L’epidemia di Coronavirus ha imposto in moltissimi Paesi di tutto il mondo una lunga quarantena, con rigide regole di comportamento, dal distanziamento sociale all’uso di dispositivi di protezione personale (le ormai celebri mascherine), fino alla chiusura di esercizi commerciali ed attività economiche di varia natura.
L’imperativa è stato, è ancora e probabilmente sarà per altre settimane: “restate a casa”. Tranne chi autorizzato dalla legge, tutti gli altri devono rispettare il lockdown.
La memoria di Google
In molti, tra Governi e organizzazioni sovranazionali, come l’Oms, si sono chiesti però se davvero le persone siano rimaste a casa o meno in questo periodo. Google, ad esempio, ha raccolto molte informazioni a riguardo e ha fornito delle risposte, seppur parziali al momento, sul livello di mobilità delle persone durante il lockdown, in tutto il mondo, Italia compresa.
Secondo quanto scoperto dai ricercatori di Mountain View, la gente è rimasta a casa o nelle sue vicinanze. Per ottenere i dati relativi agli spostamenti delle persone, Google ha semplicemente sfruttato la geolocalizzazione dei device degli utenti, attraverso lo strumento “Manage your Location History”.
Al momento di attivare il proprio account Google, le persone hanno accettato i termini e le condizioni di utilizzo, cioè hanno acconsentito (in teoria in maniera informata) che l’azienda conoscesse e soprattutto memorizzasse i dati di localizzazione dell’utente e del suo device.
Come spiega bene Google nella pagina dedicata: “Quando la Cronologia delle posizioni è attiva, la voce “Spostamenti” include i luoghi in cui ti rechi e le tue modalità di spostamento, ad esempio a piedi, in bicicletta, in auto o con i mezzi pubblici”.
Considerando che stiamo parlando di miliardi di persone/utenti, basterebbe anche una minima parte di questi che abbia acconsentito alla geolocalizzazione per ricavare una montagna di dati relativi agli spostamenti.
I dati di localizzazione sono stati suddivisi dagli analisti della società in sei aree: vendita al dettaglio e attività ricreative, come supermercati, centri commerciali, ristoranti, e musei; alimentari e farmacie, tra cui mercati dell’agroalimentare e tutte le attività autorizzate a vendere medicinali e accessori medici; aree verdi e parchi; stazioni dei treni, delle metropolitane, aeroporti e porti; luoghi di lavoro; residenze, tra cui la propria abitazione o il domicilio.
E la privacy?
Google ha assicurato che si tratta di dati aggregati a assolutamente anonimi. Se prendiamo posto al tavolo di un ristorante, a nessuno interessa chi siamo, con chi siamo e cosa abbiamo mangiato. Almeno è quello che dichiarano dall’azienda.
La funzione “Cronologia delle posizioni” è disattivata per default sugli apparecchi.
C’è però da sapere alcune cose, che la stessa Google non nasconde:
- le impostazioni per gli altri servizi di geolocalizzazione sul tuo dispositivo, come le funzioni Servizi di geolocalizzazione e Trova il mio dispositivo di Google restano inalterate;
- alcuni dati sulla posizione potrebbero continuare a essere salvati in altre impostazioni, come Attività web e app, nell’ambito della tua attività in altri servizi, come Ricerca e Maps, anche dopo aver disattivato Cronologia delle posizioni.
Siamo ancora padroni dei nostri dati?
Già un paio di anni fa, diverse organizzazioni dei consumatori in Europa hanno chiamato in causa Google e il suo popolare motore di ricerca per violazione del regolamento GDPR sul trattamento dei dati personali. L’accusa riguarda proprio la cronologia delle posizioni.
Secondo il BEUC, un network europeo a cui fanno riferimento diverse associazioni di consumatori, questo tracciamento dei nostri spostamenti avviene “tenendo all’oscuro gli utenti che attivano servizi e funzioni senza conoscere “in maniera informata e consapevole” che cosa accade ai loro dati personali, che spesso sono utilizzati per una miriade di scopi dal motore di ricerca, compreso il mercato della pubblicità mirata/personalizzata”.
A febbraio di quest’anno, il problema sulla violazione della privacy si ripete ancora, sempre in Europa, stavolta in Irlanda. Al centro delle proteste, si legge in una nota ufficiale, c’è il servizio di geolocalizzazione, il giudizio di legalità sul modo in cui Google procede al trattamento dei dati relativi alla posizione delle persone e la trasparenza del meccanismo di raccolta dati.
Più di un terzo degli italiani al lavoro
Gli ultimi dati pubblicati da Google sono relativi al 29 marzo e per l’Italia l’unica area che ha segnato un aumento sensibile di rilevazioni è proprio quella residenziale, la propria casa: è qui che ci si geolocalizza con più facilità e con maggiore frequenza.
Dai risultati emerge che gli italiani sono rimasti a casa o nel proprio domicilio, comunque nelle immediate vicinanze dell’abitazione, con una crescita della geolocalizzazione domestica del +24% rispetto al mese di febbraio.
Secondo l’analisi dei dati fornita da Google, le localizzazioni delle persone in ristoranti, cinema, musei e librerie sono colate a picco, con un -94%, mentre in negozi di alimentari e mercati dell’agroalimentare sono diminuite del -85%.
Crollato anche il dato della nostra presenza in parchi nazionali, aree protette e grandi giardini pubblici, li abbiamo abbandonati quasi del tutto: -90%.
Dato simile per tutto il mondo dei trasporti, che hanno registrato un -87% di geolocalizzazioni.
Sicuramente meno negativo il risultato relativo ai luoghi di lavoro, che si è certamente fortemente ridotto, a seguito dei decreti della Presidenza del Consiglio dei ministri, ma non in maniera drastica, registrando a fine marzo un -63% di geolocalizzazioni.
Dati regione per regione
A livello regionale, secondo i dati riportati da Google, i cittadini della Val d’Aosta sembrano i più ligi al dovere, con una localizzazione domestica cresciuta al +36% in tempo di #restateacasa. Al secondo posto il Molise, con un +29%.
Poi ci sono le Marche, con un +26% di cittadini in casa, quindi la Puglia e il Veneto con un +25%, a cui segue la Lombardia con un +24%. Il dato più basso è stato registrato in Basilicata e Calabria, con un +22%&.