L’ultimo in ordine di tempo sembra essere il “Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto della parità di genere nell’informazione […]” scritto dal CPO Fnsi e altre sigle il 27 settembre e che sarà presentato il 25 novembre in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne. La giornalista Marilù Mastrogiovanni (@lmastrogiovanni) ha domandato in un tweet “E’ possibile che serva sempre un “manifesto” per costringerci a far bene nostro mestiere?”.
Come spesso accade, le regole ci sono già ma o sono ignorate o sono disattese (basti pensare al tempo perso in polemiche e discussioni sul velo islamico, quando la legislazione italiana vieta a chiunque, uomini e donne, di circolare a volto coperto).
A seguito del femminicidio della diciassettenne Noemi Durini, lo scorso settembre in Puglia, sia il Co.Re.Com. della Puglia sia l’Ordine invitarono formalmente ma con scarso riscontro i giornalisti a dare solo le notizie essenziali. In settembre ero in Puglia e l’informazione locale oltre ad abbondare in particolari inutili nei servizi televisivi spesso rimandava “a nastro” le foto della ragazza (che nel caso di una persona defunta possono essere rese pubbliche anche se minorenne) e i filmati del luogo del ritrovamento e del momento dell’arresto del giovane.
La prima diffusione di internet con il modem a 56k, quello che “friggeva” durante il collegamento, vide la comparsa della Netiquette, casi di net e etiquette, in italiano “regole di buon comportamento nella Rete”. Di fronte a un fenomeno nuovo bisognava rammentare che in internet valgono le regole di convivenza usate negli altri rapporti con qualche accortezza dovuta al testo scritto, come per esempio evitare di scrivere una parola in TUTTO MAIUSCOLO perché per convenzione è intesa come gridata. La Netiquette degli inizi della comunicazione elettronica ancor prima di internet nei forum era comunque concentrata più sugli aspetti tecnici, perché chi partecipava e era offensivo veniva subito emarginato o messo fuori (bannato, dall’inglese to ban, mettere al bando).
Ormai sono passati trent’anni e la diffusione di massa degli smartphone e tablet hanno fatto migrare l’uso di internet dalla postazione fissa alla borsetta e alla tasca con gli effetti collaterali che non occorre ripetere qui, come la sindrome di presenza h24, l’esplosione dei selfie e i fenomeni di cyberbullismo da parte degli adolescenti e di stalking da parte degli adulti.
Per quanto riguarda i giovani l’educazione informatica, intesa non solo come istruzione ma anche educazione ad un uso consapevole delle tecnologie entrerà prima o poi nella scuola, sperando che sia impartita da personale preparato. Ormai non è un tema da delegare solo a casa, perché i genitori spesso ne sanno meno dei figli.
Apro e chiudo una parentesi, in attesa che la commissione esponga le proprie linee guida sull’uso dello smartphone a scuola, dicendo che oltre che come mezzo di insegnamento delle diverse materie esso aiuterebbe gli studenti anche ad imparare a farne un uso consapevole al di là di sterili regole “si deve/non si deve” che in quanto tali vengono rifiutate a priori.
In una situazione di emergenza (incendio, rapina, violenza) lo smartphone va usato per segnalare l’accaduto alle autorità, non per fotografarlo o filmarlo, com’è accaduto a Napoli.
È compito istituzionale di alcuni giornali raccontare un avvenimento “visto da destra o visto da sinistra” a seconda delle diverse impostazioni politiche e, nonostante i riottosi, si sono finalmente risolte le divergenze tra organizzatori e Prefetture sul numero dei partecipanti a un evento in piazza stabilendo una volta per tutte che in un metro quadrato più di tante persone non ci possono stare. Gli ultimi anni però ci hanno posto davanti al fenomeno del “gettar fango” su una persona o un’istituzione e alle fake news, notizie false diffuse ad hoc spesso anche solo per distogliere l’attenzione sui fatti del momento. Questi comportamenti dalla carta stampata sono migrati e accresciuti sui Social Media, che sono l’agorà di internet.
L’onorevole Laura Boldrini è stata per l’ennesima volta oggetto di notizie false pubblicate da un esponente politico, uno di coloro che in quanto personaggi pubblici dovrebbero essere d’esempio. Dopo la minaccia di denunciare i suoi diffamatori la presidente della Camera ha presentato nella trasmissione “L’aria che tira” de La7, la campagna #ioodiolodio, contro l’odio in Rete. La presidente ha rammentato che viviamo in uno stato di diritto, e chi offende anche solo il vicino di casa, deve essere denunciato. Il suo discorso non è stato contro l’anonimato in Rete, perché, come ho scritto in un articolo a proposito dei furti di identità siamo comunque tutti rintracciabili.
Per descrivere i Social Media io ricorro all’immagine dello Speaker’s Corner di Hyde Park a Londra. Un palco usato dapprima per i comizi politici ma poi anche da chiunque, trovandolo libero, abbia voglia di dire la sua. Se la persona sarà o meno ascoltata dipenderà dalla qualità e capacità di convincimento del suo discorso. Ultimamente però essi sono diventati quella terra di nessuno che conosciamo in cui basta che compaia il nome di questa o quella persona per provocare una sequela di commenti offensivi che ben poco hanno a che vedere con il tema.
Le diverse nazioni e l’Unione Europea hanno posto dei paletti per quanto riguarda il diritto alla privacy, armi spesso spuntate come quella del “diritto all’oblio”, facile in teoria ma di difficile applicazione nella pratica.
Consigli su una corretta e sicura navigazione in internet da parte di adolescenti e adulti impreparati si trovano un po’ ovunque in Rete grazie anche al lavoro prezioso e competente della Polizia di Stato.
Il 28 luglio 2015 la Camera dei deputati varò la Carta dei diritti in internet, frutto del lavoro di giornalisti, informatici e giuristi, tra i quali il professor Stefano Rodotà, che però non ha valore giuridico.
Da allora è tutto un fiorire di raccomandazioni.
A Trieste lo scorso febbraio è stato presentato “Parole O-stili”, un manifesto per la buona comunicazione.
Il “Manifesto di Assisi”, presentato lo scorso 20 settembre, apre con la poco originale massima “Non scrivere di altri ciò che non vorresti sia scritto di te”.
Se è utile di tanto in tanto riproporre l’attenzione sulla Netiquette, è molto meglio riproporre qualcosa di consolidato che proporre troppo spesso nuovi “decaloghi” che personalmente chiamerei raccomandazioni riservando la parola decalogo a quello dato sul Sinai, perché farlo può provocare assuefazione e rigetto, un po’ come accadde con Yahoo, il portale americano del 1994, usato poi prevalentemente come motore di ricerca il cui significato è “Yet Another Hierarchical Officious Oracle”. Molte persone negli Stati Uniti commentarono quell’”ancora un altro” con un sonoro… uffa!