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Moda, ogni anno invenduti nel mondo 60 miliardi di capi di abbigliamento. Dove finiscono?

Sul mondo c’è un mucchio di vestiti non venduti, pronti a diventare rifiuto

Magliette, pantaloni, indumenti intimi, cappotti, scarpe, non si sa esattamente quanti capi di abbigliamento vengono prodotti ogni anno in tutto il mondo, ma le stime sono altissime. Secondo un articolo di Lucianna Tonti per il quotidiano The Guardian, annualmente sono realizzati tra gli 80 e i 150 miliardi di capi di abbigliamento a livello globale e tra il 10 ed il 40% di questi rimangono invenduti.

Sostanzialmente, ogni anno potremmo ritrovarci accatastati nei magazzini del pianeta tra 8 e 60 miliardi di indumenti e accessori non venduti.

La conferma arriva dall’Europa, dove tra il 2000 e il 2015, la produzione di abbigliamento è raddoppiata, mentre l’utilizzo è diminuito del 36%.

La prima domanda che viene in mente è: e dove finisce questa montagna di vestiti?

Anche qui, la risposta è non è semplice. Nell’articolo si cita la Or Foundation, un ente di beneficenza per la giustizia ambientale con sede in Ghana. Qui nel grande mercato di Kantamanto di Accra, dove la Fondazione lavora per favorire il riuso di tutti quei prodotti tessili che il mondo ricco non vuole o non ha nemmeno usato, si è stimato che il 40% di ogni balla di vestiti finisce praticamente come rifiuto.

Motivo per cui la Fondazione ha chiesto ai grandi brand della moda e del tessile di ridurre del 40% i volumi di produzione.

Perché si producono così tanti abiti?

Perché si producono così tanti capi di abbigliamento se poi la stessa industria tessile sa perfettamente che una buona fetta di questa produzione finisce persa, bruciata o in discarica?

Sempre in Europa, i cittadini consumano ogni anno quasi 26 kg di prodotti tessili e ne smaltiscono circa 11 kg. Gli indumenti usati possono essere esportati al di fuori dell’UE, ma per lo più vengono inceneriti o portati in discarica (87%). Complessivamente, l’Europa produce 5,8 milioni di tonnellate di rifiuti tessili in un anno. E sono dati di qualche anno fa. Oggi potrebbe andar peggio.

E entro il 2030, il consumo di capi di abbigliamento e calzature, sempre secondo lo studio, dovrebbe aumentare del 63%, passando dagli attuali 62 milioni di tonnellate a 102 milioni di tonnellate.

Come spesso accade, non c’è solamente un motivo, ma diversi. Intanto, un vecchio modello industriale che ancora domina il mercato vede nei grandi volumi la possibilità di ridurre i costi di produzione e di vendere ad un prezzo contenuto.

Più è lunga la catena del valore, più cresce l’efficienza produttiva e quindi dell’impianto nel suo insieme. Gli ordini poi non mancano mai per alimentare questo processo, perché il mondo ricco da anni ha scelto il modello di consumo usa e getta e la fast fashion, con i brand che stimolano all’eccesso il desiderio di acquisto del consumatore e allo stesso tempo l’offerta di prodotti (grazie anche ad un ciclo infinito di sconti e offerte).

Insomma, le case di moda producono troppi vestiti e quindi devono creare sempre più domanda. Ma il rovescio della medaglia è evidente da anni: inquinamento di acqua e terra, depauperamento delle risorse naturali, emissioni di CO2 e altri gas serra.

Abbigliamento e inquinamento

Secondo varie fonti, l’industria tessile è la quarta per impatto ambientale e climatico solo nel vecchio continente, al primo posto c’è l’industria alimentare, poi l’edilizia e quindi i trasporti.

La produzione tessile ha bisogno di utilizzare molto acqua, senza contare l’impiego dei terreni adibiti alla coltivazione del cotone e di altre fibre. Si stima che l’industria tessile e dell’abbigliamento abbia utilizzato globalmente 79 miliardi di metri cubi di acqua nel 2015, mentre nel 2017 il fabbisogno dell’intera economia dell’UE ammontava a 266 miliardi di metri cubi.

Alcune stime indicano che per fabbricare una sola maglietta di cotone occorrano 2.700 litri di acqua dolce, un volume pari a quanto una persona dovrebbe bere in 2 anni e mezzo.

Nel 2020, il settore tessile è stato la terza fonte di degrado delle risorse idriche e dell’uso del suolo. In quell’anno, sono stati necessari in media nove metri cubi di acqua, 400 metri quadrati di terreno e 391 chilogrammi di materie prime per fornire abiti e scarpe per ogni cittadino dell’UE.

Il lavaggio dei prodotti sintetici ha causato l’accumulo di oltre 14 milioni di tonnellate di microplastiche sul fondo degli oceani. Oltre a questo problema globale, l’inquinamento generato dalla produzione di abbigliamento ha un impatto devastante sulla salute delle persone locali, degli animali e degli ecosistemi dove si trovano le fabbriche.

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