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Lettera ANESTI. La crisi tra errori di previsione e manovre disperate: l’inflazione distruggerà l’economia?

Italia


Prosegue con la pubblicazione della seconda ‘Lettera ANESTI’ la collaborazione tra Key4biz ed Eutimio Tiliacos, un analista di grande esperienza internazionale che conosce molto bene l’Italia e con cui cercheremo di maneggiare di volta in volta le migliori chiavi di lettura per comprendere meglio le dinamiche che stanno riformulando i ranking internazionali tra economia, finanza, manifatturiero, conoscenze e istituzioni internazionali. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

 

La domanda che ricorre più di frequente in questi giorni fra economisti e policy makers è: perché nonostante le ampie iniezioni di liquidità delle banche centrali di molti paesi e i grandi sforzi compiuti dai contribuenti sul piano fiscale, la crisi continua ad albergare fra di noi? Se lo chiedono in molti e il dibattito si sta facendo acceso. Le possibili spiegazioni sono due, non conflittuali fra di loro ma ambedue concorrenti a chiarire lo stesso problema.

 

La prima è che si siano tratte conseguenze affrettate da studi e valutazioni che si sono ora rivelati sbagliati nel metodo e nella sostanza e hanno determinato errori di politica economica indirizzandola troppo poco alla salvaguardia dello sviluppo e proiettandola invece troppo e malamente al contenimento e rientro dal debito pubblico. Nel numero di Gennaio di quest’anno di Lettera ANESTI riferivamo del documento del Fondo Monetario Internazionale a firma del capo economista del Fondo Olivier Blanchard (2013 International Monetary Fund WP/13/1 http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2013/wp1301.pdf) in cui si affermava che, mentre sulla base di precedenti studi si riteneva che per ogni 1% di aumento della pressione fiscale l’effetto indotto frenante sul PIL sarebbe stato appena dello 0,5%,  si è successivamente accertato a posteriori, in contesto di crisi diffusa a livello globale quale l’attuale, che l’impatto sia stato in realtà dell’1,65%. Pari cioè a tre volte l’effetto massimo temuto. A questo errore se ne è aggiunto un altro, chiamato scherzosamente “The Excel depression” (dal nome del famoso programma di calcolo della Microsoft) anch’esso derivante da imprecise stime economiche, formulate stavolta da due economisti molto influenti dell’Università di Harvard, Carmen Reinhart and Kenneth Rogoff (spesso per brevità citati come: RR). Assieme avevano pubblicato nel 2010 uno studio affermando che, superato il 90 % di rapporto debito/PIL, l’effetto sulla crescita, nel caso di una ulteriore lievitazione del debito, sarebbe stato non espansivo ma addirittura recessivo e -prendendo a riferimento un gruppo ampio di paesi che eccedevano tale rapporto- avevano misurato l’effetto in un meno 0,1 %.  E’ però venuto alla luce in questi giorni, grazie ad una revisione dell’indagine effettuata da un gruppo di economisti della University of Massachusetts Amherst, che i dati e le conclusioni a cui erano giunti RR erano stati (non si sa quanto intenzionalmente) manipolati/e inserendo ed escludendo ad arte, a seconda dei vari passaggi dello studio, alcuni paesi; inoltre i due autori avevano commesso errori anche nelle formule a cui era stato applicato il programma di calcolo Microsoft Excel col risultato che invece del -0,1% stimato, la media storica della crescita di paesi caratterizzati negli anni da debito/PIL superiore al 90% era in realtà risultata essere del + 2,2%. Visto il prestigio di cui godevano Reinhart e Rogoff, le loro conclusioni avevano però nel frattempo condizionato -per circa un triennio- la politica economica di molti paesi, esacerbando in particolare negli Stati Uniti il dibattito sulla politica fiscale e sul budget statale frenando le politiche di rilancio dell’economia e della occupazione, come ci dice Paul Krugman nel brano qui di seguito riportato (“In this age of information, math errors can lead to disaster. NASA’s Mars Orbiter crashed because engineers forgot to convert to metric measurements. So, did an Excel coding error destroy the economies of the Western world ?..…For three years, the turn to austerity has been presented not as a choice but as a necessity. Economic research, austerity advocates insisted, showed that terrible things happen once debt exceeds 90 percent of G.D.P.  But “economic research” showed no such thing; a couple of economists made that assertion, while many others disagreed. Policy makers abandoned the unemployed and turned to austerity because they wanted to, not because they had to” cfr: Paul Krugman «The Excel Depression» 18 Aprile 2013). La vicenda delle false indicazioni alla politica economica che possono scaturire da errati studi o errati presupposti, ricorda molto nel possibile titolo “The double falsehood” (ossia: la doppia falsità) quella che Brean Hammond del Linacre College Oxford, ritiene convintamente essere la quarantesima opera attribuibile a Shakespeare, scoperta solo da pochi anni, che va anche sotto il titolo di  “Cardenio”. Da questi episodi nasce la necessità di valutare con prudenza le indicazioni che scaturiscono dalla corrente attuale degli studi economici, dominati oramai dall’uso di modelli econometrici basati prevalentemente (per fortuna non sempre) sul presupposto che i comportamenti umani, anche in momenti di crisi ed incertezza, si sviluppino su percorsi lineari e quindi prevedibili anche se ciò non è sempre vero. Al riguardo così ha dichiarato il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, in occasione di una lezione tenuta lo scorso mese di Marzo a Londra all’Imperial College: “Una importante lezione che scaturisce dalla crisi finanziaria -e sta generando una copiosa attività di ricerca- riguarda le interazioni e ricadute dei fenomeni che si sviluppano tra il settore reale e quello finanziario e la non-linearità che emerge da questi rapporti, la quale, specialmente in tempi di crisi, non viene correttamente colta dai modelli economici attualmente disponibili.” Ciò che determina il prezzo dei beni -continua Visco- non ha carattere fisso come ci viene raccontato in modo eccessivamente semplicistico, ma le determinanti dei prezzi variano nel tempo in funzione di atteggiamenti che possono essere a volte miopi a volte condizionati da una percezione distorta dei rischi (“An important lesson of the financial crisis – one that is generating substantial research activity – is that the interactions and feedbacks between the real and the financial sectors and the nonlinearities that emerge especially during crises are not adequately captured by the available models…. The determinants of asset prices are not fixed, but vary over time. Asset returns do not follow a normal distribution, as it is assumed by conventional valuation formulas. Myopic behaviour, herding and other types of distorted incentives on the part of individuals and financial institutions can generate negative externalities and move financial markets’ expectations and risk premia away from fundamentals”, http://www.bancaditalia.it/interventi/integov/2013/Visco_05032013.pdf).

 

L’altro elemento che sembra concorrere al permanere della crisi, non rientra nella sfera della economia pubblica, ossia non è legato ai livelli di debito, ma investe invece la sfera degli investimenti privati. Come riferito ancora dal Governatore della Banca d’Italia, il mercato finanziario è diventato troppo grande per poter essere….governato (sic !) dai soggetti che attualmente concorrono al funzionamento del mercato stesso (affermazione sorprendente se si considera che è stata formulata da un governatore di una banca centrale). Nel decennio che ha preceduto lo scoppio della crisi infatti, l’insorgere di un processo troppo rapido di dilatazione del mercato ha comportato che le risorse finanziarie raccolte dal settore privato siano passate tra il 1996 e il 2007 dal 160% al 240 % del PIL in Europa, dal 230% al 330% negli Usa e dal 240% al 330% nel Regno Unito.  In tutte e tre le zone economiche citate i valori attuali sono rimasti elevati e molto simili a quelli del 2007 nonostante la crisi di questi anni: segno di un sistema che, pur disponendo delle risorse sufficienti, non sa o non vuole attualmente investire perché teme che i futuri livelli dei consumi non tengano il passo con la futura offerta potenziale qualora venissero effettuati sostanziosi investimenti e perciò si astiene dall’effettuarne di nuovi per non accrescere improvvidamente la capacità produttiva, (preoccupazione confermata dal fatto che anche il principale polo manifatturiero del mondo, la Cina, sta rallentando il suo tasso di sviluppo). A testimoniare il perdurante e progressivo stato di parziale ingovernabilità del sistema globale viene inoltre citato il mercato dei derivati, cresciuto, dalla fine del 1998 al Giugno 2012, da un valore stimato di 94 trilioni $ (94.000 miliardi di dollari Usa) a 700 trilioni $ (700.000 miliardi di dollari Usa) (“In the decade before the financial crisis both the size of the financial system and its role and pervasiveness in the economy increased dramatically. The process has only slowed down with the crisis…In the euro area, the overall amount of financial resources collected by the private sector (bank credit, bonds issued domestically and stock market capitalization) rose from 160 per cent of GDP in 1996 to 240 in 2007, and then declined to 230 in 2011. A similar pattern is found for the United States, where the ratio rose from 230 per cent in 1996 to 330 in 2007 and then declined to 260 in 2011, and for the UK, where the ratio increased from 240 to 330 per cent and then edged down to 320 per cent. The total outstanding notional amount of over-the-counter (OTC) and exchange-traded derivatives has risen from about 94 trillion U.S. dollars at the end of 1998 to around 486 trillion at the end of 2006, to reach 700 trillion in June 2012.……market participants were not capable of mastering the inherent complexity of the system that they themselves had contributed to develop over the course of the last two decades” Ignazio Visco “The Financial Sector After The Crisis” Imperial Business Insights – Imperial College, London, 5 March 2013 ).

 

La situazione sembra ora essere giunta ad un bivio. Visti gli errori di previsione commessi e la difficoltà a controllare tasso di crescita e orientamenti del mercato, governandolo con i tradizionali strumenti di politica monetaria, le banche centrali stanno imboccando la rischiosa strada dell’inflazione per ridurre in termini reali debiti pubblici e bolle speculative. La manovra è indice di disperazione e ricorda i rimedi dei cerusici di un tempo che a fronte di aneurismi cerebrali non potendo e sapendo operare il paziente non trovavano di meglio che applicargli al corpo delle inutilissime sanguisughe. Il salasso non curerebbe il malato e colpirebbe mortalmente solo i percettori di redditi fissi e i risparmiatori che abbiano investito le loro risorse in titoli non indicizzati all’inflazione (ossia quelli che in questi anni hanno accumulato la gran massa del debito pubblico: fra essi anche le banche che per calmierare queste perdite su titoli comprimerebbero ulteriormente il credito a imprese e famiglie anche negli anni a venire).  Appare oramai più che probabile (vedasi Lettera ANESTI di Marzo) infatti l’intento strategico delle banche centrali (con esclusione della sola BCE) di far ripartire le spinte inflazionistiche illudendosi di poterle in qualche modo controllare. Nulla di più pericoloso e fallace! Al momento il fenomeno non ha dispiegato ancora i suoi effetti, perché alcuni paesi e il Giappone in primis hanno deciso di iniettare un forte volume di liquidità nel loro sistema economico. La grande disponibilità di denaro sta abbattendo i rendimenti delle obbligazioni giapponesi e una parte di quella massa di denaro, alla ricerca di rendimenti più alti, sta travasando all’estero, tenendo per il momento bassi anche gli spread delle emissioni di titoli pubblici di paesi quali l’Italia o la Spagna. La situazione però non durerà a lungo. Se perdurasse l’intento di paesi quali Stati Uniti, Inghilterra e Giappone di innalzare il target inflazionistico credendo così di far ripartire l’economia e di poter al contempo controllare tale risalita dei prezzi, è possibile che le conclusioni a cui sono giunti Reinhart e Rogoff vadano riprese in seria considerazione: non perché siano corrette nei presupposti, nel metodo di indagine o nelle conclusioni, ma perché l’inflazione finirà col distruggere l’economia trascinandola in una spirale di debito dalle conseguenze molto gravi. In particolare ciò potrebbe essere vero per quei paesi come l’Italia caratterizzati da alto rapporto debito/PIL e in cui di conseguenza l’ammontare di interessi da pagare sul debito è elevatissimo. Altrettanto nefasta sarebbe la manovra in tutti quei paesi dove le imprese sono fortemente indebitate con il sistema creditizio (i tassi corporate sono per lo più variabili) e dove il debito dello Stato è prevalentemente detenuto da investitori domestici e non da investitori internazionali (caratteristiche riferibili tutte, anche queste ultime all’Italia). La prova che qualcosa di molto importante e di non piacevole sia in atto, la sia ha dalle dichiarazioni del Governatore della Banca del Giappone che sostiene debbano essere prese tutte le misure necessarie per portare il tasso di inflazione al +2 % annuo. Peccato che l’inflazione attuale in Giappone sia del – 0,7 % all’anno. (Reuters) April 4, 2013 – The Bank of Japan unleashed the world’s most intense burst of monetary stimulus on Thursday, promising to inject about $1.4 trillion into the economy in less than two years, a radical gamble that sent the yen reeling and bond yields to record lows. New Governor Haruhiko Kuroda committed the BOJ to open-ended asset buying and said the monetary base would nearly double to 270 trillion yen ($2.9 trillion) by the end of 2014, a dose of shock therapy officials hope will end two decades of stagnation……”We took all available steps we can think of. I’m confident that all necessary measures to achieve 2 percent inflation in two years were taken today,” he said.………One of those steps was to abandon interest rates as a target and become the only major central bank to primarily target the monetary base……A weaker yen aids Japanese companies by making their products less expensive to overseas buyers and should help create price inflation……Kuroda said the BOJ wanted to push down bond yields enough so that investors will start buying riskier assets, such as property and stocks, and to prompt households and companies to spend now rather than later on expectations of rising prices.

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