Mentre da noi si discute di programmi di Governo, negli Stati Uniti, di Obama prima e di Trump poi, hanno capito da un pezzo che quello della network neutrality è un tema cruciale per il futuro delle democrazie e per il delicato rapporto tra libertà economiche e libertà di informazione, nonché per una partita essenziale: la distribuzione delle ricchezze della rete tra telco e OTT.
Le opposte visioni, da un lato di una rete aperta, libera e paritaria e dall’altro di una libera valorizzazione da parte delle telco degli investimenti sulle proprie reti, stanno difatti formando oggetto di un animato tira e molla fra Governo, giudici, regolatore e legislatore. Come vedremo, l’ultimo tempo del match sembra ora segnare una vittoria per i sostenitori di una rete libera, aperta e soprattutto egualitaria.
«I invented an open, permissionless space for everyone. The FCC’s repeal of Net Neutrality threatens to take that away.» È con queste parole che Tim Berners-Lee, inventore di internet, ha respinto l’essenzialità della deregulation fortemente voluta in questi mesi dal Presidente dell’authority statunitense Ajit Pai.
La contrapposizione ideologica è forte. Secondo i fautori della deregolamentazione, tra cui si annoverano alcuni dei principali Internet Access Provider statunitensi, la rete internet è sempre prosperata grazie all’assenza di rigidità, di imposizioni governative. La regolazione, stando a quanto affermano gli access providers, avrebbe l’effetto di ostacolare innovazione e investimenti in reti e servizi di prossima generazione. Al contrario, chi sostiene con fermezza l’opportunità di dare un sostrato normativo al web (tra cui i più grandi OTT americani, basti vedere il flag “save net neutrality” apparso il 12 luglio 2017 su Netflix, Amazon, Facebook, Spotify, Twetter, Google, tanto per citarne alcuni), propugna il concetto di neutralità della rete come pietra angolare di un’internet davvero democratica e paritaria.
È una battaglia di slogan: “internet freedom” vs. “open internet”, “light touch framework” vs. “net neutrality”.
Negli USA la tradizionale soft regulation di internet (segnatamente, Internet Policy Statement del 2005 e Open Internet Order del 2010 della FCC) ha vissuto un cambio di rotta nel 2015. Con un nuovo provvedimento Open Internet Order (OIO 2015), infatti, la FCC dell’era Obama, presieduta dal Chairman Wheeler, ha introdotto nel sistema tre principi fondamentali. No blocking, no throttling, no paid prioritization. È la cristallizzazione della net neutrality e l’inequivoca inclusione degli internet access prvider all’interno della categoria giuridica dei common cariers (Title II del Communication Act), anche al fine di superare le contestazioni sulla base giurdica di un intervento della FCC sulla net neutrality, sollevate in sede giudiziaria.
Ma, appena un paio di anni dopo, con l’avvicendamento alla presidenza della FCC voluto da Trump, il nuovo Chairman Pai ha deciso di cambiare le regole del gioco. Anzi, di eliminarle. Già nel 2015 il suo era stato uno dei due voti contrari (sui cinque totali) all’approvazione dell’OIO. Il 14 dicembre 2017, poi, il regolatore ha adottato un nuovo provvedimento, chiamato Restoring Internet Freedom Order (RIFO), il cui obiettivo niente affatto velato è quello di smantellare la net neutrality.
Agganciando il ruolo di internet alla libera concorrenza nel mercato, e rifacendosi alle linee guida del Telecommunications Act del 1996 (“to preserve the vibrant and competitive free market that presently exists for the Internet … unfettered by Federal or State regulation”), il RIFO 2017 porta né più né meno la FCC a dismettere il proprio ruolo di controllore della rete. In altre parole, il ragionamento della FCC di Pai si discosta da quello della FCC di Wheeler per l’attribuzione di un diverso retroterra giuridico e culturale, di un diverso significato, alle parole “open” e “free”. Se per Wheeler internet può considerarsi aperta e libera soltanto nella misura in cui una robusta regolazione pubblica distribuisca le risorse di rete in maniera paritaria e democratica, per Pai la libertà di internet è legata a doppio filo alla libertà di azione attribuita ai providers, garanzia di una modulazione funzionale (ed economicamente più vantaggiosa) dell’offerta di rete.
All’indomani dell’approvazione del RIFO, complice anche un forte attivismo (con manifestazioni al grido di #SaveNetNeutrality), è iniziata negli Stati Uniti l’azione volta a reintrodurre la regolamentazione, che ha imboccato (e continua a percorrere) tre diverse vie: le cause portate avanti in tribunale dagli Attorney General, le disposizioni promosse da singoli Stati federali americani e il Congressional Review Act (CRA) sulla base del quale stanno agendo i deputati democratici.
In prima battuta, dunque, il ruolo degli Attorney General. La tesi dei procuratori di ben 23 Stati, che, guidati dall’A.G. di New York Eric Schneiderman, hanno citato in giudizio la FCC, si fonda innanzitutto su un’asserzione di carattere generale: l’authority, abdicando al proprio ruolo di regolatore dell’internet, è venuta meno ad alcuni dei propri doveri federali. Inoltre, e più nello specifico, il RIFO si porrebbe in contrasto con le leggi federali anche sotto un altro profilo, e cioè sulla base di un’erronea riclassificazione dei servizi di accesso a internet, tale da inserirli nel titolo I, invece che nel titolo II (come faceva, invece, l’OIO del 2015) del Communication Act. Gli Attorney General definiscono il RIFO come un provvedimento arbitrario e capriccioso, che rappresenta un esempio di abuso di discrezionalità da parte dell’FCC.
“The repeal of net neutrality would turn internet service providers into gatekeepers – allowing them to put profits over consumers while controlling what we see, what we do, and what we say online” ha dichiarato l’A.G. Schneiderman.
Differente è invece il percorso intrapreso dai Governatori di alcuni Stati federali, quali per esempio California, Oregon, New York, Montana e New Jersey. Il tentativo è sempre quello di mantenere in vita la net neutrality americana, sebbene “a macchia di leopardo”. Naturalmente, dato che le comunicazioni rappresentano materia di competenza federale, non sussiste una piena legittimazione dei singoli Stati a proporre una net neutrality “domestica”. Eppure, esiste la possibilità di far leva sugli interessi economici delle grandi compagnie di telecomunicazioni affinché queste, pur in assenza di regolamentazione, rispettino il mantra del “no blocking, no throttling, no paid prioritization”. Va proprio in questo senso la misura legislativa firmata il 10 aprile 2018 dalla Governatrice dell’Oregon Kate Brown, la quale consente agli enti pubblici di intessere relazioni economiche esclusivamente con quegli operatori di rete che si impegnino a rispettare i principi cardine della net neutrality di stampo wheeleriano.
Come anticipato, decisioni di questo tipo trovano il favore, ed anzi vengono sollecitate, dal forte attivismo dei cittadini. Un recente sondaggio dimostra infatti che il supporto alla net neutrality abbraccia un pubblico trasversale: il 90% degli elettori democratici e l’82% di quelli repubblicani. Ed è per questo motivo che la terza via attraverso la quale si sta tentando di salvare i principi dell’OIO 2015, e cioè quella parlamentare, è la più delicata e monitorata, anche per i non sottovalutabili intrecci alla luce delle Mid-Term Elections di novembre 2018. Gli americani vogliono la net neutrality: i politici democratici lo sapevano già, i repubblicani lo stanno scoprendo.
A cavalcare l’onda del consenso popolare ci ha pensato la petizione numero SJ Res 52, promossa dal Senatore dem Ed Markey, e votata il 9 maggio 2018. Ad accompagnarla, una petizione gemella alla Camera dei Rappresentanti, presentata da Mike Doyle e depositata col numero HJ Res 129. Entrambe le petizioni mirano a rovesciare il RIFO per via legislativa, appigliandosi al meccanismo del già citato Congressional Review Act (CRA) del 1996: esso consente al potere legislativo, in concorso col benestare del Presidente USA, di annullare i provvedimenti regolamentari (quindi anche quelli delle authority). Il funzionamento del CRA coinvolge entrambe le camere del Parlamento, le quali devono votare una “joint resolution of disapproval” sul regolamento federale (in questo caso, il RIFO). L’aspetto più significativo riguarda il fatto che l’eventuale successo del CRA bloccherebbe ogni futura possibilità della FCC di tornare sull’argomento.
Entrando più nel dettaglio, il primo passaggio della procedura disciplinata dal CRA avviene in Senato. Lì i Senatori possono, con una petizione firmata da almeno 30 membri del proprio ramo parlamentare, forzare un voto su una determinata questione (in questo caso, appunto, la net neutrality). La petizione di Markey, che aveva superato abbondantemente le 30 firme, godeva del sostegno di tutti e 47 i Senatori dem, dei 2 Senatori indipendenti e di una Senatrice repubblicana: quindi, 50 in totale. Giacché il Senato si compone di 100 membri ed è richiesta una maggioranza semplice, mancava un solo voto perché la mozione passasse. Da qui, la campagna mediatica, condotta tramite social network (in special modo Twitter), incentrata sulla ricerca del #OneMoreVote che avrebbe contribuito con certezza matematica di passare la parola alla Camera dei Rappresentanti. Le voci di corridoio indicavano nei senatori repubblicani John Kennedy e Dean Heller due dei papabili “numero 51”.
La votazione del 9 maggio, confermando le aspettative più ottimistiche dei senatori pro-petizione, ha visto il voto favorevole di 52 senatori e quello contrario di 47.
Il CRA prevede poi una procedura del tutto simile per l’altro ramo del Parlamento, dove però, con le maggioranze attuali, occorrerebbe un convincimento anti-deregulation di ben 25 repubblicani. Senza contare, qualora la mozione passasse anche alla Camera dei Rappresentanti, il possibile veto di Trump, che ha l’ultima parola.
La strada parlamentare della net neutrality, quindi, appare decisamente in salita, eppure non bisogna sottovalutare né l’influenza dell’ampio consenso popolare (e, di conseguenza, elettorale) di cui gode l’open internet, né l’ecletticità di Trump, il quale, pur avendo collocato Pai alla presidenza della FCC, ha espresso in passato opinioni confuse sulla net neutrality. Per esempio, in un tweet del novembre 2014, Trump ha definito i provvedimenti sulla net neutrality dell’era Obama come un “top-down power grab”, ma allo stesso tempo ha indicato la net neutrality in sé come una “fairness doctrine”. Trump poi non è certo nuovo a mosse a sorpresa.
Ma seppure il Presidente dovesse stroncare gli sforzi parlamentari per ripristinare un’internet egualitaria, il Congresso avrebbe comunque dato un segnale fortissimo: qualunque futura legislazione in materia di net neutrality dovrebbe fare i conti con la visione aperta e democratica voluta da Wheeler nel 2015.
In attesa del voto al Senato del 9 maggio basato sul CRA, la guerra per la net neutrality è andata avanti a colpi di comunicati stampa. All’indomani del deposito della petizione del Sen. Markey, come una bomba a orologeria, la FCC di Pai ha annunciato la “data di scadenza” della net neutrality americana: l’11 giugno 2018.
In questo mare magnum di dibattiti e contrapposizioni sul tema, Ed Markey su Twitter aveva scaldato gli animi, cercando il cinquantunesimo voto per la votazione di ieri, con slogan dal sicuro impatto e dal significato importante, alcuni dei quali vale la pena di riportare.
“This vote on #NetNeutrality is coming, and when it does, it will be crystal clear who is protecting corporate buddies and who is fighting for everyday Americans” dice il Senatore, aggiungendo poi “In 2018, access to a free and open internet is a right, not a privilege”.
A fargli da contraltare, Pai ha parlato di rid-off of “unnecessary and harmful Internet regulations” e di “safeguard (of) a free and open internet”. Il Presidente ha poi continuato, nel comunicato stampa con cui ha annunciato l’ending della net neutrality, “we will have a framework in place that encourages innovation and investment in our nation’s networks so that all Americans, no matter where they live, can have access to better, cheaper, and faster Internet access”.
Sebbene il voto del Senato abbia segnato un altro punto a favore della Net Neutrality, la partita è ancora lunga. Siamo solo all’inizio dei tempi supplementari.
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