Un modello alternativo di “smart city”, che metta le città, intese come municipalità locali, al centro della gestione dei dati generati dei cittadini per contrastare lo strapotere delle grandi web company made in Usa, Amazon, Apple, Facebook e Google in testa che di fatto detengono il monopolio dei nostri dati. E’ questa la proposta avanzata dal sociologo e critico del web Evgeny Morozov, insieme con la moglie Francesca Bria, Chief Technology Officer della municipalità di Barcellona, ospite al Festival della Comunicazione di Camogli dove parlerà da oggi a domenica del suo ultimo saggio “Ripensare la smart city”.
Nell’intervista pubblicata oggi su Repubblica Morozov parla delle due categorie relative ai dati su cui ragiona da tempo: l’estrattivismo e il distribuzionismo. “Sono due dinamiche opposte – dice il sociologo – La prima è la tendenza delle aziende digitali, le cosiddette Big Tech, di estrarre sempre più dati dalle nostre attività online. La seconda è la reazione dei tanti preoccupati da questo accaparramento che chiedono una ridistribuzione verso i veri titolari di quei dati, ovvero tutti noi”.
In realtà il campo distribuzionista distingue tra un approccio di destra, che “si muove all’interno della cornice liberale classica, a partire dal diritto di proprietà. Big Tech guadagnerebbe meno perché una parte degli utili andrebbero agli utenti”, e uno di sinistra in cui “si è ipotizzato che il possesso dei dati potrebbe essere attribuito a una specie di trust pubblico”. Un’ipotesi, quest’ultima, che piace ai Labour britannici e alla segreteria della Spd in Germania.
Morozov afferma che “l’idea che le città, grazie all’aggiunta di sensori e software, possano attrarre cittadini più intelligenti e quindi soldi più intelligenti è vecchia”. Il termine smart city fu originariamente adottato da Ibm e da Cisco come strumento di marketing, per vendere i loro servizi. Ma per Morozov il termine è stato usato male a causa delle classifiche di affidabilità dei consumatori/cittadini, il cosiddetto ranking, diventato uno strumento importante non soltanto per i big dell’hitech come Uber, Airbnb e eBay per valutare i clienti.
“Nel mito fondativo di Internet c’è stato il culto dell’anonimato – sostiene il sociologo –Via via venuto meno quando Facebook ha fornito le credenziali per accedere a una quantità sempre crescente di siti e servizi. Una volta che il navigatore ha avuto un nome e un cognome è stato possibile valutare la sua reputazione. E la reputazione, quantificata attraverso il ranking, ha sostituito i suoi diritti. D’altronde – conclude Morozov – diritti digitali è sempre stata un’espressione fuorviante, dal momento che si tratta di permessi, concessioni d’ uso. Ogni azienda ha sempre sognato di poter conoscere in anticipo quali fossero i clienti indesiderabili, per tenerli alla larga. Ieri eBay, oggi Uber e Airbnb hanno realizzato quel sogno”.