“Potrei essere licenziato anche io, perché sono su Facebook durante l’orario di lavoro?”
“Perché non ha prevalso il diritto alla privacy?”
Sono queste le domande principali che in molti si pongono dopo la sentenza della Cassazione che ha confermato in via definitiva il licenziamento disciplinare di una donna, segretaria part time in uno studio medico, perché, durante l’orario di lavoro, nell’arco di 18 mesi, aveva effettuato dal Pc dell’ufficio circa 6mila accessi su Internet, di cui 4.500 su Facebook.
Abbiamo intervistato Daniela Fargnoli, avvocato lavorista, e Luca Bolognini, presidente dell’Istituto Italiano per la Privacy e la Valorizzazione dei Dati (IIP), per cercare le risposte ai due quesiti.
Key4biz. Questa sentenza può fare giurisprudenza o è da considerarsi legata al caso specifico?
Daniela Fargnoli. Ogni sentenza è strettamente collegata all’antefatto processuale che va ad esaminare. È di certo un precedente interessante in tema di utilizzo ed accesso, da parte del lavoratore, a siti internet estranei all’ambito lavorativo ed allo svolgimento della prestazione; anche e soprattutto quando ciò accada in maniera tale da configurare un fenomeno di dimensioni piuttosto rilevanti nel corso dell’orario di lavoro.
Key4biz. Per quale motivo è scattato il licenziamento?
Daniela Fargnoli. Per motivi disciplinari. Parliamo, secondo quanto riferito in sentenza, di circa 6.000 accessi nell’arco di 18 mesi, dei quali 4.500 circa su Facebook, “per durate di tempo talora significative” e, quindi, di un fenomeno di dimensioni tali da connotare un comportamento in contrasto con l’etica comune e, in ogni caso, tale da incrinare la fiducia datoriale.
Key4biz. Perché il diritto alla tutela dei dati personali non ha prevalso?
Daniela Fargnoli. La lavoratrice, come si legge in sentenza, avrebbe sostenuto l’impossibilità di fondare la decisione sui report di cronologia del Pc per due ordini di motivi: da un lato, per l’insufficienza di tale riscontro al fine di dimostrare la genuinità e riferibilità degli accessi; dall’altro, per “violazione delle regole sulla tutela della privacy”.
In realtà, sotto questo aspetto è venuto in rilievo un profilo di natura processuale.
Nel caso, infatti, la questione relativa alla violazione della privacy, secondo quanto rilevato dalla Corte, non sembrerebbe essere stata sollevata nei precedenti gradi del giudizio; né sarebbe stata allegata ed indicata dalla difesa della lavoratrice la sua avvenuta deduzione dinanzi al giudice di merito. Pertanto, la questione è stata considerata nuova e, quindi, inammissibile in Cassazione.
Key4biz. Bolognini, rivolgo anche a lei la stessa domanda: Perché non ha prevalso il diritto alla privacy?
Luca Bolognini. Questa sentenza di Cassazione è una sentenza giuslavoristica, non una sentenza privacy. L’utilizzabilità dei dati personali nel giudizio civile, come quello del lavoro, è possibile anche se i dati sono stati raccolti violando regole privacy: infatti è il giudice che valuta liberamente le prove, per il combinato disposto tra art. 160-bis del Codice Privacy e art. 116 cpc. Quindi si può vincere una causa anche violando l’altrui privacy, se le prove così ottenute sono schiaccianti. Però si rischiano, in parallelo, pesanti sanzioni per la violazione, sia in termini lavoristici (artt. 4 e 38 dello Statuto dei Lavoratori) sia in materia di protezione dei dati personali (artt. 166 e 171 Codice privacy). Ciò detto, non sappiamo se il datore di lavoro, nel caso di cui alla sentenza di Cassazione in questione, abbia fatto le cose bene o meno, non risulta dalla sentenza: a certe condizioni, il datore di lavoro può infatti ben stabilire divieti di utilizzo degli strumenti informatici per fini extra-lavorativi e anche procedere a controlli.
Key4biz. Dunque chi si trova in un caso simile, oggetto della sentenza, può invocare il diritto alla privacy ed evitare il licenziamento?
Luca Bolognini. Il diritto alla privacy e alla protezione dei dati del lavoratore ben difficilmente eviterà un licenziamento, in presenza di una “pistola fumante” che dimostri che il lavoratore non lavora e perde tempo a far altro. Ma è vero che, in alcuni casi, un datore di lavoro che abbia in mano solo prove prodotte in violazione della disciplina rilevante in materia privacy potrebbe demordere, per evitare un separato procedimento sanzionatorio per illecito trattamento dei dati personali: sarebbe un risiko tra dipendenti inadempienti e datori inadempienti, insomma.
Meglio rispettare le regole, da una parte e dall’altra.