Vi è mai capitato di trovarvi di fronte a una di quelle statistiche che cercano di fotografare il mercato televisivo italiano? Quante volte ci siamo persi a leggere tra gli articoli di giornale, decine di dati e tabelle per cercare di capire a quanto ammonta la flessione del mercato delle pay tv ad esempio, ossia quel settore che soffre da anni di un andamento negativo del numero degli abbonati, con un naturale spostamento degli investimenti degli inserzionisti pubblicitari su altri versanti.
Ogni buon analista cerca sempre di ricondurre un fenomeno complesso come questo ad un numero, ad una variazione trimestrale, ad un dato matematico. E la strada maestra è stata sempre quella di disegnare il mercato dal punto di vista della sua struttura economica. In un percorso come questo, è molto facile perdersi in alcuni libri che propongono affascinanti teorie sui mercati a più versanti, ma nonostante certe letture erudite, che comunque caldeggiamo, dobbiamo continuare a chiederci come collocare singolarmente le aziende che compongono il nostro scenario televisivo in un contesto in continua evoluzione, dove ogni definizione è destinata a perdere di significato nel quadro complessivo della nostra indagine.
Alcune domande ce le siamo poste diversi anni fa, quando YouTube ha smesso di essere un raccoglitore di filmini delle vacanze ed ha iniziato a giganteggiare nel mercato degli User Generated Content aggredendo una fetta di spettatori (c.d. eyeballs) che prima posavano la loro attenzione su altri versanti.
Oggi che Netflix è arrivato in Italia, abbiamo elementi sufficientemente validi per inquadrarlo come prodotto nuovo ma non nuovissimo, che si muove in un mercato vecchio (Broadband) ma non del tutto tramontato (come il noleggio delle videocassette).
Ora, senza minimamente rinnegare gli studi su citati – che comunque hanno la loro valenza scientifica e che sono di grande ausilio per chi approccia questo settore da un punto di vista tecnico – è di tutta evidenza che ci sono degli aspetti che volutamente restano trascurati per ragioni legate in parte alla difficoltà della regolamentazione di adeguarsi alla proposizione di servizi innovativi che affiancano le televisioni tradizionali (in chiaro o a pagamento) e che portano a una diversa fruizione dei contenuti da parte dei consumatori
Ecco quindi che non basta più una semplice analisi economica e non basta nemmeno – da sola – l’analisi della dottrina Antitrust perché la disciplina della concorrenza in questi mercati è soltanto una parte (seppur molto larga) del problema ma certamente da sola non fornisce tutti gli strumenti necessari per poterlo comprendere a fondo.
Restano fuori almeno altri due aspetti fondamentali il primo dei quali riguarda la parte finanziaria relativa agli investimenti e alle sinergie che va sotto il nome di consolidamento, e che rappresenta un concentrarsi di aziende che si fondono, di volta in volta creano alleanze oppure acquisizioni secondo un rincorrersi tra cacciatore e preda che poi è la parte che più fa notizia sui giornali, anche a livello di illazione quando magari c’è un operatore impegnato in un altro settore che improvvisamente viene proiettato anche ad operare nei mercati a valle e a monte rispetto al proprio business.
Ecco quindi che sono nate molte figure ibride rispetto alle figure classiche che conoscevamo finora, cioè quelle che erano le televisioni in chiaro che prima avevano solamente di fronte le televisioni a pagamento quasi come fosse una dicotomia costante e continua dalla quale non ci potessimo allontanare. C’è l’universo degli operatori Over the Top che operano sopra la rete ed offrono servizi paragonabili, pur essendo svincolati da molte normative che invece affliggono i vecchi broadcaster.
Dunque qualcosa sta cambiando e la normativa del settore non è adeguata, non è ancora pronta, e sta lasciando un vuoto che mette a rischio imprese e posti di lavoro. Il mercato è cambiato ma forse non è cambiato l’atteggiamento con cui gli analisti e gli organi regolamentari lo valutano ogni anno quando riconducono il mercato delle pay tv solamente a due maggiori player uno impegnato sul satellite l’altro impegnato con un decoder a catturare dei contenuti molto pregiati per rubare spettatori e inserzionisti dall’altro versante.
Ma che cosa sta accadendo di veramente nuovo?
Sta succedendo che gli operatori telefonici vogliono implementare al proprio interno delle strategie video e lo vogliono fare in vari modi: acquistando contenuti di pregio piuttosto che creando alleanze semplici con altri operatori già attivi nel settore, o fagocitandoli.
Ma è veramente una cosa nuova questa?
Probabilmente no però già 10 anni fa c’era chi proponeva di trasformare il più importante operatore telefonico italiano in una media company – seppur con scarsi risultati qualcuno ci ha provato. Per questo credo che oggi più che mai ha veramente scarso significato analizzare il mercato televisivo nella sua interezza senza distinguere a livello capillare tutti fenomeni che lo compongono.
(dariodenni.it)