L’Avv. Daniele Minotti commenta per la Rubrica Digital & Law i recenti fatti di Capitol Hill, o meglio, l’impatto a breve termine sui social media, ossia la censura legata agli account del Tycoon e in particolare la sospensione della piattaforma Parler, utilizzata dagli stessi sostenitori di Trump per organizzare l’assalto.
L’Avv. Minotti è tra gli oltre 150 relatori schierati per la XIII edizione del DIG.eat 2021, l’evento annuale di ANORC, in programma dal 18 gennaio al 12 febbraio su piattaforma dedicata.
La prima edizione digitale del DIG.eat, si preannuncia molto di più della semplice replica di un evento fisico: dal prossimo lunedì avrà inizio il primo racconto digitale diffuso in streaming. Con un palinsesto di più di 100 ‘eventi’ di diversa tipologia, tra web conference, talk, webinar e podcast, ciascuno dedicato a una tematica specifica, il DIG.eat cercherà di interpretare e sostenere il confronto critico e costruttivo sul percorso di digitalizzazione e privacy del Paese, con uno sguardo a quello che accade anche oltre i confini nazionali.
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E se capitasse a noi? Penso sia questa la domanda giusta da farci. Se il nostro account venisse bannato da una società privata che ha quasi il monopolio della comunicazione social? Perché è di questo che parliamo.
Piaccia o no, ci siamo infilati in una “democrazia” del tutto particolare, dove il microfono viene spento non da un organo democraticamente eletto o nominato, ma da chi ha assunto, pur abilmente, una posizione commerciale dominante e parecchio cogente.
Tutti noi, oramai, abbiamo un profilo su uno o più social. Lo usiamo per tanti scopi, seri o leggeri, comunque per comunicare perché ci è stato sostanzialmente promesso che con quei mezzi possiamo dire la nostra, in democrazia e libertà. Ma i fatti degli ultimi giorni ci fanno dubitare che sia veramente così, sorge il sospetto che il richiamo alla libertà di espressione sia soltanto un claim commerciale, peraltro truffaldino.
I social vivono di “noi” (nulla di filantropico)
I social network non sono il megafono della democrazia: ci sono società commerciali che lucrano su tutto quello che ci buttiamo dentro. Vivono di noi, nulla di filantropico. Lo dimostrano anche le sanzioni irrogate a quasi tutte le piattaforme che hanno abusato di noi.
Tuttavia, oggi, i social assurgono incredibilmente al ruolo di paladini della democrazia, argine agli abusi di certi potenti più o meno psicopatici. E – come altra faccia della medaglia – megafono per quelli ritenuti “adeguati”: chissà da quale tribunale. Sì, perché il punto è proprio questo: i social non sono tribunali, sono, come già detto, società commerciali che fanno lucro, nutrendosi anche di odio, e, pertanto, organizzano le proprie azioni badando al reddito, non ai diritti umani.
I processi? Si fanno in tribunale
I processi si fanno in tribunale. È un tribunale che deve decidere se una persona compie un abuso, con le conseguenze di legge, anche qualora l’abuso divenisse evidente, macroscopico, foriero di morte. Sono principi già noti, anzi arcinoti. Stanno scritti nella nostra Costituzione (che impone il ruolo della Magistratura) e, per quanto riguarda il Web, nel d.lgs. 70/2003. Norme che nessuna condizione generale di contratto può scavalcare, specie se, appunto, sostanzialmente mediante imposizione di società commerciali private che hanno quasi un monopolio de facto sulla comunicazione.
Se domani cambiasse il consiglio di amministrazione di una di quelle società, cambierebbe il vento politico al suo interno e fossero bannati i vostri account dissenzienti cosa direste?
P.S.: Se siete giunti sin qui è perché, probabilmente, siete curiosi e senza pregiudizi. Trump non c’entra nulla e, comunque, le sue parole per me sono da condannare, hanno “favorito” la morte di cinque persone e il ferimento di altre. Questo non è uno scritto politico, ma sulla Giustizia.
Articolo di Daniele Minotti, Avvocato penalista – componente del D&L Net