Analisi

Nebbia sul Fondo per il Cinema e l’Audiovisivo e sul Contratto di Servizio Rai

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'No data' e poca trasparenza nella politica culturale italica: prevale confusione e ipocrisia. La Sottosegretaria Borgonzoni: 'la leva economica è più incisiva, rispetto ad un intervento regolatorio'.

Nell’edizione di ieri “Key4biz” ha pubblicato un piccolo ma significativo “scoop”, dato che l’Istituto italiano per l’Industria Culturale (IsICult) ha reso noto che nel “contratto di servizio” Rai è stata cancellata la riduzione del ricorso agli appalti esterni (una delle più gravi patologie del servizio pubblico del nostro Paese), ovvero che le due parti contraenti – il Ministero delle Imprese e del Made in Italy e la Rai – hanno ignorato quanto richiesto dalla Commissione di Vigilanza Rai. Una decisione grave, ma sintomatica, ancora una volta, di quanto questo “contratto” sia evanescente (vedi “Key4biz” del 25 gennaio 2024, “Mimit e Rai ignorano il parere della Commissione di Vigilanza sul contratto di servizio”). Nessuna reazione da parte della Presidente della Commissione bicamerale, Barbara Floridia (M5s): chissà perché…

E sempre nell’edizione di ieri della rubrica “ilprincipenudo” curata da IsICult, abbiamo puntato i riflettori sull’ennesimo acquisto da parte di gruppi mediali stranieri di imprese audiovisive italiane, qual è il caso di Picomedia e Stand By Me da parte di Fremantle (Rtl / Bertelsmann), senza che nessuno o quasi segnali la gravità di questo fenomeno, che trasferisce all’estero parte dei processi decisionali e consistenti flussi di danaro, di imprese che pure sono cresciute grazie a quella manna dello Stato rappresentato dal “tax credit”, uno strumento che garantisce sì l’arricchimento di alcuni produttori e la “piena occupazione” del settore, ma che al tempo stesso ha alimentato una incredibile sovrapproduzione di titoli, che nessuno vede…

La giornata odierna – dal punto di vista mediologico/culturologico – merita almeno due segnalazioni, entrambe correlate ai temi della politica culturale e dell’economia mediale: il settimanale “l’Espresso” dedica la copertina ed un lungo articolo allo “strapotere” che la destra al governo starebbe esercitando nel sistema culturale; il quotidiano “Domani” pubblica una lunga replica, a firma della Sottosegretaria leghista Lucia Borgonzoni ad un articolo pubblicato ieri l’altro (mercoledì 24) secondo il quale il Governo avrebbe ceduto di fronte alle lusinghe della lobby di Netflix e andrebbe ad allentare gli obblighi di produzione da parte di piattaforme ed emittenti…

Entrambe le notizie sono il frutto di processi distorti, perché alla superficialità partigiana ed ipocrita di alcune tesi (“l’Espresso”, che assolve simpaticamente tutti gli errori della sinistra al governo della politica culturale…) si affianca un deficit di dati ed analisi che impedisce di comprendere il vero funzionamento del sistema pubblico di sostegno al cinema e audiovisivo (e quindi ognuno tira l’acqua al proprio mulino).

In Italia non esiste sufficiente trasparenza nella politica culturale

Lo andiamo scrivendo da molti anni: in Italia, non esiste sufficiente trasparenza nella politica culturale, e, in assenza di studi accurati (analisi di scenario, ricerche di settore, valutazioni di impatto…) il Ministro che viene può tranquillamente buttare l’acqua sporca ma anche il bambino, tanto nessuno è in grado di opporgli dati che possano rivelare la vera verità.

Questa nebbia è stata alimentata da tutti i governi che si sono avvicendati nel corso dei decenni.

Ricordiamo, una volta ancora, che quasi 40 anni fa un Ministro illuminato e lungimirante, qual è stato il compianto Lelio Lagorio (Partito Socialista Italiano), introdusse nella cosiddetta (allora) “legge madre” sullo spettacolo (la n. 163 del 1985, che ha creato il mitico Fondo Unico per lo Spettacolo) l’istituzione di un “Osservatorio dello Spettacolo”, che avrebbe dovuto (potuto) produrre ogni anno una radiografia accurata del funzionamento del settore. Questo Osservatorio è stato ridimensionato e azzerato, in quella che doveva essere la sua funzione, dai governi che si sono avvicendati.

Otto anni fa, allorquando l’allora Ministro Dario Franceschini riuscì a far approvare la legge di riforma del cinema e dell’audiovisivo che ancora porta il suo nome (la n. 220 del 2016) ebbe la bella idea di prevedere una “valutazione di impatto” della norma stessa, ma questa previsione è stata vanificata dall’aver affidato il Ministero questo importante strumento di conoscenza, anno dopo anno (ignorando anche il principio di sana turnazione negli appalti pubblici) ad una coppia di soggetti (la società di consulenza Ptsclas spa e l’Università Cattolica di Milano) che non hanno mai approfondito realmente lo studio, producendo, di anno in anno, delle “non valutazioni”, ovvero un corposo apparato di dati totalmente privo di approccio critico (questi documenti, peraltro, non sono mai stati oggetto di pubblica discussione, e, nella loro semi-clandestinità, sono ancora oggi sconosciuti alla quasi totalità degli operatori del settore).

Come abbiamo sostenuto (e dimostrato) queste notti e queste nebbie fanno gioco a tutti coloro che lavorano per la conservazione dello “status quo”.

Nel mentre, all’oscuro, operano le “lobby”, che sono talvolta quelle dei produttori cinematografici (rappresentati anzitutto dalla potente Anica guidata da Francesco Rutelli) e talvolta quelle degli “over-the-top” (e qui domina naturalmente Netflix)… Ognuna di loro, di volta in volta, tira “la coperta” dal proprio lato, e cerca di approfittare del governo approssimativo del sistema.

Nel nostro Paese, l’’“evidence-based policy making” è ancora una pia illusione

Stupisce che una testata come “l’Espresso”, rinata negli ultimi mesi grazie alla direzione di Alessandro Mauro Rossi (che pure proprio nell’edizione del settimanale oggi in edicola annuncia di passare il testimone ad Enrico Bellavia, anche a causa di dinamiche connesse con la proprietà della testata), si sia lasciata andare ad una superficiale ricostruzione di dinamiche di “spoils system” da parte della “destra” che sono speculari alle pratiche (basse) messe in atto per decenni dalla “sinistra”.

Le nomine delle istituzioni culturali, gran parte delle quali da attribuire al più longevo Ministro della Cultura, il “dem” Dario Franceschini non sono state particolarmente più elevate ed evolute di quelle che in qualche modo possono essere oggi attribuite a conservatore Gennaro Sangiuliano: questa è la vera verità che molti oggi fanno finta di non vedere, attribuendo al governo in carica una prepotenza che tale non è.

Ovvero se è “prepotenza” essa è simile anzi speculare a quella esercitata dall’altra fazione negli anni scorsi.

Con buona pace di selezioni pubbliche, valutazioni comparative dei curricula, meritocrazia e tecnocrazia.

Il “caso” del Centro Sperimentale di Cinematografia (Sergio Castellitto “versus” Marta Donzelli…) o il caso del Maxxi (Alessandro Giuli versus Giovanna Melandri…) o il caso della Biennale di Venezia (Pietrangelo Buttafuoco versus Roberto Cicutto…) non dimostrano alcuna vocazione di “egemonia culturale” (?!), ma semplicemente un naturale (e per alcuni aspetti sano) avvicendamento di indirizzo culturale e politico.

Ancora una volta, in totale assenza di “valutazioni” oggettive, di indicatori tecnici, nessuno è in grado di dimostrare se Donzelli o Melandri o Cicutto abbiano fatto “bene” o “male”, nell’esercizio del mandato fiduciario loro assegnato.

Non a caso, nessuna di queste istituzione produce un “bilancio sociale” ovvero un “bilancio di sostenibilità”. Ciò basti.

Nessuno sente l’esigenza di dare conto del proprio operato agli “stakeholders” (che poi sarebbero i cittadini), basta essere in sintonia con il “dominus” politico di turno, ovvero con il Ministro “pro tempore”.

Nessuno scandalo. Nessuna novità in uno “spoils system” ed in logiche di “intuitu personae” carenti di approccio tecnico. Il merito, la qualità, il curriculum… sono accessori.

Alcuni attribuiscono alla destra una qual certa rozzezza, allorquando l’operato della sinistra era più felpato… Roberto D’Agostino, con la sua abituale “vis polemica” ha dichiarato: “siamo passati dall’inossidabile amichettismo di sinistra alla logica di appartenenza della destra”.

Nella sostanza, però, poco cambia, e chi grida allo scandalo – come abbiamo già scritto su queste colonne qualche giorno fa – indossa le vesti del fariseo e dell’ipocrita.

Il Ministero della Cultura si inchina di fronte a Netflix?

Ieri l’altro, mercoledì 24 gennaio 2024, una firma pungente del quotidiano “Domani” (che si pone come diretto “competitor” del “la Repubblica”) qual è Stefano Iannaccone (già autore qualche settimana fa di una critica feroce alla Presidente di Cinecittà Chiara Sbarigia – chiamata alla guida degli “studios” dall’ex Ministro Dario Franceschini – in evidente conflitto di interessi rispetto alla sua recente nomina a Presidente della lobby dei produttori televisivi, qual è l’Apa – Associazione Produttori Audiovisivi) ha pubblicato un articolo efficacemente sintetizzato dal titolo “Mano libera a Netflix & co. Il governo sovranista premia i colossi stranieri”, commentando “vince la lobby internazionale dell’audiovisivo. La riforma firmata da Urso e Sangiuliano contiene una norma su misura per le piattaforme e i broadcaster esteri. Un danno per i produttori indipendenti”.

C’è del vero? Ancora una volta, in parte sì, ma in parte no, ed ancora una volta non è possibile conoscere la vera verità, anzitutto perché Netflix non rende noto le caratteristiche del proprio operato in Italia…

Quanto fattura dal mercato italiano? Non è dato sapere.

Quanto investe nel mercato italiano per prodotti cosiddetti “original” e per l’acquisizione di diritti? Non è dato sapere. E Prime Amazon?

Nota bene: non lo sa nemmeno la Direzione Cinema e Audiovisivo (guidata da Nicola Borrelli).

Prevale la notte, si rinnovano le nebbie…

Si può fare “politica culturale” in assenza di dati essenziali?! No.

Allora si finisce inevitabilmente per “governare” il sistema in modo approssimativo, spannometrico, nasometrico.

Questa situazione fa gioco alla lobby di turno, che è in grado di “intortare” (come si dice a Roma) non soltanto i parlamentari “peones” (in qualche modo sensibili alle lusinghe attenzionali, che si spera siano soltanto simpaticamente immateriali) ma finanche il Sottosegretario di turno (in questi ultimi anni, Lucia Borgonzoni che forse può già rivendicare di essere – à la Franceschini – la Sottosegretaria alla Cultura più longeva della Repubblica italiana).

Secondo Stefano Iannaccone, la modifica normativa al cosiddetto “Tusma” ovvero il Testo Unico dei Servizi di Media Audiovisivi, attraverso la mera cancellazione di un comma, consentirebbe a Netflix così come a Sky, ad Amazon Prime così come a Disney, etcetera, di acquisire un potere contrattuale maggiore, riducendo le chance, per i produttori indipendenti, di rivendicare il mantenimento di alcuni diritti, per esempio per le vendite all’estero.

C’è del vero. Ma anche no.

Anzitutto va rimarcato che le vendite all’estero dei prodotti audiovisivi italiani restano un mistero, almeno per l’economia e la statistica: fino a qualche anno fa, Anica stimava che fossero nell’ordine di circa 10 milioni di euro l’anno, ma un recente studio affidato dalla stessa lobby assieme alla consorella Apa alla società di consulenza eMedia (guidata da Emilio Pucci) ha fatto schizzare questa stima ad oltre 100 milioni di euro.

Purtroppo si tratta di stime (anch’esse – temiamo – nasometriche, non essendo state rivelate le fonti e le metodologie adottate nel calcolo) che non hanno alcun riscontro in dati ufficiali del Ministero, che pure dovrebbe avere accesso a queste informazioni…  

A quanto ammonta il “capitale di rischio” dei produttori cinematografici e audiovisivi italiani? “No data”

E qui veniamo ad una questione nodale, essenziale, cruciale: non è possibile conoscere quanto sia in Italia il “capitale di rischio” delle imprese cinematografiche e audiovisive.

Incredibile, ma vero. Abbiamo denunciato, da molti anni, come questo dato non sia presente nel rapporto annuale prodotto dal Ministero e pomposamente denominato “Tutti i numeri del cinema italiano”.

Si sa quanto denaro lo Stato immette nel sistema cinematografico e audiovisivo: soltanto il Ministero della Cultura ben 750 milioni di euro nel 2023, ridotti dal Ministro Sangiuliano a 700 milioni “soltanto” nel 2024, e qui non si considerano i danari apportati da Rai…

Ma non si sa quanto investano di proprio i produttori. Ribadiamo: incredibile, ma vero.

Eppure dovrebbe essere lo stesso Ministero a rivendicare il proprio ruolo nel sistema: se lo Stato decidesse di staccare la spina, il sistema crollerebbe nell’arco di pochi mesi.

Il grande “castello di carte” alimentato da un uso spregiudicato (incontrollato) del “tax credit” andrebbe a cadere rapidamente, mostrando la miseria imprenditoriale del settore.

Da ricercatori specializzati (prima che da giornalisti investigativi), siamo convinti che il capitale di rischio dei produttori italiani sia veramente modesto, ma veramente molto modesto: tutto “il sistema” produttivo italiano attinge alla tetta generosa del Ministero della Cultura (il flusso di latte è diventato copioso assai grazie alla Legge Franceschini, priva di controlli e di valutazioni) ed alla tetta non meno generosa di Rai Cinema e di Rai Fiction (e qui si potrebbe aprire la questione dei criteri con i quali vengono messi in atto i processi selettivi)…

La famosa battuta di Aurelio De Laurentiis sui produttori italiani che sono più “prenditori” che “imprenditori” sarà finanche banale ed ormai trita, ma temiamo corrispondente al vero (alla vera verità). Su questo, si dovrebbe ragionare, e seriamente: su quanto il sistema sia ormai affetto da un assistenzialismo reiterato e consolidato.

Quindi, come si può criticare, in fondo, un Governo che, a fronte di un così profondo deficit di conoscenza, decide di assumere una decisione liberal-liberatoria?! Dato che non si riesce a trovare una applicazione concordata tra le parti della norma sui diritti, suvvia… cancelliamola. La logica è quella neo-liberista di eliminare quelli che l’ex Presidente di Confindustria e Governatore della Banca d’Italia, nonché anche Ministro, Guido Carli definiva “lacci e lacciouli” che si impongono alla libertà del mercato (autocratico).

A distanza di due giorni, la Sottosegretaria Lucia Borgonzoni ha reagito, indirizzando al quotidiano “Domani” una lunga ed accurata epistola (sicuramente redatta da un suo “ghost writer” di qualità, emerge un tecnicismo che non le è proprio). Curiosa dinamiche, non trattandosi di una interrogazione parlamentare, ma di un semplice articolo giornalistico peraltro non rilanciato da nessuna altra testata (se non oggi, giustappunto da “Key4biz”…). Articolo che deve aver toccato un nervo scoperto…

Alcuni passaggi della dotta epistola meritano essere riportati (e analizzati): “l’obiettivo del rafforzamento dei produttori indipendenti italiani costituisce un impegno prioritario del ministero. Proprio allo scopo di limitare lo squilibrio contrattuale fra «i colossi stranieri» e i produttori indipendenti italiani e quindi garantire corretti assetti contrattuali equilibrati e proporzionati tra le parti, il Mic ritiene più efficace intervenire in sede di revisione delle regole riguardanti gli incentivi pubblici alla produzione di opere audiovisive di nazionalità italiana”.

Di fatto, si traduce così: la questione dei diritti non ci sembra proprio essenziale, e pensiamo che si debba soprattutto agire sulla leva del “tax credit”, del quale è in corso una radicale revisione, per cercare di superare distorsioni ed abusi del passato…

Continua la replica di Lucia Borgonzoni: “stiamo infatti intensificando tutte le misure finalizzate a far valere il principio secondo cui, per accedere agli incentivi – a fronte dell’investimento del produttore indipendente e del sostegno pubblico – deve corrispondere, in capo al medesimo produttore, una quota di diritti di proprietà, con particolare riferimento ai diritti di proprietà intellettuale, e relativo sfruttamento economico”.

Bene, ma si tratta di identificare le caratteristiche dell’obbligo (vincolante?!) e l’entità della quota (la percentuale), altrimenti siamo a livello di mera dichiarazione di intenti.

Sostiene la Sottosegretaria Borgonzoni: “la “leva economica” è più incisiva e coerente, rispetto ad un intervento regolatorio generico”

E qui il punto centrale, che è anche ideologico: “riteniamo, infatti, che la “leva economica” sia più incisiva e coerente, rispetto ad un intervento regolatorio generico, che si è rivelato di fatto insufficiente, come dimostrano gli oltre quattro anni trascorsi senza giungere ad alcuna soluzione”.

Allentiamo gli obblighie agiamo sul fronte degli stimoli: ahinoi, storica teoria dei liberisti di sempre, vecchi e nuovi…

Continua la lettera: “d’altra parte, lo stesso settore ha evidenziato l’impossibilità nel trovare una soluzione ragionevole: il comma del Testo Unico prevedeva e favoriva un accordo fra le parti, ma l’accordo non è mai stato raggiunto. Questo, perché il regolamento avrebbe inciso nella libera negoziazione tra le parti, in quanto ogni opera audiovisiva ha un proprio percorso creativo e realizzativo a cui corrispondono diversi modelli economici, finanziari e contrattuali. Viceversa, perseguire questi obiettivi utilizzando le giuste leve negli schemi di aiuto pubblico è certamente più appropriato ed efficace”.

E conclude: “lungi dal voler premiare i «colossi stranieri» rispetto ai produttori italiani, il Mic sta al contrario perseguendo l’obiettivo strategico del rafforzamento della produzione indipendente italiana utilizzando lo strumento più efficace e idoneo ed evitando sistemi regolatori, che, all’atto pratico, risultano impraticabili e tendenzialmente controproducenti in un settore esposto a cambiamenti sempre più rapidi nei modelli di produzione e fruizione da parte del pubblico”.

Va segnalato che, su questi temi, durante il dibattito in Commissione Lavori Pubblici e Comunicazione del Senato, Gianluca Curti, Presidente di Cna Cinema e Audiovisivo, ha presentato due proposte di modifica al testo del Decreto: ridurre dal 90 % al 70 % la quota della propria produzione destinata ad un solo soggetto; la seconda riguarda il paradosso di far beneficiare dello status di produttore indipendente società che altro non sono che filiali italiane di conglomerati industriali stranieri… Cna Cinema e Audiovisivo ha chiesto l’introduzione di alcuni criteri per la definizione di “indipendente”: non essere partecipato al 50 % o più da impresa di produzione estera o da società e gruppi finanziari nazionali esterni al settore, inoltre non avere (come società o come soci) contratti continuativi e/o esclusivi anche di consulenza con “broadcaster” o “ott”. Riteniamo si tratti di tesi ragionevoli e condivisibili.

Il Ministero della Cultura sta lavorando a “uno strumento che favorisca l’aggregazione delle imprese italiane per renderle competitive e protagoniste nel panorama internazionale”: era ora!

E viene toccato dalla Sottosegretaria giustappunto un altro punto dolente, che affronta le tematiche (le criticità) che abbiamo ri-denunciato ieri su queste colonne: sempre più imprese italiane dell’audiovisivo vengono acquistate da multinazionali stranieri.

Sostiene la senatrice leghista: “proprio in questa direzione stiamo lavorando per mettere in campo uno strumento che favorisca l’aggregazione delle imprese italiane, al fine di renderle sempre più competitive e protagoniste nel panorama internazionale”.

Verrebbe da osservare che si pensa di… chiudere la stalla quando i buoi sono scappati (i buoi migliori, peraltro, da Cattleya a LuxVide), ma certamente meglio tardi che mai

Sarà interessante capire quali saranno gli strumenti che il Ministero intende mettere in atto, rispetto a questo commendevole quanto ardito intendimento.

Nelle more, molti osservatori lamentano che il Ministero non procede ancora alla “ripartizione” del Fondo Cinema e Audiovisivo, ovvero ai 700 milioni di euro che lo Stato va ad assegnare al settore nel 2024: per capirci, quanto alla produzione, alla distribuzione, all’esercizio, alla promozione; quanto al “tax credit”, quanto agli aiuti cosiddetti “selettivi”… Ci si augura anzitutto che questa ripartizione ridimensioni in modo radicale la quantità di danaro assegnata al “tax credit” e vada tra l’altro a rivitalizzare il settore dei festival, che continuano a beneficiare delle briciole del banchetto.

Una delle motivazioni addotte per giustificare il ritardo è che non è possibile acquisire, sulla bozza di ripartizione, il parere del Consiglio Superiore del Cinema e dell’Audiovisivo, il massimo organo di consulenza del Ministero, la cui nomina è attesa ormai da molti mesi…

In ogni caso, sarebbe un bel salto di qualità rendere pubblica questa bozza di ripartizione, prima di sottoporla al parere del Consiglio Superiore: questa sarebbe vera trasparenza nelle politiche culturali, coinvolgimento della comunità professionale nei processi decisionali.

Qualcosa non quadra, nella “contabilità” del tax credit? Si attende la “ripartizione” del Fondo Cinema e Audiovisivo (700 milioni di euro nel 2024)

Si ha ragione di ritenere che il decreto a firma di Gennaro Sangiuliano verrà finalmente firmato nei prossimi giorni (e si prospettano novità importanti nella composizione alchemica di questo organo, che in passato è stato del tutto passivo, ovvero mero portatore d’acqua delle decisioni della Direzione Generale), e quindi questo “problema” tecnico-formale verrà presto superato.

Il problema vero – secondo alcune fonti riservate (che abbiamo ragione di ritenere affidabili) – parrebbe essere altro: il Ministero della Cultura avrebbe scoperto che esiste un qualche problemino – per così dire – nella contabilità complessiva del “tax credit”, anche a causa degli obblighi di re-investimento dei danari pubblici acquisiti attraverso il credito di imposta (che finisce per alimentare ulteriori interventi della mano pubblica, di non agevole quantificazione)…

Volendo semplificare, qualcosa non quadra.

Troppi danari sono stati immessi nel sistema e le casse dello Stato piangono.

Emerge un problema di “buco” di bilancio

C’è chi teme il peggio (chi ha beneficiato alla grande, negli anni scorsi, del banchetto allestito dallo Stato generoso)…

C’è chi prevede il meglio (coloro che sono stati emarginati dal banchetto, non essendo produttori di opere realizzate con milioni di euro dello Stato e viste da nessuno o quasi)…

Si resta in trepida attesa.

Vediamo se il Ministro Gennaro Sangiuliano saprà imprimere al settore quella scossa profonda, che può finalmente avviare una evoluzione e soprattutto rigenerazione, correggendo le tante storture della “Legge Franceschini”.

Latest news: nella Fiandre, obbligare TikTok e YouTube e Meta a finanziare la produzione audiovisiva locale?

Emerge la notizia (lanciata da “The Guardian” e rilanciata da “Wired”) secondo la quale il governo delle Fiandre – una delle tre regioni del Belgio – intende promuovere una legge che costringerà TikTok, YouTube e Meta a finanziare i produttori audiovisivi nazionali con parte delle proprie entrate. Il Belgio riceve già una percentuale dei ricavi generati da Netflix, Disney e altri servizi di streaming. Secondo Benjamin Dalle, Ministro della Gioventù, dei Media e degli Affari di Bruxelles del governo fiammingo, la popolarità del colosso cinese e di quelli di San Bruno e Menlo Park è tale da giustificare anche un loro contributo… Le “big tech” sarebbero allarmate dalla mossa del Ministro, al punto da aver indirizzato “diverse lettere” preoccupate – ha spiegato Dalle – “perché si tratta di un precedente, il primo al mondo”. Approfittando del turno di presidenza del Consiglio dell’Unione Europea del Belgio, il Ministro vuole inserire il tema nell’agenda europea. La proposta di legge prevede che le piattaforme streaming destinino tra il 2 % e il 4 % dei loro ricavi al Fondo Audiovisivo delle Fiandre o, in alternativa, direttamente a una produzione locale…

[ Nota: questo articolo è stato redatto senza avvalersi di strumenti di “intelligenza artificiale. ]

(*) Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) e curatore della rubrica IsICult “ilprincipenudo” per “Key4biz”.

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