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Meta e il ritorno alla libertà di espressione. Rivoluzione o strategia di profitto?

Ha destato scalpore – ma non era del tutto inaspettato – l’annuncio di Meta di un cambio di rotta sulla libertà di espressione per i suoi social media, che comprende Facebook, Instagram e Threads. La comunicazione – resa personale e “calda” da un video di 5 minuti intitolato “More Speech and Fewer Mistakes” in cui a parlare è lo stesso Zuckerberg con la solita t-shirt – segna un momento di svolta per la gestione della moderazione dei contenuti, con l’introduzione di una serie di misure che mirano a ridurre la censura e a “ritornare alle origini” della libertà di espressione, come dichiarato dallo stesso Zuckerberg: “Ciao a tutti. Oggi voglio parlare di qualcosa di importante perché è il momento di tornare alle nostre radici riguardo la libera espressione su Facebook e Instagram,” ha affermato. “Ho iniziato a costruire i social media per dare voce alle persone (…) I fact-checkers sono stati troppo politicizzati e hanno distrutto più fiducia di quanta ne abbiano creata, specialmente negli Stati Uniti (…) È tempo di tornare alle nostre radici sulla libertà di espressione. Ho iniziato a costruire i social media per dare voce alle persone. Ora vogliamo ridurre gli errori, semplificare le nostre politiche e ripristinare la libertà di espressione sulle nostre piattaforme”.

Gli errori a cui fa riferimento Zuckerberg sono quelli commessi dalla sua stessa intelligenza artificiale, utilizzata per identificare contenuti tossici o problematici. Questi errori includono la rimozione di contenuti innocui o rilevanti, come post di attivisti e giornalisti, e l’incapacità di distinguere tra ironia e messaggi offensivi. Una situazione ben nota agli addetti ai lavori e non solo – ne avevamo parlato qui e che ha evidenziato le difficoltà di bilanciare automazione (sempre più spinta) e controllo umano (sempre più scarso). La questione delle cancellazioni indebite di contenuti da parte dell’intelligenza artificiale di Meta è palesemente una scusa che non regge: basterebbe assumere più persone per un controllo umano dei contenuti, ma ciò comporterebbe costi maggiori e una riduzione dei margini di profitto. Ed eccoci al punto.

Le policy di Meta si allineano a quelle di Musk

Zuckerberg, in poco più di 5 minuti, ha rivoluzionato gli ultimi 10 anni della sua safety policy e dei suoi community standards annunciando l’abolizione in toto del sistema dei “fact-checker”, ovvero delle centinaia di società e associazioni che in tutto il mondo sono impegnate (perchè pagate da Meta) in un complesso sistema di controlli e bilanciamenti per limitare la presenza sui social media di hate speech, disinformazione e propaganda digitale (in Italia sono Open e Pagella Politica). Sul modello di quanto già implementato da Musk su X (ex Twitter) anche Meta introdurrà il sistema noto come **community notes (note della collettività) che, secondo quanto riportato proprio da X “mirano a creare un mondo più informato, consentendo agli utenti su X di collaborare aggiungendo informazioni contestuali a post potenzialmente fuorvianti. I collaboratori possono lasciare note su qualsiasi post. Se un numero sufficiente di collaboratori, con diversi punti di vista, valuta utile una nota, questa verrà mostrata pubblicamente su un post“.

L’accusa fondamentale mossa da Meta ai fact-checker è che nel tempo siano stati “politicizzati” e che abbiano perso la fiducia degli utenti. Secondo quanto riportato da Wired, un portavoce di Meta ha dichiarato: “I partner di fact-checking spesso adottano prospettive che riflettono pregiudizi culturali e politici, il che li rende inadeguati per garantire una moderazione imparziale”.

Tuttavia, questo cambiamento ha già sollevato diverse critiche, in particolare da parte della Rete Nazionale Contro l’Odio, che riunisce moltissime associazioni attive contro discriminazione e violenza. Federico Faloppa, sociolinguista e coordinatore della REte, ha sottolineato: “L’eliminazione dei fact-checker rappresenta un passo indietro nella lotta contro la disinformazione. Affidare la verifica dei contenuti alle community notes non è sufficiente per garantire una moderazione efficace e imparziale”.

Oltre alla rimozione dei fact-checker, sempre secondo quanto dichiarato da Zuckerberg, Meta prevede di:

  1. Semplificare le politiche sui contenuti, riducendo le restrizioni su temi come immigrazione e genere.
  2. Modificare l’applicazione delle politiche, concentrandosi su violazioni gravi e affidandosi alle segnalazioni per quelle minori.
  3. Reintrodurre contenuti di carattere civico e politico nelle raccomandazioni delle piattaforme.
  4. Spostare i team di moderazione da California al Texas per ridurre la percezione di bias politico.
  5. Collaborare con il governo statunitense per contrastare le pressioni censorie di altri Stati.

Ripensamenti e Pressioni: il contesto

I ripensamenti di Meta non sono nati dal nulla. Già ad agosto, Zuckerberg aveva accusato l’amministrazione Biden di pressioni indebite, puntando il dito contro il governo per aver insistito su politiche di moderazione troppo invasive durante la pandemia di Covid-19. Zuckerberg aveva dichiarato: “La Casa Bianca non ci ha lasciato altra scelta che seguire una linea dura, che ha poi danneggiato la fiducia degli utenti e alimentato accuse di censura”. Questo episodio, sebbene legato al contesto pandemico, ha segnato una frattura evidente tra Meta e le istituzioni governative, anticipando la nuova strategia annunciata nel video. Matteo Flora, esperto di reputazione digitale e docente universitario, ha espresso preoccupazioni in merito a queste scelte. In un suo intervento riportato da Il Riformista, Flora ha osservato come l’abolizione dei fact-checker e l’adozione delle community notes possano condurre a quella che da definito come una sorta di “anarchia digitale”, in cui le piattaforme si deresponsabilizzano lasciando agli utenti il compito di moderare. Questo, secondo Flora, potrebbe aumentare il caos informativo anziché ridurlo.

Le Nomine Strategiche nel Consiglio di Amministrazione

Il cambio di rotta di Meta è netto e non riguarda solamente le regole interne dei suoi social media. Nelle ultime settimane, Mark Zuckerberg ha cercato di instaurare legami più stretti con la futura amministrazione americana guidata da Donald Trump. Un segnale di questa strategia è la donazione di un milione di dollari al fondo per l’insediamento del presidente eletto, accompagnata da una visita alla residenza di Trump a Mar-a-Lago, in Florida. Durante l’incontro, Zuckerberg ha regalato al presidente eletto un paio di occhiali Ray-Ban AI prodotti da Meta. 

Il giorno prima che Zuckerberg pubblicasse il suo video, il 6 gennaio, in un altro abbastanza clamoroso annuncio, Meta aveva dicharato di aver incluso nel suo Consiglio di Amministrazione, quattro nuovi membri, suscitando attenzione e critiche. Si tratta di Joel Kaplan, ex vice capo dello staff del presidente George W. Bush,  di Dana White, CEO dell’Ultimate Fighting Championship, che ha avuto un ruolo chiave nella rielezione di Donald Trump, di Charlie Songhurst, ex general manager di Microsoft, e John Elkann, CEO del gruppo Exor, nonché, tra le altre cose, azionista di maggioranza della Juventus e della Ferrari. Queste scelte evidenziano un cambiamento strategico di Meta, che da un lato dichiara di voler meno politica sulle sue piattaforme, dall’altro consolida il suo potere proprio attraverso una maggiore vicinanza politica. 

Ritorno alle origini o semplice operazione commerciale?

Zuckerberg ha giusificato questo cambiamento come un ritorno alle origini di Meta come piattaforma per la libertà di espressione. Ma è proprio così? Quali origini? Non certo quelle del web aperto e democratico immaginato dai pionieri di Internet. Piuttosto, si tratta di un ritorno alle logiche oligopoliche delle start-up, un tempo sostenute dai fondi di capital venture  ora sempre più dai Governi, dove il profitto è l’unico vero obiettivo. Nel mio libro “Troppo Social, Molto Dark”, ho più volte evidenziato come le grandi piattaforme abbiano progressivamente colonizzato Internet, abbandonato l’ideale di un web aperto, evolvendosi in veri e propri oligarchi digitali in grado di esercitare uno strapotere economico e politico, spesso in conflitto con le sovranità statali.

In questo contesto, l’eliminazione dei fact-checker appare come una strategia per ridurre i costi operativi e aumentare la fiducia degli utenti, senza affrontare realmente il problema della disinformazione. Come osservato in un articolo di Bortone su Key4Biz,

Il Conflitto tra Piattaforme e Stati. Chi si ricorda di Pavel Durov?

Le mosse di X e ora di Meta portano alla luce un conflitto mai sopito, a volte carsico, ma sempre presente tra big tech e Governi nazionali: aumentare il profitto senza essere soggetti a troppi controlli. Non lo diciamo noi, lo afferma proprio Zuckerberg senza veli nel suo video: “I governi e i media legacy hanno spinto per censurare sempre di più, spesso per ragioni politiche”, ha dichiarato, aggiungendo che “l’unico modo per contrastare questa tendenza globale è con il supporto del governo degli Stati Uniti“. Un conflitto che le big tech insistono a voler ammantare di una dimensione ideologica, la stessa che ha portato al successo il movimento MAGA (Make America Great Again). Quello che accomuna, senza dubbio, Trump ed Elon Musk è il convincimento rappresentato dall’ascesa negli USA e in tutto l’occidente, di una cultura “woke”, vero pericolo per la libertà di espressione e per la democrazia liberale. Musk ha più volte criticato pubblicamente quella che definisce “un’ideologia censoria e divisiva” promossa da alcuni governi e media tradizionali. “La libertà di espressione non può essere sacrificata sull’altare del politicamente corretto“, ha dichiarato Musk in un recente intervento.

Seguire il filo di questo conflitto tech-governi non è sempre facile. Non dimentichiamo che è ancora in discussione negli Stati Uniti la revisione della madre di tutte le policy dei social media, “la “Section 230”: approvata nel 1996 come parte del Communications Decency Act, la Sezione 230 protegge le piattaforme dalla responsabilità per i contenuti di terze parti (link a: https://www.lawfaremedia.org/article/why-we-re-tracking-all-the-proposals-to-reform-section-230).  Anche la norma bi-partisan che dovrebbe proteggere i minori dai dai potenziali danni a cui sono sottoposti per la frequentazione dei social media è impantanata e non vedrà forse la luce. Ecco perchè Zuckerberg che balbettava di fronte al senatore repubblicano che lo incalzava a chiedere perdono alle famiglie delle vittime dei suoi strumenti digitali è quanto di più lontano possibile da quello apparso nel video in cui dichiara il cambio di rotta (link a https://www.key4biz.it/social-network-i-principali-ceo-in-audizione-al-senato-usa-cosa-e-successo-video/478207/). Insomma, nonostante i duri colpi inflitti al social cinese Tik Tok (link a https://www.key4biz.it/social-media-nuove-regole-per-i-minori-di-16-anni-in-australia/514061/) , sembra proprio che stiano vincendo le big tech. Ma è davvero così?

Per comprendere appieno questo scontro occorre ripotare alla nostra ormai brevissima memoria anche la vicenda (dimenticata ai più) di Pavel Durov, fondatore di Telegram, arrestato a Parigi nel mese di agosto e ancora detenuto, seppure agli arresti domiciliari. Ed è proprio dalla Francia che Durov, piegato dalla sua nuova condizione, ha iniziato a riconsiderare alcune delle sue posizioni precedenti, aprendo a possibili cambiamenti nella gestione della piattaforma, come riportato da ICT Security Magazine. Questa situazione sottolinea come il conflitto tra piattaforme digitali e sovranità statali non sia un fenomeno isolato a Meta, ma coinvolga anche altri grandi attori del panorama tecnologico. “La detenzione di Durov rappresenta un monito per tutte le big tech: nessuno è immune alle pressioni governative”, osservano gli esperti, segnalando che il caso Telegram potrebbe anticipare ripercussioni più ampie nel settore.

Durov ci riporta prepotentemente in Europa, mettendo in evidenza la complessità del conflitto tra big tech e Stati nazionali. La sua detenzione non solo sottolinea la pressione esercitata dai governi sulle piattaforme digitali, ma offre anche uno spunto per riflettere su come le piattaforme possano rispondere a tali sfide, bilanciando la necessità di conformarsi alle normative locali con la loro aspirazione a operare su scala globale. Ecco perchè la nomina di Elkann è particolarmente interessante: ci induce ad allargare il nostro sguardo. Per le big tech il problema non è rappresento solo dagli Stati bensì, anzi soprattutto, dall’unione di stati. Il riferimento ovvio è all’Unione Europea, l’unico continente impegnato attivamente, prima con il GDPR, ora con il DSA, a tutelare i propri cittadini proteggendo privacy, minori e sistemi democratici contro ogni forma di propaganda digitale. 

Ecco che Elkann allora può rappresenta re “un ponte verso i palazzi che contano in Europa sia per la sua influenza nel mondo industriale sia per la sua posizione in campo mediatico”, come ha giustamente scritto Matteo Flora. Non dimentichiamo che Exor è molto attiva nell’editoria: attraverso il gruppo Gedi, pubblica tra gli altri La Repubblica e La Stampa ed è proprietaria tramite Elemedia di Radio Deejay, Radio Capital, Radio m2o, Deejay TV, m2o TV e Radio Capital TiVù. La holding è, inoltre, il primo azionista del settimanale economico inglese The Economist. Non c’è spazio per parlare anche di Jef Bezos, il magnate di Amazon, ma io suo allineamento alle politiche di Trump era apparso già in campagna elettorale, quando aveva impedito che il suo giornale, il Washington Post, prendesse posizione (come sempre aveva fatto) a favore della candidata democratica. L’ultimo episodio, in ordine temporale, sono le dimissioni della storica vignettista del giornale, dopo che Bezos aveva impedito la pubblicazione di una vignetta in cui i fondatori e CEO delle big tech portano doni e omaggiano i piedi della statua di Donald Trump.

Più profitto che aspetti etici

L’annuncio di Zuckerberg segna un punto di svolta per Meta, ma le implicazioni sono tutt’altro che chiare. Mentre l’azienda promette un ritorno alla libertà di espressione, le decisioni prese sembrano guidate più dal desiderio di profitto che da principi etici.

La rimozione dei fact-checker e la semplificazione delle politiche rischiano di aggravare il problema della disinformazione, mentre il conflitto con i governi potrebbe rafforzare ulteriormente il potere delle piattaforme a discapito della democrazia. La sfida sarà trovare un equilibrio tra libertà di espressione, responsabilità sociale e sostenibilità economica, senza sacrificare i diritti degli utenti e la verità dei contenuti.

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