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Ma come parla la Rai agli utenti digitali?

MICHELE MEZZA GIORNALISTA

Quali sono i nodi su cui il Servizio pubblico dovrebbe garantire al Paese un ruolo attivo? Quale la strategia sociale che dovrebbe adottare per ripensare il suo ruolo nell’abbondanza digitale? Le proposte alla governance della Rai in un’intervista a Michele Mezza, docente di Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi, all’Università Federico II di Napoli.

“Ognuno che muore era uno spettatore del servizio pubblico, ognuno che nasce la Rai non la incontrerà mai”. Esordisce così Michele Mezza, con una metafora che lui stesso definisce sgradevole ma concretamente fedele, condannando così ad una agonia inesorabile il mezzo.

Per 40 anni giornalista in Rai, dove ha ideato e curato il progetto di Rainews24, Mezza descrive una Rai sempre più debole e condizionata da una politica che“cerca di stressare e di strizzare quelle ultime gocce di consenso che riesce a ottenere, illudendosi di avere una scorciatoia come sostitutivo della presenza politica nel Paese e nella società”.

Due  sono i problemi paralleli ma non convergenti che Mezza, senza indugio, delinea: Da una parte, c’è lo stadio di adeguamento del sistema professionale e giornalistico italiano, un’evoluzione tecnologica vorticosa che ha cambiato radicalmente lo scenario, il ruolo e la funzione del mediatore giornalistico”– un processo che può essere sintetizzato nel passaggio dal broadcasting al browsing – “dall’altra c’è l’invadenza del sistema politico che ovviamente cerca permanentemente di decidere le nomine e strumentalizzare il sistema informativo”. Un fenomeno atavico, quest’ultimo, che  viene in qualche modo misurato e contenuto dal calo vertiginoso di influenza dei mass media e in particolare della tv generalista.

Ma come superare questo condizionamento politico?

La libertà di stampa deve servire ai governati e non ai governanti” risponde così Michele Mezza, citando lo slogan di ‘The Post’, un film di Steven Spielberg, che fa riflettere sulla libertà di stampa. Ieri, ma soprattutto oggi. “Libertà che si afferma -precisa Mezza – mediante una forza della società civile e della autonomia operativa e produttiva del sistema professionale”. Cosa che non accade oggi, la società civile tende invece a disancorarsi dalla televisione generalista.

Ecco perché Mezza precisa di non vedere molte isole di liberazione nel mondo – prendendo come esempio anche la Francia e l’Inghilterra – e spiega che “se la politica continuerà a farsi rappresentare nella sua dimensione peggiore, di pura occupazione di spazi per propaganda mascherata, il suo destino sarà inevitabilmente la fine”. 

E questo è un aspetto importante che la stessa politica dovrebbe cogliere non tanto nell’uso dell’azienda quanto “nella sua digitalizzazione come trasformazione radicale dei saperi, delle competenze, delle esperienze e delle pratiche di un giornalismo che deve trovare un nuovo modo di rapportarsi ad una platea di utenti che è sempre più emancipata, più informata, più ambiziosa e pretenziosa”.

Il nuovo contratto di servizio occasione persa?

Ed è esattamente quello che Michele Mezza si aspettava dal nuovo contratto di servizio: “Una missione dell’azienda sulla transizione ai linguaggi digitali a partire dall’irruzione dell’intelligenza artificiale che va vista come capacità di crescita degli utenti che fanno delle domande alla televisione e non come bacchetta magica delle redazioni”.

Esattamente come accadeva dieci anni fa con l’utilizzo di Google. Perché gli utenti cambiano prima delle tecnologie e un servizio pubblico deve parlare ad utenti sempre diversi da quelli che ha alle spalle. “Utenti – replica Mezza – che hanno una domanda diversa, un modo diverso di rapportarsi alle notizie perché si pongono il problema innanzitutto di produrle quelle notizie prima che di ascoltarle in televisione: è questa la novità abissale”.

La Rai deve guardarsi attorno

È chiaro che la Rai per valere veramente quello che costa, ossia quasi 2 miliardi di euro l’anno di risorse pubbliche, deve necessariamente guardarsi attorno e non continuare a riprodurre sé stessa.

E per spiegarlo Michele Mezza fa riferimento ad un elemento straordinariamente innovativo, ovvero i dati: “La Rai come usa i dati? Sa elaborarli e finalizzarli ai linguaggi televisivi?”. 

La vertenza che ha paralizzato Hollywood

La recente vertenza che ha paralizzato a Hollywood le produzioni televisive e cinematografiche: sceneggiatori e attori che rivendicano dalle piattaforme, quali Netflix e Amazon, la condivisione dei dati; è proprio la dimostrazione dell’importanza delle parole di Mezza. E invece, leggendo il nuovo contratto di servizio ci rendiamo conto che altro non è che una rimasticatura di ciò che c’è stato finora, un documento caratterizzato – secondo Mezza – da “un baratro sulla missione strategica per il Paese”.

Intelligenza artificiale deve essere elemento portante della nuova televisione

“Non si possono importare linguaggi e modi di pensare, l’intelligenza artificiale deve essere l’elemento costitutivo della nuova televisione.  La Rai deve far lavorare il Paese, deve essere uno strumento che concorre allo sviluppo e all’autonomia”. “È infatti questo il significato di sovranità del Paese sui nuovi dispositivi e linguaggi digitali e di cui la Rai dovrà farsi anche garante di trasparenza etica e funzionale che – come afferma Mezza inizia dagli algoritmi perché è lì che si introducono valori esterni indotti e imposti dai proprietari di queste tecnologie. E un servizio pubblico che si rispetti deve ridurre la dipendenza dei calcolati dai calcolanti”.

L’appello

“Alzare la missione, perché è la missione che fa selezione”: è quindi questo il richiamo di Michele Mezza alla governance Rai. Un appello che comprende in particolare:

 – L’attenzione agli utenti: “Occuparsi degli esseri umani e non degli strumenti, fornendo prodotti e servizi adeguati alla loro evoluzione”;

Il finanziamento e le forme gestionali:In una dimensione di pluralismo oggettivo in cui ognuno incontra programmi televisivi su qualsiasi elettrodomestico è evidente che l’offerta di un servizio pubblico puramente riproduttivo e imitativo non giustifica il canone che deve essere un investimento, non una tassa. Un investimento basato su degli obiettivi identificati, condivisi e negoziabili”;

 – Lasperimentazione dei nuovi modelli professionali di giornalismo:In una fase di evidente transizione in cui l’automatizzazione del mestiere sta diventando una realtà, la Rai deve offrire una opportunità per rendere trasparenti questi processi di automazione. Deve sperimentare un ruolo del giornalista che abbia la piena padronanza di questi saperi, con figure professionali che possono gestire in autonomia, senza inseguire le piattaforme”.

La proposta di Michele Mezza alla presidente Rai Marinella Soldi

E qua si inserisce la proposta di Mezza alla presidente Rai Marinella Soldi:Creare un laboratorio di giornalismo in cui non si tratta di addestrarsi a usare meglio le tecnologie che ci sono ma avere una visione per riorganizzare, riprogrammare e riconfigurare queste tecnologie ai fini  di un nuovo modello in grado di usare i dati  in maniera sociale e condivisa  e non predatoria e speculativa; bisogna fare in modo che l’addestramento dei sistemi di intelligenza artificiale avvenga con esperienze comunitarie e non in maniera commerciale e privata. Un lavoro che presuppone uno sforzo collettivo per individuare i fini e il loro corredo etico che deve riprogrammare il modello di calcolo. Mai come questa volta conta il senso comune della categoria, la massa critica del lavoro di migliaia di colleghi per trovare le domande che rendono la macchina non prescrittiva ma problematica. Si tratta di sudare per trovare percorsi e linguaggi che diano diversa finalità e funzionalità alla potenza di calcolo e alla capacità di processare grandi quantità di dati. Ecco, questi sono i modi con cui una redazione della Rai potrebbe dare un senso al perché pagare il canone”.

Rivedere l’architettura aziendale

Ovviamente il presupposto di tutto questo è l’unificazione della fabbrica delle notizie dell’azienda Rai e quindi di un’architettura aziendale completamente diversa che privilegi lo stile, l’identità diversa del servizio pubblico piuttosto che una competizione interna tra singole testate.

Intavolare una discussione sul Servizio Pubblico – a partire dall’esigenza di formare la formazione – che non metta al centro esclusivamente la governance, sarà certamente il prossimo obiettivo dell’Aiart, considerato da Mezza un’operazione interessante a condizione che la premessa principale sarà quella capire: “Chi sono le forze e gli stakeholder che si potranno sedere a quel tavolo Il Servizio pubblico a chi deve servire? Ai territori; al sistema delle autonomie locali; al sistema della formazione scuola e università; alle eccellenze italiane nel mondo; al processo di evoluzione culturale, valoriale di una società come la nostra, sempre più globalizzata e dove la contaminazione sociale, culturale ed etnica è sempre più vasta. Deve servire a ridurre il deficit demografico. Dopodiché i contenuti saranno una semplice conseguenza”.   

Partiremo quindi da presupposti nuovi, legati ad un Paese che continua a non avere voce e che ha richieste differenti rispetto al passato. Prendendo in parola Einstein, quando diceva che nessuna soluzione può venire da vecchie pratiche. 

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