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Minions4Italy. E se lo spam trionfalistico tira in ballo le Istituzioni?

sporchiamoci di giallo

“Noi siamo principi liberi e abbiamo altrettanta autorità di fare guerra al mondo intero quanto coloro che hanno cento navi in mare” (Samuel Bellamy)

Accade in queste ore un fenomeno inspiegabile.

Mentre il panorama digitale di casa nostra appare piuttosto fosco – come si evince chiaramente da un’indagine sviluppata in queste settimane dall’associazione ANORC e di cui potete trovare un abstract a questo link – proprio chi, almeno nelle intenzioni, dovrebbe aiutarci a renderlo migliore, sembra ignorare alcune delle regole più elementari del trattamento dei dati, inoltrando inviti a convegni privati a un numero imprecisato di indirizzi e-mail personali (reperiti non si sa bene come).

Ogni privato cittadino, ente, azienda o PA deve osservare precise regole in materia di comunicazione digitale ed esiste un Codice, il quale definisce con particolare attenzione come si devono proteggere i dati personali, che va rispettato. Invece c’è un’associazione, nella fattispecie Digital Champions  – che solleva dubbi già per altre motivazioni, ad esempio per il fatto che il suo fondatore abbia registrato con largo anticipo un domain name identico al titolo del ruolo  istituzionale che avrebbe assunto solo un paio di mesi dopo (a inconfutabile riprova che l’astrologia e i corpi celesti – ad esempio, la luna – possono regalare doti di premonizione e chiaroveggenza) – la quale sembra non dare importanza alle regole fondamentali del trattamento dei dati personali e della netiquette, effettuando una pesante campagna di comunicazione in occasione dell’invito a un suo evento.

Il Codice a cui si fa riferimento è ovviamente il Codice per la protezione dei dati personali, secondo il quale ogni trattamento di dati personali va effettuato nel rispetto di specifiche regole e, in particolare, l’utilizzo di dati personali altrui per certe tipologie di trattamento – come gli inviti di carattere commerciale o comunque le comunicazioni elettroniche di carattere automatizzato –  dovrebbe essere preceduto dal consenso degli interessati e, in ogni caso, contenere ben in evidenza almeno il link dove è resa disponibile un’idonea informativa che consenta ai destinatari di comprendere l’origine del trattamento e soprattutto indichi le modalità per esercitare i diritti attribuiti loro dalla legge. Inoltre, la buona educazione digitale vorrebbe che le comunicazioni email di questo tipo non fossero inoltrate lasciando in chiaro tutti gli indirizzi dei (in questo caso numerosissimi) destinatari.

Bene, i Digital Champions organizzeranno a novembre un convegno per intonare alte lodi ai propri successi ottenuti in quest’anno di attività, e come procedono agli inviti? Violando le banali regole della comunicazione a scopo promozionale e dell’email direct marketing – regole che soprattutto gli alfabetizzatori digitali dovrebbero conoscere – in poche parole, facendo spam.
Mentre l’indagine ANORC sullo stato di salute della PA digitale italiana solleva una foglia di fico che ci svela una situazione imbarazzante (la maggioranza delle nostre PA procedono alla cieca in materia di digitalizzazione, non ci sono Piani di informatizzazione, né Manuali di gestione dei documenti informatici pubblicati sui siti web istituzionali, negli albi on line si pubblica a casaccio e senza regole), i “rappresentanti” dell’innovazione nel nostro Paese si preoccupano di far arrivare a tutti coloro che conoscono inviti a eventi “riservati”. E poi, quando il malcapitato invitato si permette di chiedere come mai il suo account personale si trovi tra gli indirizzi “in chiaro” di quella comunicazione e-mail, riceve repliche di questo tenore: “Prima chiedete di diventare digital champion ed essere riconoscibili, e poi vi lamentate se c’è la vostra email in chiaro (di cui onestamente non frega nulla a nessuno, al massimo ci si tira su qualche euro per l’aperitivo). Possiamo tornare tutti a lavorare adesso che abbiamo perso già abbastanza tempo con il nulla?”.

Quindi, sembrerebbe che i database dell’associazione in questione – portata avanti a livello istituzionale come esempio di innovazione digitale – non siano aggiornati, e che sia sufficiente aver richiesto un giorno (ammesso che sia vero) di diventare digital champion (magari non ottenendo alcuna cortese risposta in merito) per entrare automaticamente in una distribution list di spam convegnistico (e altre sciocchezzuole varie).

E se il malcapitato prova a ribellarsi e a esercitare i suoi diritti, sanciti dal Codice per la protezione dei dati personali, invece di ottenere le dovute scuse, si ritrova a ricevere sberleffi.

Sono questi i campioni di competenze digitali?

Ha senso continuare a puntare per il futuro digitale del nostro Paese su una sola associazione privata, costruita in fretta e furia, senza criteri di selezione trasparenti dei suoi singoli componenti, ognuno dei quali utilizza impropriamente un titolo che secondo la normativa europea dovrebbe essere attribuito a un solo rappresentante per Stato membro, senza subire clonazioni? Peraltro “l’esercito della salvezza digitale”, che aveva annunciato 8000 iscritti, uno per ogni comune italiano, pare essere rimasto, numericamente, molto al di sotto delle aspettative.

Per far crescere l’Italia digitale non occorre puntare sulla “fuffa”, ma su competenze serie e riconosciute con percorsi di formazione ed esperienza sul campo.

Non abbiamo bisogno di convegni nazionali dove in modo patinato viene disegnata un’Italia digitale che non esiste, bisogna aprire gli occhi e rimboccarsi davvero le maniche per costruire qualcosa di serio e concreto.

C’è qualcosa che non va nella nostra Italia Digitale.

Iniziamo ad accettarlo, se vogliamo davvero procedere con un altro passo, tenendo bene a mente che senza digitalizzazione non c’è trasparenza e questo, come la cronaca ogni giorno ci dimostra, è un danno per tutti.  E iniziamo a dire no.

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