”: e fin qui, non ci sarebbe niente di male. Se non fosse che questi “tecnici” in moltissimi casi sono dei bravi/bravissimi “informatici”. Come dire: parliamo di Java, di XML, di semantica e di ontologia, et voilà: abbiamo fatto tutto.
“Dateci un miliardo di Euro, e vi cambieremo il mondo”.
Salvo poi che ciascuno si è costruito il “suo pezzo”, pensando che fosse il migliore. E poco importa, sapere a cosa avrebbe dovuto servire; meno ancora, importa sapere se “quel pezzo” è in grado di comunicare “con quell’altro”. E vai di sovrastrutture di integrazione, con relativi sovracosti.
La provocazione è questa: “ben venga, la mancanza di fondi”.
Dobbiamo invertire il paradigma: “prima vedere cammello, poi cacciare denari”.
Dove “cammello”, badiamo bene, significa quel famoso benedetto “piano industriale”.
Adesso il tema è: chi è, colui che “deve vedere cammello” (e valutarlo)?
E siamo al punto di partenza.
Il “regista”.
Avvertenza finale: non torniamo, per carità, a evocare cabine/gabine di regia. Tantomeno, i tavoli.
Un regista.
Il più possibile “vicino” a Palazzo Chigi. Possibilmente, un suo inquilino.
Con Regioni, Autonomie Locali, e tutti gli altri stakeholder a condividere un piano “vero”. Condividendo anche quel minimo di “rischio industriale” correlato: tutti (compresi i fornitori) partecipano alla stesura del piano. In modo trasparente, Open by default.
Dopodichè si torna a Bruxelles, e si ridiscute.