I fatti sono noti: in occasione della giornata nazionale contro la violenza sulle donne, la Presidente della Camera dei Deputati ha deciso di imbastire un personale autodafé 2.0, per catalizzare l’attenzione sui cosiddetti “haters”, una categoria di violenti che trova nei social network il proprio habitat naturale, accomunata dalla propensione alle espressioni d’odio, preferibilmente gratuite.
Perché l’azione di contrasto fosse più efficace, la Presidente ha deciso di esporre al pubblico biasimo i propri persecutori virtuali, selezionando tra i numerosi insulti recapitatele nell’ultimo mese quelli (a suo giudizio) più vistosamente delinquenziali. E per assicurarsi che la lezione fosse chiara a tutti, ha lasciato a corredo di ogni commento criminoso nome, cognome e fotografia del responsabile.
Sia chiaro: a stento riusciamo a ritenere le bestialità rivolte all’indirizzo di Laura Boldrini come manifestazioni di pensiero, se non altro perché siamo convinti che l’esercizio del raziocinio sia l’espressione più elevata dell’umanità. E, onestamente, tra tutti i modi per descrivere i commenti che abbiamo letto, “razionali” non ci sembra il più adatto. Non abbiamo dubbi, invece, nel definirli squallidi, deprecabili, moralmente e giuridicamente ripugnanti.
Ciò che riteniamo più allarmante, però, è il metodo di reazione: è giusto e sacrosanto promuovere campagne di sensibilizzazione per estirpare le brutture della società. È assolutamente lecito difendere la propria dignità, quando viene così violentemente lesa. Ma, dalle nostre parti, ci siamo dati delle regole per rimediare all’offesa dei diritti che la Legge riconosce meritevoli di tutela: se si decide, come ha fatto la Boldrini, di uscire dal recinto delle garanzie democratiche, si passa necessariamente dalla parte del torto.
Non è la rete l’organo incaricato di ricevere le denunce di reato. Peggio, non spetta alla vittima emettere sentenze di condanna nei confronti dei (presunti) responsabili, per giunta profittando della propria autorità per dare una parvenza di legittimazione al giudizio di colpevolezza. Proprio chi fa il mestiere della politica ai livelli più elevati e presiede un’assemblea legislativa avrebbe a disposizione ben altri mezzi di difesa (se mai le querele non fossero sufficienti a placare l’acredine), ove per difesa, naturalmente, non intendiamo autodifesa: sarebbe stato doveroso, oltreché opportuno, cogliere l’occasione per mettere a fuoco la disciplina normativa di un fenomeno ancora poco nitido, piuttosto che alimentarlo. Il potere di rappresentanza istituzionale dovrebbe essere impiegato per educare alla civiltà, non per gonfiare l’odio.
Non sbaglia chi osserva – come la gran parte dei commentatori – che i post pubblicati dagli utenti di Facebook sono, appunto, pubblici e consapevolmente resi disponibili dagli stessi autori. È vero: chi scrive sa perfettamente (o dovrebbe saperlo) che ogni frase, ogni parola, ogni virgola contenuta nel proprio commento potrà essere letta da chiunque, dovunque e senza limiti di tempo. È vero, quindi, che chi offende agisce “con coscienza e volontà”: i penalisti parlerebbero di suitas della condotta. Ma si faccia attenzione: di che cosa, esattamente, è consapevole chi esprime apprezzamenti offensivi sulle pagine di un social network?
Non vogliamo affatto utilizzare, sia detto per inciso, gli argomenti dell’ingenuità nell’uso dei social media, della carenza di “cultura digitale”, o dell’incapacità di percepire gli effetti reali delle proprie condotte virtuali. Ignorantia iuris non excusat: se non conosco le regole del codice della strada e (tanto per dire) supero i limiti di velocità, nella migliore delle ipotesi mi sarà irrogata una sanzione amministrativa. Se poi, a causa della stessa inconsapevole infrazione, dovessi provocare un incidente mortale, a nulla varrebbe obiettare l’ignoranza della norma penale per sottrarmi al giudizio di colpevolezza: ciò che conta non è conoscere il diritto codificato, ma rendersi conto del carattere antisociale della condotta. E tanto vale anche nei rapporti virtuali: un fatto offensivo resta tale anche su Facebook e il digital divide non ha niente a che fare con la coscienza della potenzialità lesiva delle proprie azioni. Altrimenti, dovremmo seriamente pensare a un’interdizione di massa degli haters.
La scarsa dimestichezza con i meccanismi del web, dunque, non è una scriminante. Ma allora che avrebbero da lamentarsi gli sgrammaticati maldicenti riuniti sulla bacheca Facebook della Signora Boldrini con la targa di depravati, violenti e sessisti? Esattamente di questo: nomi, cognomi, immagini fotografiche e opinioni sono dati personali che, anche se resi pubblici dagli interessati, possono essere usati, ma non abusati dai terzi. La Presidente non si è limitata a citare i commenti, ma li ha raccolti, organizzati e divulgati per finalità dichiaratamente punitive, contravvenendo ai precetti fondamentali posti a salvaguardia del diritto alla riservatezza (precisati nel nostro Codice per la protezione dei dati personali): pure ammettendo la liceità del fine, era davvero necessario, per realizzarlo, identificare in modo inequivoco i soggetti coinvolti? Se davvero l’intento fosse stato quello di stimolare una riflessione sulla violenza verbale contro le donne, sarebbe stato più che sufficiente (e certamente più efficace) mettere in fila quell’agglomerato di scurrilità che è l’essenza dell’aggressione, a prescindere dai nomi e dai volti. Una tale manipolazione dei dati altrui è, se possibile, più lesiva dell’odio in rete. Senza contare che, tra le altre cose, la Signora Boldrini, ha violato i Termini di Servizio di Facebook, che (giustamente) vietano la pubblicazione di screenshot contenenti dati personali (inclusi foto, nomi, ecc.) prima di aver acquisito il consenso scritto degli interessati.
Ora, non serve avere una formazione giuridica per comprendere che chi fa le Leggi non può essere lo stesso soggetto giuridico (o, peggio, la stessa persona fisica) che le fa rispettare.
Non è tanto l’arroganza del giudizio arbitrario, però, a suscitare indignazione. È un errore, non c’è dubbio, ma sbagliare, tutto sommato, è umano. Il punto è che la Boldrini non ha agito per errore: lo ha fatto con convinzione. Si è parlato, per definire la gogna confezionata dalla Presidente per i propri detrattori, di giustizia da far west – far web, nel caso di specie – o di legge del taglione. Il far west (o web, che sia) evoca, tuttavia, uno scenario di anarchia e sopraffazione reciproca: qui, però, non c’è uno sceriffo a ripristinare l’ordine applicando la legge, come si addice al suo ruolo. Piuttosto un deus ex machina autolegittimato. Il taglione, d’altra parte, rende bene il concetto di giustizia privata, ma è pur sempre un giustizialismo inter pares. Allestire ed esporre al pubblico questo campionario di presunti diffamatori non è ripagare il torto subito con la stessa moneta: è una lista di proscrizione. Che ha immediatamente sortito i suoi effetti, isolando i violenti e scatenando contro di loro una carica di odio cento volte più feroce. È la regola del fight back. Se si autorizzano, anziché confinare, pratiche del genere, si storpia gravemente la cultura democratica.
E speriamo che il Garante privacy legga con attenzione le nostre rubriche minion, perché forse con coraggio potrebbe/dovrebbe cogliere l’occasione oggi per ricordare soprattutto a chi ci rappresenta le radici (ormai da ritenersi costituzionalmente garantite, con o senza Riforma Renzi!) della protezione dei dati.