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Lo streaming tv e la lotta per il media franchise

Media franchise è un termine per lo più intraducibile, che si riferisce allo sfruttamento di un marchio nell’industria dell’intrattenimento. L’obiettivo è massimizzare la presenza (e i relativi profitti) anche in contesti diversi da quelli del prodotto originale, dal merchandising con gadget di vario genere agli spinoff di una serie, di un libro, di un film. Due tra gli esempi più chiari di franchise moderni sono Star Wars e il MCU, il Marvel Cinematic Universe: e se il caso di Guerre stellari, con quarantacinque anni alle spalle, dimostra che i media franchise sono tutt’altro che una novità, è indubbio che la tv streaming ha dato nuova linfa al fenomeno dal punto di vista del prodotto primario, ovvero il contenuto audiovisivo. Prima c’erano soltanto i film, costosissimi e che richiedevano anni: dopo la trilogia originale, tra il 1977 e il 1983, ci sono voluti più di vent’anni per i prequel (1999-2005) e un po’ meno per gli ulteriori seguiti (2015-2019). Poi le cose sono cambiate.

Lo sviluppo legato alle piattaforme on demand

Alla “trilogia delle trilogie”, nota anche come «Skywalker saga», si sono infatti aggiunti negli anni altri titoli a sé, dai cartoni animati (come The clone wars e Star wars: Rebels) ai film autoconclusivi, come Rogue One del 2016 e Solo del 2018. Ma è quando è arrivata la piattaforma Disney+ (Disney acquistò i diritti di Star Wars da George Lucas nel 2012) che la crescita è aumentata a dismisura. Dal 2019 sono state prodotte due stagioni di The Mandalorian con Pedro Pascal, salutate da un grande successo (ne sono già previste altre due), poi The Book of Boba Feet nel 2021, Obi-Wan Kenobi (col ritorno del “giovane” Kenobi, Ewan McGregor) nel 2022, Andor nello stesso anno (debutterà a fine agosto); nel 2023 sono già previste Ahsoka, su uno dei personaggi più amati delle serie animate, interpretata da un’altra stella di prima grandezza come Rosario Dawson, e Skeleton Crew con Jude Law. E un discorso analogo si potrebbe fare per l’universo Marvel, che sempre su Disney+ ha visto aumentare a dismisura i suoi già frequentissimi titoli cinematografici, aiutati dal fatto che – a differenza di Star Wars – il modus operandi vede la creazione di mini-saghe incentrate sui singoli supereroi, dall’Uomo Ragno a Thor, da Iron Man e Capitan America: dopo sei serie su Netflix, sulla piattaforma-madre ne sono state prodotte ben sette nel giro di appena due anni.

Streaming: e chi non ha un suo media franchise?

Insomma, per i media franchise la presenza di piattaforme di tv streaming con bassi costi di abbonamento mensile (per conoscerli basta confrontare le varie offerte disponibili su SOSTariffe.it) sono state una manna: possibilità di portare avanti progetti paralleli, di modulare il budget a seconda del successo di una serie (con la decisione di ulteriori stagioni solo dopo aver verificato l’apprezzamento della prima) e soprattutto la sempre crescente platea di spettatori che rimane più volentieri sul divano invece di andare al cinema, tutto ha contribuito a rendere sempre più solido questo modello. E chi non ha ancora un franchise riconoscibile, sta facendo di tutto per crearlo. Netflix, che si è vista sfuggire la possibilità di essere l’approdo on-demand delle serie Marvel, sta ad esempio lavorando su Stranger Things con futuri possibili spinoff, ha strizzato l’occhio agli appassionati di giochi di ruolo per PC con The Witcher e ha appena distribuito il suo thriller d’azione, The Grey Man con Ryan Gosling; quest’ultimo si distingue da prodotti simili proprio perché è la trasposizione cinematografica del primo di una serie di nove libri, quindi con ampio spazio per un’approfondita esplorazione futura di quest’universo condiviso. Amazon intende fare lo stesso con Gli Anelli del Potere, la serie più costosa di sempre pronta a debuttare a settembre, che secondo molti puristi “tradisce” il mondo di Tolkien per una sua rivisitazione più vicina alle sensibilità contemporanee; ma è una strategia più che sensata, se pensata nell’ottica di creare un franchise dalle potenzialità colossali, poiché basato su una delle saghe più amate al mondo. L’esempio di HBO con Game of Thrones, già oggetto di diversi spinoff, sta lì a dimostrarlo.

Disney, progetti chiari fin dall’inizio

Una recente serie di studi di Parrot Analytics ha come oggetto proprio il ruolo crescente dei franchise nell’offerta delle piattaforme di streaming. Qui Disney+ è davanti a tutti, e col senno di poi i dubbi sull’ingresso in un mercato già percepito come saturo da parte del colosso dell’intrattenimento sembrano lontanissimi: il 50% della domanda totale per i suoi show deriva dai franchise, di cui il 28% per prodotti originali ed esclusivi e il 21,9% per quelli non esclusivi; il contrario di Netflix, che all’interno del 40% dedicato ai franchise vede la domanda per quelli non originali ammontare a più del doppio di quella per esclusive come Stranger Things. Per molti analisti, dietro queste cifre c’è molto del successo di Disney+ e del momento di relativa difficoltà di Netflix, visto che Disney ha avuto da subito le idee molto chiare sui contenuti intorno ai quali sviluppare la sua piattaforma, puntando sui suoi punti forti (per capirci, vista la proprietà anche dei prodotti Fox tra i franchise non esclusivi Disney+ può contare anche i Simpson). Netflix, che è la veterana nel mondo dello streaming, non ha la stessa esperienza nel creare universi condivisi dove ambientare non solo una serie in modo estemporaneo, ma molte di più. Ed è per questo che, insieme al resto della concorrenza, sta cercando di rimediare il prima possibile.

Tra tentativi falliti e potenzialità ancora da sfruttare

Secondo gli studi di Parrot Analytics, Netflix non ha praticamente alternative al costruire un mondo più ampio intorno a Stranger Things e all’universo della città di Hawkins: il crollo della richiesta di contenuti originali sulla piattaforma è stato compensato solo dalla quarta stagione della serie, che ha fatto registrare una domanda duecentotrenta volte superiore a quella dello show medio nei giorni successivi al suo debutto, lo scorso 27 maggio. Se non ci fosse Stranger Things, la quota di domanda per contenuti originali di Netflix sarebbe più bassa di 2,1 punti percentuali. Altri tentativi non sono andati granché bene: il remake coreano della Casa di carta, tentativo di espansione non tanto di un universo, ma di riproposizione di un prodotto simile in contesti più familiari a livello internazionale, è stato un fallimento, parzialmente risollevato dal successo di prodotti originali coreani come Squid Game. Ma c’è anche un altro lato della medaglia: puntare troppo sui franchise significa tarparsi le ali da soli per quanto riguarda la conquista di nuove tipologie di spettatori. Chi non è appassionato a Guerre stellari non comincerà a guardare The Mandalorian, chi non ne può più di supereroi in calzamaglia alzerà gli occhi al cielo all’annuncio dell’ennesima nuova serie su un timido impiegato morso da qualche animale esotico. Ci vuole il giusto mix, e i protagonisti dello streaming stanno spendendo milioni di dollari per trovarlo.

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