L’intervento di Agostino Ghiglia, Componente del Garante per la protezione dei dati personali, al convegno ‘Il Metaverso tra utopie e distopie’ in occasione della 17ma Giornata europea della protezione dei dati personali.
Parlare, oggi, di metaverso è un po’ come discutere di internet negli anni settanta. Non tutte le previsioni di cosa sarebbe stato si sono rivelate vere. Eppure internet ha determinato una serie di innovazioni tecnologiche rivoluzionarie, quali la capacità di consentire ai computer di comunicare tra loro su grandi distanze o quella di collegarsi da una pagina web all’altra.
Innovazioni che, successivamente, sono state gli elementi costitutivi per realizzare le “strutture astratte” attraverso le quali navighiamo in rete: siti Web, app, social network.
Cos’è dunque il metaverso o, meglio, cosa sono i oggi i metaversi? Quali sviluppi possiamo attenderci? La risposta più adeguata è che i metaversi, oggi, non esistono e non so se esisteranno. Rappresentano una suggestione, un’applicazione della realtà aumentata immersiva, una suadente idea commerciale distante anni luce, nel suo appealing positivo, dal mondo distopico e surrealmente mercantilistico creato da Stephenson in “Snow Crash”.
Taluni potrebbero obiettare: ”ma come? Non esistono già?” citando, quali esempi, World of Warcraft, un mondo virtuale persistente in cui i giocatori possono acquistare e vendere beni; Fortnite che offre esperienze virtuali come concerti e mostre.
Si potrebbe, ancora, controbattere che esistono 141 mondi virtuali esistenti, di cui 62 già liberamente accessibili, persistenti (ossia che esistono in maniera indipendente dalla presenza o meno di un soggetto) economicamente attivi, dotati di grafica 3D e interoperabili. È davvero tutto questo il significato di metaverso? Si tratta di una nuova tipologia di videogiochi arricchita di un visore e di due joy stick avanzati? O della possibilità di scambiare NFT o acquistare beni mobili o immobili virtuali?
I metaversi, a mio avviso, sono, attualmente, una visione di come potrebbe essere il futuro nel quale la nostra vita personale e commerciale verrebbe condotta digitalmente, in parallelo (o sostitutivamente) con le nostre vite nel mondo fisico. A fronte di tale premessa, è lecito chiedersi se i colossi del Big Tech ci stiano, di fatto, accompagnando – o spingendo – verso la profezia zuckerberghiana di un nuovo “sistema operativo” che voglia porsi alla base delle nostre esistenze; ovvero verso l’unica realtà ammessa: quella virtuale.
Chissà poi se, allontanandoci dalla nostra residenza sulla Terra, codesta “non realtà” riveli anche una realtà virtuale eterna (in Snow Crash gli avatar demoni trascinavano in gallerie sotterranee gli avatar deceduti.) Di fronte a questo scenario di potenziale, e da taluni commercialmente agognata, “progressiva dismissione” della dimensione umana -dove la digitalizzazione derealizza e disincarna il mondo – credo sia urgente maturare uno sguardo maggiormente critico rispetto a elogi neo dogmatici e troppo semplicistici dei Metaversi; elogi che offuscano il potenziale rischio di questa distopia del post-umano: vale a dire il buco nero dell’online che ingloba la realtà offline, la vita in quanto tale.
Come conseguenza di questa migrazione della mente verso il regno virtuale, il mondo reale diventa più inconsistente. Le informazioni fanno sbiadire i contorni stabili degli oggetti e, con la loro fuggevolezza, ci lasciano senza l’appiglio del contatto tangibile con la realtà. Già ai giorni nostri la progressiva immersione nella realtà virtuale (che precede di quasi vent’anni l’idea del metaverso) rischia di farci diventare ciechi di fronte alle cose silenziose, poco appariscenti, a quelle per così dire eccessivamente ordinarie e abituali ancorché vivide e reali.
Non dobbiamo, ovviamente, pensare a noi in questa sala ma ai giovanissimi che trascorrono, attraverso i loro apparecchi sempre più smart, 1/3 della loro vita nella virtualità e distanza di app e piattaforme, di social, di giochi, di challenge… Le cose reali correranno il rischio di rimanere sullo sfondo della nostra attenzione ma sono le stesse cose reali che ancora ci consentono di ancorarci all’Essere. Come ci ricorda, infatti, il filosofo tedesco Heidegger, siamo alienati dal cosmo perché “abbiamo dimenticato l’Essere”.
Consumiamo e produciamo più informazioni che cose. Come cacciatori di informazioni, abbiamo più fame di dati che di oggetti. La realtà viene derubata della sua presenza perché l’informazione stessa dissolve la realtà. L’aumento virtuale dell’esperienza potrebbe dunque causare il definitivo degrado della Realtà o, peggio, dell’Umanità? Una domanda volutamente parossistica ma la tecnologia non può essere una via di fuga dalla nostra esistenza e dalle sue emozioni e sentimenti, positivi o negativi che siano.
Possiamo, quindi, davvero affermare che questa meta-rivoluzione sia una svolta progressista? O potrebbe essere, invece, la transizione totale in un mondo orwelliano molto più evoluto? Questi strumenti, queste applicazioni, salvano o distruggono, ci avvicinano o ci allontanano in quanto esseri sociali? Ci ancorano alla realtà o ci allontanano da essa? Qual è il punto di equilibrio tra un progresso che può migliorare alcuni aspetti delle nostre vite e una conservazione che può preservare la nostra umanità?
Di fronte a questi numerosi interrogativi e alle allettanti promesse romanzate del meta-uomo, ritengo che abbiamo il dovere – per quanto possa sembrare contraddittorio-di mantenere il digitale radicato nella dimensione terrestre, ideale, etica, culturale del tangibile. L’accelerazione digitale, nel virtuale, rischia di condurci verso una progressiva dimensione di disabilitazione corporea, di analfabetismo funzionale portato all’estremo.
D’altra parte quanti di noi, sotto i 40 , riescono ancora a scrivere con una grafia che consentirebbe una sufficienza alle scuole elementari? Come il caos informativo ha gettato nell’inquietudine il nostro sistema cognitivo (siamo sempre più bersaglio di informazioni che non siamo in grado di discernere, selezionare) così la virtualità aumentata potrebbe rendere monco parte del nostro sistema sensoriale ed esistenziale. Per quanto la tecnologia sia (stata) benefica, nelle sue innumerevoli applicazioni, per il progresso umano e il miglioramento delle nostre vite, non dobbiamo mai dimenticare che al centro c’è e dovrà sempre esserci l’essere umano.
Banale ma non scontato se si sottolinea il concetto di essere umano senza sostituirlo con quello di utente, consumatore, utilizzatore. Se condividiamo la premessa la tecnologia è, quindi, uno strumento della nostra stessa creazione, l’estensione protesica dello stato dell’anima umana nella matrice dell’esistenza. Eppure, pare che l’essere umano, a causa di un’imperante immersione tecnologico-virtuale, rischi di smarrire il proprio potere di agire, la propria autonomia decisionale, il proprio libero arbitrio nel confronto con un nuovo mondo sempre più complesso in cui, ora dopo ora, si amplia lo iato tra realtà e verità.
Per tornare ai metaversi, chi sta decidendo, ad esempio, di condurci, per mano e con il nostro consenso, all’interno di essi? E in che modo? Sicuramente attraverso l’influenza culturale, l’informazione mirata, la curiosità della novità di cui tutti parlano in maniera inversamente proporzionale alla conoscenza della stessa: catturando l’immaginazione si prepara il terreno -modificando percezioni e valori -al nuovo modello vitale e giuridico che si vuole “suggerire”.
Fin dalla notte dei tempi sono stati molto rari i casi in cui il diritto ha regolato in anticipo specifici comportamenti umani non ancora verificatisi ma solo percepibili all’orizzonte. Di regola, la produzione normativa è l’effetto conseguente ad una causa scatenante costituita dall’emergere di condotte nuove che risulta necessario disciplinare in senso positivo o negativo.
In questo scenario, invece, il diritto – a prescindere dai metaversi ma semplicemente per l’incedere ipersonico dell’era digitale-dovrebbe, dovrebbe impegnarsi per stare al passo con essa e l’etica dovrebbe invece arrivare prima della regolazione giuridica. L’etica, infatti, deve essere in grado di leggere i terreni antropologici fondamentali, ovvero quello che riguardano i tratti comuni delle società, tanto da esserne ineludibili: educazione, lavoro, cura, ecc. Temi dove accelerazione tecnologica ed incidente potenziale si rincorrono continuamente e ossessivamente.
Per non parlare della necessità, da parte dell’etica, di comprendere le mutazioni sociali educando a non ragionare per idealtipi stereotipati o indotti per fini commerciali. Nell’era digitale, insomma, la tecnologia deve continuare il suo processo di incessante sviluppo e miglioramento con i tempi che le sono propri mentre il diritto deve fare in modo di “ridurre le distanze” tra il momento in cui emerge la necessità di dare specifica regolamentazione ai fenomeni nuovi (cui non è possibile applicare analogicamente vecchi precetti normativi) e quello in cui il legislatore provvede davvero.
Tutto ciò per non consentire ai grandi player del mercato tecnologico di autostabilire, tra inerzie, indifferenze e ritardi dei legislatori, i termini per i propri interessi commerciali, creando un nuovo diritto e un nuovo sistema di vita a loro uso e consumo. Le emergenti potenzialità dei metaversi sono prevalentemente possedute e sviluppate dai loro creatori. Tali aziende cercano di fabbricare la percezione che il metaverso e le sue innumerevoli gemmazioni debbano essere un mondo nuovo e futuristico e, soprattutto, che ce ne sia bisogno.
Ma le storie del metaverso saranno reali? Saranno le nostre. Oppure sarà solo un gioco? Avviandomi a concludere , l’evoluzione del “nuovo universo parallelo” e dei suoi potenziali rischi e interessi , deve trovare un argine in un’approfondita e costante interazione interdisciplinare che non può limitarsi al solo settore del diritto ma deve comportarne l’interazione con quelli dell’etica , della filosofia e della scienza.
Si potranno, conseguentemente, maturare serie riflessioni su quanto di “virtuale” possono permettersi gli individui (non i colossi tecnologici) per poter avanzare e prosperare; per favorire lo sviluppo della società della partecipazione, sfruttando al meglio l’innovazione e il progresso tecnologico e i conseguenti effetti economici e sociali. L’idea che sia possibile un metaverso aperto, progettato by design per il rispetto dei principi di sicurezza, trasparenza, minimizzazione e legittimità dei trattamenti dei dati, a presidio della tutela dei diritti digitali e dei valori fondamentali di dignità, autonomia e libertà, non sembra facilmente conciliabile, al momento, con i piani dell’industria tecnologica, impegnata in investimenti massicci e business plan sofisticati per accaparrarsi la governance del mondo virtuale; piani ed investimenti potenzialmente forieri di asimmetrie di potere, vulnerabilità tecnologiche, costi di esclusione e discriminazioni abusive.
Tornando al tema principe di questa giornata europea sulla protezione dei dati personali, ritengo che le tecnologie per loro stessa natura siano neutre e non siano realmente distopiche o utopiche. Lo potrebbero essere, però, le persone, le aziende, gli interessi incalcolabili ad esse sottesi. Affinché il metaverso, dunque, se ci sarà, non sia controllato e condotto solo dagli interessi di enormi imprese commerciali, dobbiamo progettarlo per gli esseri umani, non per gli utenti.
Le maggiori aziende tecnologiche stanno investendo enormi somme di denaro nella creazione di ultraversi la cui caratteristica principale sarà la fusione tra il mondo virtuale e quello fisico. Permettere questa possibilità è una delle conseguenze meno ovvie e indolori: i metaversi – nelle loro molteplici estrinsecazioni-mirano infatti a funzionare come le nostre menti e non solo tramite esse. Tale capacità rende il metaverso stesso una tecnologia incomparabilmente diversa rispetto a quelle che l’hanno preceduta.
Se la televisione e i social media sono tecnologie persuasive, per la loro capacità di influenzare gli atteggiamenti e i comportamenti delle persone, il metaverso è invece una tecnologia trasformativa, capace di modificare ciò che le persone pensano che sia la realtà. Per raggiungere tale obiettivo le tecnologie del metaverso hackerano diversi meccanismi cognitivi chiave: l’esperienza di essere in un luogo e in un corpo, i processi di sintonizzazione e sincronia cervello-cervello e la capacità di sperimentare e indurre emozioni.
Chiaramente, queste possibilità definiscono scenari totalmente nuovi con esiti positivi così come negativi. Educare noi stessi sulle sfide che l’evocato “nuovo mondo” potrebbe presentare è una necessità. Ciò richiede un approccio “umano”, integrato e multidisciplinare con tutti i soggetti interessati, a cominciare dagli Stati, a livello sovranazionale. Il metaverso che, trent’anni fa, lo scrittore di fantascienza Neal Stephenson ha raffigurato in “Snow Crash” era una via di fuga in un mondo virtuale alternativo dal paesaggio infernale della Los Angeles del 21 ° secolo.
Il personaggio principale del romanzo, Hiro Protagonist, viveva in un container, lavorava come autista di pizze e come agente di una sorta di CIA post moderna e combatteva (anche con la sua katana reale) in un brutale mondo anarco-capitalista, sfigurato da monopolisti minacciosi, in balia di un irreversibile collasso economico e degrado ambientale. Ma quella è solo fantascienza… Dobbiamo, dunque, lavorare sin da ora, per assicurarci che la fantascienza rimanga tale e utilizzare la tecnologia per migliorare la “realtà” e non solo e necessariamente per “aumentarla” modificandola, continuando a favorire una connessione REALE con le persone e il mondo che ci circonda.
Questo è ciò per cui noi umani siamo nati, il risultato di due milioni di anni di evoluzione. Alcuni potrebbero obiettare che, allora, dovremmo temere e frenare lo sviluppo tecnologico e tornare a uno stile di vita più semplice. Ma il passatismo e la paura dell’evoluzione, del futuro, del progresso, non possono essere la risposta in una sorta platonico “mito della caverna” all’incontrario. La tecnologia deve essere utilizzata per ottimizzare le esperienze umane, per farci vivere meglio la vita fisica, non per sostituirla…