La decisione dei tre soci italiani di Telco, la società che controlla Telecom Italia, di uscire dalla società e di forzare Telefonica a comprare le loro azioni sta provocando moltissime dichiarazioni politiche. Chi è già conosciuto sembra pensare che non esprimersi sull’argomento lo faccia apparire come non in sintonia con i problemi del momento, chi è poco conosciuto salta sull’occasione per far parlare di se. Tutti esprimono la loro opinione; ma ben pochi sembrano avere una conoscenza pur appena approssimativa dei fatti. Non sapendo che dire sul fondo, la stragrande maggioranza di chi si esprime ricade sul cliché del carattere “strategico” della rete e sull’importanza che resti in mani italiane. Nessuno spiega quali sarebbero i rischi che la “rete” correrebbe sotto controllo estero (e come potrebbe, visto che non ce ne sono di significativi?). Si ricade quindi su di un nazionalismo economico senza giustificazione, ma che, come ogni forma di nazionalismo, si appoggia su sentimenti profondi che “funzionano” sempre. Purtroppo le dichiarazioni che mi lasciano perplesso vanno da quelle del primo ministro Enrico Letta a quelle del presidente del Copasir, Gianni Stucchi. Offro in questo pezzo alcuni commenti su vari aspetti delle dichiarazioni di questi giorni.
Primo punto: di quale “rete” parliamo?. E’ vero che Telecom Italia ha la proprietà della più grossa rete di telecomunicazioni che abbiamo in Italia, ma non della totalità della rete che gli italiani utilizzano. Questa è la situazione che esiste in praticamente tutti i paesi al mondo. La rete di Telecom Italia include anche i sistemi di trasmissione tra le grandi città e tra queste e i centri minori. Ma collegamenti di questo tipo li hanno anche Fastweb, Wind, British Telecom e tante altre società di telecomunicazioni i cui nomi non dicono nulla al grande pubblico. Sulle grandi distanze il mercato è competitivo e c’è un’abbondanza di alternative. Dove Telecom Italia ha ancora un certo grado di monopolio è nel cosiddetto “ultimo miglio“, ossia nel doppino di rame che va dalla centralina locale all’abitazione dell’utente. Tutte le discussioni in corso da anni sulla “rete di Telecom Italia” e su di un suo eventuale scorporo si riferiscono all’insieme di milioni e milioni di linee locali. Mia sorella a Spoleto sarà contenta di sapere che quando Enrico Letta parla della rete di Telecom Italia come di un asset strategico, si riferisce al doppino che va dalla frazione di Beroide fino a casa sua. Sono convinto che l’ottanta per cento dei politici che parlano di Telecom Italia ignorano questo fatto.
Secondo punto: questa rete deve essere di proprietà pubblica? Le tante discussioni sulla proprietà di questa rete da parte dell’ex-monopolista o da parte di una società terza, forse di proprietà pubblica, sono fatte unicamente in termini di contributo che una soluzione del genere potrebbe dare allo sviluppo della concorrenza, della varietà dei servizi e della scelta offerta ai consumatori. Nessun governo dei paesi industriali sembra avervi notato grandi aspetti “strategici” oltre a quello dello sviluppo del settore delle telecomunicazioni.
Tutti i governi dei paesi avanzati si sono detti che un’impresa di stato con la proprietà della rete (ossia dei milioni di linee dalle centraline alle case degli utenti) avrebbe avuto poche probabilità di essere più rapida, efficiente e dinamica di una società privata che offra anche servizi. La separazione (detta “strutturale“) tra la proprietà del grosso della rete e l’offerta dei servizi rischia di creare una situazione con interessi divergenti. Potrebbe apparire una nuova soluzione tecnologica che permetterebbe nuovi servizi. Chi offre i servizi sarebbe interessato ad offrire questi nuovi servizi e vorrebbe che questa tecnologia fosse utilizzabile sulla rete, ma la società che la gestisce può pensare che un miglioramento della qualità della rete -probabilmente con costi non trascurabili – non rientri nei suoi piani di investimento.
La proprietà della rete (indipendentemente dalla nazionalità dell’investitore) potrebbe quindi avere un’importanza forte per l’assetto concorrenziale del mercato delle telecomunicazioni, ma non ci sono altri aspetti che potrebbero essere influenzati da una eventuale proprietà estera. La rete serve per offrire servizi in Italia e questo è quello che qualsiasi proprietario vorrà fare. A sentire le dichiarazioni di questi giorni sembra che qualcuno pensi che investitori stranieri possano portarsi via la rete (le decine di milioni di linee locali).
La Germania e la Francia hanno ancora la proprietà di una parte minoritaria delle azioni di France Telecom e Deutsche Telekom, ma questo è dovuto soprattutto alla volontà di difendere i livelli di occupazione in queste due società (cosa di cui i dirigenti delle due società si lamentano spesso). In queste due società ci sono ancora decine di migliaia di ex-dipendenti dei vecchi ministeri delle poste che mantengono lo statuto di dipendenti pubblici; è opinione comune che l’occupazione di molte di queste persone non si giustifichi in termini economici. Dal punto di vista della gestione non ci sono grandi differenze tra queste due società e Telecom Italia (e entrambe hanno poi più debiti di Telecom Italia).
Gli unici casi di paesi che hanno deciso di costruire una rete nazionale sono paesi molto piccoli e con grosse disponibilità finanziarie come Singapore e il Qatar. Anche l’Australia aveva deciso di farlo, ma il nuovo governo conservatore ha già annunciato di voler bloccare il progetto.
Terzo punto: il “tormentone” dello scorporo della rete di Telecom Italia. Questo è un punto, legato al precedente, dove la complessità del tema è aumentata da posizioni volutamente poco chiare di alcuni attori importanti.
Il punto di partenza di questa discussione è il fatto che Telecom Italia non investe massicciamente (lo fa, ma entro limiti considerati insufficienti da molti osservatori) per dotare l’Italia di una rete di telecomunicazioni moderna basata sulla fibra ottica. La mancanza di questa rete costituirebbe una palla al piede per lo sviluppo del paese. Questo sarebbe per alcuni un caso di “fallimento di mercato” che richiederebbe la creazione di una società a guida pubblica che costruisse questa rete al posto di Telecom Italia. Per realizzare questa rete sarebbe però necessario trasferire da Telecom Italia a questa nuova società la proprietà delle milioni di linee in rame dalle centraline alle residenze degli utenti (la “rete“). La nuova rete sarebbe basata sulla fibra fino alle centrali o agli armadi e poi arriverebbe nelle case sul doppino di rame attuale grazie a tecniche come il VSDL, VSDL2 e il “vectoring“. Queste permetterebbero di raggiungere capacità di 60-70 megabit al secondo (in alcuni casi anche di più). Il passaggio generalizzato alla fibra fino agli utenti sarebbe un obiettivo a medio-lungo termine.
Questo ragionamento sconta un errore logico di partenza. Telecom Italia non investe cifre maggiori nella fibra non solo perché – come sappiamo – ha un forte indebitamento e una situazione finanziaria non proprio brillante ma soprattutto perché questi investimenti aggiuntivi non renderebbero abbastanza per poter rimborsare i prestiti contratti per farli. Quanti di noi sarebbero oggi disposti a pagare quindici/venti euro in più al mese per avere 60 o 100 megabit al secondo invece di sei/sette? Ben pochi. Nei paesi scandinavi, quando una società di telecomunicazioni, una Telia Sonera, porta la fibra in un nuovo quartiere può sperare che almeno la metà delle famiglie raggiunte dalla fibra (“passate” dalla fibra) sottoscriva un contratto. Fastweb e Telecom Italia hanno dovuto riconoscere che da noi solo una frazione infima delle famiglie raggiunte dalla fibra sottoscrive un contratto. Inoltre, chiunque investa sulla fibra creando una nuova rete sarà obbligato dal regolatore a metterla a disposizione dei suoi concorrenti a prezzi regolamentati. Anche per questo motivo, uno scorporo di questo genere non è mai stato fatto in nessun paese.
Il dibattito va avanti da anni e, secondo me, non porterà ad assolutamente nulla. Ma per vari motivi le posizioni dei partecipanti sono volutamente poco chiare e si prestano a malintesi e fanno continuare un dibattito che non avrebbe dovuto durare più di qualche settimana.
Per Telecom Italia, lo scorporo della rete significherebbe farle perdere tutto quello che ancora la distingue dagli altri tantissimi operatori telecom italiani. Senza la rete diventerebbe una società con una piccola frazione dell’occupazione attuale e senza prospettive migliori di quelle di tutti gli altri operatori presenti oggi sul mercato italiano. Tutti gli ex-monopolisti in ogni paese si sono sempre opposti ferocemente ad ogni idea di scorporo (chiamato nel gergo del settore “separazione strutturale“). Ma Telecom Italia non strilla contro l’idea perché pensa che se la sua rete le fosse pagata una barca di soldi, questo potrebbe permetterle di uscire dall’inferno del debito nel quale si trova da anni. Visto che non ci sono precedenti, è difficilissimo dare un prezzo “equo” alla rete di Telecom Italia e girano le cifre più strane. Alcuni dicono che Telecom Italia potrebbe essere tentata ad accettare lo scorporo se la nuova società le pagasse la rete almeno 13-15 miliardi di euro.
Dall’altro lato, non si vede chi potrebbe tirare fuori questi soldi. Si vagheggia di un intervento della Cassa Depositi e Prestiti. Ma questa non sarebbe mai disposta a mettere sul tavolo una cifra come quella che si attribuisce a Telecom Italia (parliamo di una cifra pari a quasi un punto di PIL) e viene sollecitata anche in tantissimi altri campi. Forse la Cassa Depositi e Prestiti sarebbe disposta a mettere sul tavolo 2 o 3 miliardi (ipotesi mia) a condizione che qualcun altro investisse una cifra analoga. In ogni caso, esiste un divario fortissimo tra quello che si immagina Telecom Italia potrebbe richiedere e quello che gli acquirenti potrebbero offrire. Ma Telecom Italia non chiude la porta (tutto può succedere) e la Cassa Depositi e Prestiti probabilmente non vuole alienarsi il sostegno dei governi dicendo esplicitamente che le cifre necessarie sono fuori delle sue possibilità e delle sue valutazioni.
Ma il prezzo della rete è solo il primo passo. Bisognerebbe poi trovare i miliardi – almeno dieci in una prima fase – per cominciare a creare la rete (Telecom Italia credo investa nella fibra un paio di miliardi all’anno; se vogliamo far meglio dovremo investire di più se no l’operazione non avrebbe senso). Da dove possono venire? Mistero. E come si ripagherebbero questi miliardi visto che gli italiani non sembrano considerare alte capacità di internet come una necessità? Vedo il rischio che i prezzi che si consentirebbe di praticare a questa nuova entità pubblica sarebbero sensibilmente più alti di quelli che oggi sono permessi a Telecom Italia e alle altre società. Sarebbe veramente ironico.
Quarto punto: la privatizzazione di Telecom Italia sarebbe stata fatta male. Enrico Letta ha detto che quella di Telecom Italia non è stata una privatizzazione riuscita. Certo oggi la società sta peggio di come stava nel 1997. Allora aveva la totalità del mercato italiano, oggi non arriva al 50 per cento. Ma questo significa dimenticare che, dalla fine degli anni novanta, in tutta l’Unione europea è stata applicata una politica draconiana di attacco alle posizioni degli ex-monopolisti che sono stati obbligati per legge ad aprire le loro reti a prezzi fissati dal regolatore. Nei maggiori paesi dell’Unione europea le società monopoliste del passato sono oggi quasi in ginocchio. È il risultato di una scelta politica esplicita che ha dato i risultati sperati, almeno in termini di riduzione delle posizioni di monopolio. Non possiamo stupirci se il nostro ex-monopolista oggi sta peggio di come stava quindici anni fa, lo abbiamo voluto noi. Nel Regno Unito, British Telecom ha solo il 25 per cento del mercato al dettaglio. Telecom Italia, con il 47 per cento, è una di quelle che hanno resistito meglio (alcuni dicono che questo è dovuto al fatto che non è stata “mazziata” a sufficenza dai regolatori).
Alessandro Penati su La Repubblica afferma che la privatizzazione, dal punto di vista finanziario, è stata un successo: oggi lo stato non otterrebbe più il prezzo che ha incassato nel 1997. Penati ricorda che forse si poteva cogliere l’occasione della vendita per separare la rete dal resto, ma questo avrebbe svalutato enormemente il valore della parte da privatizzare e l’incasso realizzabile. Il governo Prodi decise che far cassa era più importante.
Quinto punto: sicurezza nazionale o carattere “strategico”. Il presidente del Copasir, il leghista Gianni Stucchi, ha dichiarato che l’aumento della partecipazione azionaria di Telefonica creerebbe problemi per la sicurezza nazionale. Altri, mescolando cose diverse, hanno affermato che il carattere “strategico” di Telecom Italia sarebbe dovuto agli aspetti di sicurezza delle comunicazioni. C’è chiaramente un problema di sicurezza delle reti di telecomunicazioni: integrità delle reti e confidenzialità delle informazioni trasmesse. Ma questo vale per tutte le reti e non vedo cosa c’entri la proprietà di un’azienda. Esistono già molti obblighi in questo campo; forse alcuni di questi possono essere rafforzati, ma il rispetto di questi obblighi – presenti o futuri – non ha nulla a che vedere con la proprietà dell’azienda.
Telefonica era già l’azionista di riferimento di Telco e di Telcom Italia. Le cose oggi non cambiano molto. Sostenere poi che una Telecom Italia in mani italiane, come che quella che ha avuto Tavaroli e i suoi dossier, dia maggior sicurezza, fa sorridere. Ma poi Stucchi sembra ignorare che quasi la metà delle comunicazioni mobili italiane e una buona fetta di quelle fisse sono nelle mani di una società russa (Vimpelcom che controlla Wind) e una cinese (Hutchison Whampoa che controlla completamente “Tre”). Ma “Mamma, li spagnoli“!
Sesto punto: l’inadeguatezza del diritto societario italiano. Il caso Telecom Italia mette in risalto il fatto che il diritto delle società in Italia è, in alcune sue parti, chiaramente inadeguato. Il sistema del controllo attraverso società multiple depriva la maggioranza degli azionisti di ogni diritto ed è una violazione di ogni principio di mercato. L’azionista di “riferimento” di Telecom Italia è una società chiamata Telco che ha solo il 22,4 per cento delle azioni di Telecom Italia. L’operazione di cui si sta parlando in questi giorni è avvenuta tra gli azionisti di Telco (Telefonica e tre gruppi italiani) e questo porta al risultato apparentemente paradossale che il presidente esecutivo di Telecom Italia possa dire di non averne saputo nulla e di aver appreso dell’operazione “dalla stampa e dei comunicati degli attori coinvolti“, cosa probabilmente vera.
Telefonica probabilmente non aveva nessuna voglia di comprare (comprensibile considerando la sua situazione finanziaria), ma i tre gruppi italiani volevano vendere (Medibanca aveva già svalutato le azioni di Telecom Italia nel suo bilancio fino a 0.50 euro, al di sotto del valore di mercato). Il patto tra gli azionisti di Telco scadeva a giorni e i tre soci italiani hanno fatto valere la possibilità di sciogliere la società e vendere sul mercato l’attivo della società (azioni di Telecom Italia). Ma azioni che permettono il “controllo” valgono di più di azioni normali e lo scioglimento della società (Telco) avrebbe significato la svalutazione forte anche delle azioni detenute da Telefonica, che era il più grosso socio di Telco, senza averne però la maggioranza assoluta. Per evitare di vedere le sue azioni svalutate, Telefonica ha accettato, probabilmente controvoglia, di comprare progressivamente le azioni degli altri tre (semplifico un po’ sui dettagli molto complessi dell’accordo raggiunto).
Il fatto che Telefonica abbia oggi un peso maggiore in Telecom Italia non è positivo per quest’ultima e non lo è per gli azionisti che detengono l’altro 78 per cento delle sue azioni. Ma questi non hanno avuto nulla da dire su di un’operazione che li danneggia, ma che si è svolta all’interno di Telco. Non hanno nemmeno avuto la possibilità di acquistare le azioni in vendita. Bisognerebbe riformare il diritto societario italiano per evitare queste cose e far si che i passaggi di proprietà si facciano in maniera trasparente e sul mercato. Non si son sentiti molti politici dire qualcosa su questo punto nel coro di affermazioni a sproposito “sul ruolo strategico della rete di Telecom Italia” al quale stiamo assistendo.
Settimo punto: la “golden share”. Qualcuno ha parlato invece della necessità di utilizzare la “golden share”. Al di la delle mille perplessità che questo strumento suscita di per se, non si vede su cosa il governo potrebbe oggi utilizzare la sua “golden share”. L’azionariato di Telecom Italia non è cambiato minimamente. E’ cambiato l’azionariato interno di uno degli azionisti di Telecom Italia e il consiglio di amministrazione di Telecom Italia non è oggi chiamato a prendere decisioni strategiche in seguito all’accordo Telco.
Qualcuno avrebbe chiesto un decreto legge per precisare che la golden share copre anche la rete e sembrerebbe che il Consiglio dei Ministri possa adottare un decreto in questo senso. Ma ogni “decisione strategica” è già oggi coperta dalla golden share. Secondo indiscrezioni di stampa il testo permetterebbe anche di bloccare il passaggio ad investitori stranieri della proprietà di società italiane attive in molti settori. E questo proprio mentre il primo ministro sta cercando di convincere la comunità finanziaria internazionale a venire ad investire nel nostro paese!
Ma i problemi creati dall’aumento della partecipazione azionaria di Telefonica non hanno nulla a vedere con la “rete“. Il problema più serio è che Telecom Italia sarà incoraggiata a vendere – anche sotto la pressione delle autorità di concorrenza locali – gli investimenti che ha in Argentina e Brasile, che erano il suo fiore all’occhiello, ma che sono chiaramente in concorrenza con quelli di Telefonica. Questo è l’aspetto veramente negativo dell’alleanza con Telefonica (che poi non vorrà certo che Telecom Italia si presenti su altri mercati come un suo concorrente possibile).
L’ultima dichiarazione che mi sorprende è quella relativa d una “verifica del prezzo pagato da Telefonica“. E su che base?
Concludo ricordando che nel corso dei suoi quindici anni di vita Telecom Italia non è certamente stata gestita bene, ma molti dei suoi problemi attuali vengono proprio dalle interferenze partitiche/politiche del passato. La più grave è stata quella di essersi opposti all’ingresso dell’AT&T qualche hanno fa e di aver invece incoraggiato l’arrivo di Telefonica che è, secondo me, il partner sbagliato.
Ma Alessandro Penati nel suo articolo della Repubblica, che consiglio di leggere, ci ricorda che ogni volta che lo stato italiano si è occupato di Telecom Italia, l’aspetto dello sviluppo futuro della società è stata l’ultima delle sue preoccupazioni. Lo stato si è preoccupato solo di mantenerne il controllo in una maniera od un’altra.
Enrico Letta è a New York per incoraggiare gli investitori stranieri a venire in Italia. Ma la paura dell’investitore estero che traspare da ogni dichiarazione sulla presenza di Telefonica in Telecom Italia rende la sua missione impossibile.