Meno di 900 mila euro. Tanto avrebbe speso Apple in campagne di lobby nella Ue nel 2015, almeno stando alle cifre indicate dal Wall Street Journal. Una ‘miseria’ se paragonati ai 4,25-4,50 milioni di euro spesi lo scorso anno da Google, che a Bruxelles impiega più di 10 lobbisti a tempo pieno, contro le 5 persone part-time alle dipendenze di Apple. Quest’ultima è stata condannata dall’Antitrust europeo a restituire 13 miliardi di euro di tasse non pagate per il periodo dal 2003 al 2014.
Colpa della cifra irrisoria spesa in attività di pressione?
Questa è l’ipotesi del quotidiano, che sottolinea come l’assenza di Apple in quella che è considerata de facto la capitale europea sia in aperto contrasto con la politica di molte delle maggiori tech company americane, che hanno “costruito una presenza di lobbying in Europa per cercare di influenzare indagini e potenziale legislazione, come ad esempio le norme sul diritto d’autore e sui servizi di comunicazione web-based”.
Per evitare interventi come quello toccato ad Apple, che negli ultimi due anni sarebbe stata incapace di avere informazioni sulle tesi su cui la Ue stava basando il suo intervento, altri gruppi Usa come Amazon e Qualcomm tengono invece la guardia ben alzata e stanno facendo pressioni per convincere “l’antitrust europeo che il loro regime fiscale o le politiche tariffarie non violano le regole comunitarie”.
E così dopo Google e Microsoft, che guidano la classifica della spesa per attività di lobby nel 2015, a quota 4,25-4,50 milioni di euro ciascuna, nella Top 6 stilata dal WSJ compaiono Amazon, al terzo posto, con una spesa di 1,50-1,75 milioni di euro; Apple con 8-900 mila euro; Facebook con 7-800 mila euro e, infine, Qualcomm con 4-500 mila euro.
Stando ai dati di Transparency International, l’Europa ha superato gli Stati Uniti per il numero di gruppi di pressione registrati, con un totale di 9.756 organizzazioni, contro 9.726 registrati negli Usa e pronti a fare pressione sulle istituzioni.
Secondo pareri riportati dal WSJ, la Commissione europea è la “maggiore minaccia per le grandi aziende che potrebbero incorrere in questioni antitrust”. A onor del vero, tuttavia, il WSJ sottolinea che è compito molto arduo tentare di influenzare la DG Comp, che fa capo all’intransigente Margrethe Vestager. Il margine di manovra è estremamente limitato e il regolatore “non può allontanarsi troppo dalla precedente giurisprudenza se vuole che il suo verdetto non sia ribaltato in appello”.
La lo stesso le web company non demordono dalla loro mission di ‘educare’ i legislatori europei riguardo il loro ‘funzionamento’, come avrebbe detto di recente un top manager di Google che dallo scorso anno sta conducendo una campagna di ‘soft lobbying‘ da 450 milioni di dollari per togliersi di dosso un po’ di quelle ombre che i diversi dossier aperti dall’Antitrust europeo hanno proiettato sulla sua immagine.
Questo anche per sopperire alla mancanza di una loro rappresentanza diretta in seno alle istituzioni europee, come ce l’hanno ad esempio le aziende italiane o francesi che possono fare pressione direttamente attraverso il loro governo, i loro rappresentanti al Parlamento o i loro Commissari.