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Lettera Anesti. Per tornare a crescere serve un nuovo stile di vita

Eutimio Tiliacos

Prosegue la pubblicazione su Key4Biz della ‘Lettera ANESTI’ di Eutimio Tiliacos, analista internazionale con cui cerchiamo di comprendere meglio le dinamiche che stanno riformulando i ranking internazionali tra economia, finanza, manifatturiero, conoscenze e istituzioni internazionali.

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Un neologismo ha recentemente fatto la sua apparizione nel dizionario inglese: è FRAPE (“to frape”) che sta per la sintesi fra Facebook eRape, ossia violentare la realtà mediante un post fasullo su Facebook farcito di informazioni mendaci su una persona, presentate però come se ad inserirle fosse stato (o stata) colui (o colei) che si intende screditare. Una corte irlandese ha per la prima volta  comminato una sentenza di condanna per fraping.

 

Peccato che le corti di tutto il mondo non abbiano ancora inflitto pene per chi crea falsi post economici. Si fa credere ancora che la soluzione ai problemi della stagnazione risieda in una serie di interventi che tengono immobile il quadro e la struttura tradizionale dei consumi e della offerta: mentre invece non è più così. Non esiste un grande settore al mondo dove su scala planetaria non esista una sovraccapacità produttiva: così per l’acciaio, per le automobili, per la chimica, l’abbigliamento, i materiali da costruzione, persino per l’alimentare stretto nella morsa fra grandi paesi produttori/esportatori e fra le politiche “right-to-food” dei paesi che erogano incentivi ai propri agricoltori per raggiungere l’autosufficienza nella produzione di alcuni beni quali i cereali che costituiscono la base alimentare della popolazione e in particolare degli strati più disagiati di essa.

Negli anni Novanta un gruppo di economisti raccolti attorno alla FAO – l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa a livello mondiale di agricoltura e alimentazione per i paesi in via di sviluppo – mise a punto una teoria che distingueva nettamente fra “eccesso” di capacità produttiva con connotati che ne facevano un fenomeno di breve e medio periodo comunque riassorbibile e “sovraccapacità” produttiva che aveva invece caratteristiche di lungo periodo e strutturali. Riteniamo la fase storica che stiamo vivendo più simile a quella della sovraccapacità produttiva piuttosto che all’eccesso produttivo a carattere temporaneo.  Utilizzati indifferentemente, anche se i contesti erano differenti, i due termini hanno avuto a lungo in passato un significato percepito sostanzialmente come univoco e positivo perché, secondo alcuni, favorivano ambedue il calmiere dei prezzi e erano contenibili agendo con semplici manovre sulla domanda, per riassorbire il divario fra offerta e consumi.

Comincia ora ad insinuarsi il sospetto che non sia più così. Infatti come recita un recente studio del Fondo Monetario dal titolo “Output Gap in Presence of Financial Frictions and Monetary Policy Trade-offs” (IMF wp/14/128) non è più possibile, dopo la crisi di questi anni, dare per scontato che un basso tasso di inflazione comandato da una ampia divergenza fra potenziale produttivo e domanda sia un fattore positivo e stabilizzante l’economia, in quanto è perfettamente plausibile (si è già verificato) che si sviluppi una crisi di proporzioni importanti anche quando il tasso di inflazione è basso come risultato di una offerta che supera ampiamente il potenziale di domanda “A central Bank sets the interest rate to counteract deviation of  in?ation from its  desired outcome and minimize ?uctuations in the output gap.Within this framework ,sustainability is a de?ning feature of the economy’s e?cient frontier. However, considering potential output as a non-in?ationary component of output is too simplistic; the?recent ?nancial?crisis illustrates that ?nancial imbalances can build up in a relatively stable in?ation environment and ultimately lead to disruptions in the real economy”. Non stiamo – come vorrebbe qualcuno- arrivando alla conclusione che sia auspicabile un più alto tasso di inflazione. Al contrario stiamo semplicemente dicendo che è necessario rilanciare l’economia guardando al dato strutturale dell’offerta e della domanda di beni e servizi piuttosto che lasciar lievitare i prezzi nella illusoria speranza che, per magia, l’inflazione faccia scomparire i fenomeni di sovrapproduzione (come ?). L’inflazione non è un tovagliolo magico con cui invece di assorbire l’acqua contenuta in un bicchiere che si è rovesciata sul tavolo si possa prosciugare un lago.  Assistiamo infatti da anni alla persistente caduta generalizzata degli investimenti su scala mondiale. Sarah Gordon sul Financial Times al riguardo scrive “Ogni anno da quando la crisi ha superato il suo picco massimo [nel 2009] ci sono state speranze che ci sarebbe stato un considerevole allentamento dei cordoni della borsa, invece ogni anno i dati sugli investimenti in conto capitale hanno continuato a contrariare, facendo svanire le speranze di una robusta e ben sostenuta ripresa. Ci sono motivi per ritenere per le società europee che alcune delle cause di questo stato di cose sia strutturale ben più che non ciclico” (FT, July 3 2014).

Ma il fenomeno non riguarda esclusivamente le società europee. A livello mondiale Standard & Poor’s stima che gli investimenti -esclusi quelli del settore finanziario- scenderanno dello 0,5% nel 2014 rispetto all’anno 2013, quando erano già discesi dell’1% rispetto al 2012. Stima ancora Standard & Poor’s che le prime 2000 imprese al mondo abbiano accumulato liquidità per 4,5 trilioni di dollari USA (4.500 miliardi di dollari) che non sanno dove e come investire né la usano per rimborsare debiti netti stimati in 11,1 trilioni di dollari (11.100 miliardi di dollari). Il rapporto fra disponibilità liquide e indebitamento netto è invero tornato ai livelli pre-crisi del 2007, è ossia del 24% ma gli investimenti continuano a latitare. Va infatti ricordato che mentre i debiti sono per buona parte con scadenze a medio e lungo termine e pertanto generalmente non rimborsabili se non dietro pagamenti di penali, la massa di liquidità inoperosa è lì pronta ad essere investita al momento, se naturalmente solo se ne presentasse l’opportunità; ma le occasioni sembrano rarefarsi. Quanto sopra sta a confermare che il sistema non si sblocca con la bacchetta magica dell’inflazione agitata al vento da qualche apprendista stregone, ma improntando la società ad un nuovo stile di vita, ad un nuovo quadro di consumi ed ad una gamma molto più innovativa dell’attuale di prodotti in offerta.

Nel contesto specifico italiano i dati Eurostat ci dicono che mentre in Germania, fatto 100 il valore aggiunto prodotto nel 2012 (ultimo dato disponibile): lo 0,8% è generato dalla agricoltura e dalla pesca, il 30,5 % è fornito dall’industria e dalle costruzioni e il 68,7 %  dai servizi. Nel caso italiano invece, sempre fatto 100 il valore aggiunto, il 2,0 % viene dall’agricoltura e dalla pesca, il 24,3 % dall’industria e dalle costruzioni e il 73,7 % dai servizi. Però nello stesso anno il PIL pro capite è stato di 32.600 in Germania e solo di 25.700 in Italia: ossia non solo generiamo meno reddito pro capite ma abbiamo un settore servizi generalmente meno efficiente perchè in percentuale, pur rappresentando una quota maggiore del valore aggiunto, genera meno PIL della Germania. In altre parole il settore servizi, che dovrebbe essere la punta di diamante di una politica economica moderna, si risolve ad essere poco efficiente e meno trainante per l’economia italiana di quanto dovrebbe e potrebbe in realtà essere. Questo riteniamo avvenga per carenze di politica industriale che non favoriscono un buon  apporto assoluto dei servizi avanzati alla crescita dell’economiamanca quasi del tutto la componente dei cosiddetti “servizi ad alto valore aggiunto” che non si producono spontaneamente ma solo se il paese persegue politiche industriali forti che alimentino un flusso stabile di domanda di servizi con tali caratteristiche. Abbiamo per contro una pletora di occupati nella sfera pubblica e privata con tassi di efficienza bassi, molto spesso non per demerito loro ma per come il terziario italiano è organizzato (o meglio è dis-organizzato da chi dovrebbe farlo funzionare). Ma di questo si parla pochissimo. Scriveva il poeta greco Costantino Kavafis nel 1915 “…del futuro, avvertono i sapienti ciò che si appressa. Tra le gravi cure degli studi, l’udito ecco si turba d’un tratto. A loro giungono le oscure voci dei fatti che il domani adduce.  Le ascoltano devoti.  Fuori, per via, la turba non sente nulla, con le orecchie dure.” (?? ???????? ????????? ?? ????????.?? ???????? ????????? ?? ????, ??????? ??? ????? ??????? ?????? ??? ?????.?? ??? ????????? ?? ????? ?? ???????????? ???????????????. ? ???? ????? ?????? ?? ???? ??????? ?????????????????. ? ??????? ??????? ??????? ??? ???????????? ?????????. ??? ??? ????????? ????????. ??? ??? ??? ????  ???, ????? ??????? ?? ????). Oggi potremmo sintetizzare questa frase in prosa dicendo “It’s the industrial policy, stupid!!!” (è una questione di politica industriale, stupidi) parafrasando quella celebre coniata da James Carville, lo stratega della campagna elettorale di Bill Clinton nel 1992, quando lo portò alla Casa Bianca inventando lo slogan diventato celebre   “it’s the economy, stupid”.

Sotto il termine politica industriale, in una accezione moderna, va tutto un modo nuovo di concepire e organizzare la società, la produzione e la diffusione di beni e servizi: dal sistema dei trasporti e dalla logistica al modo di pianificare i centri urbani e lo sviluppo edilizio, dall’uso permeante di tecnologie cosiddette “orizzontali” e pervasive in grado di cambiare in modo significativo gli stili di vita e di relazione tra i gruppi sociali (come le tecnologie satellitari), all’uso intelligente degli strumenti e delle risorse. Si tratterebbe di un gigantesco piano, volto a riavviare la domanda; una volta pianificato e attuato su scala generalizzata è replicabile e declinabile su scala via via più ridotta e su gruppi sociali gradualmente meno consistenti, in grado perciò nel tempo di realizzare il bene comune. E’ necessario far presto prima che tassi di interesse tornino a salire e i rischi generalizzati a farsi sentire!

Depurati dell’inflazione, i tassi di interesse sono andati scemando in termini reali negli anni fin quasi ad azzerarsi nel 2013: in parte per volontà politica, in parte per la propensione al risparmio in quelli emergenti in cui il risparmio è un surrogato  all’assenza di valide politiche previdenziali. Infine a causa della crisi che ha inaridito i flussi dei nuovi investimenti. Ma questa situazione di bassi tassi di interesse reali non durerà in eterno “Real interest rates worldwide have declined substantially since the 1980s and are now in slightly negative territory. Common factors account for much of these movements, highlighting the relevance of global patterns in saving and investment. Since the late 1990s, three factors appear to account for most of the decline. 1. First, a steady increase in income growth in emerging market economies during 2000-07 led to substantially higher saving rates in these economies. 2. Second, the demand for safe assets increased, largely reflecting the rapid reserve accumulation in some emerging market economies and increases in the riskiness of equity relative to bonds. 3. Third, there has been a sharp and persistent decline in investment rates in advanced economies since the global financial crisis” (Da: IMF World Economic Outlook April 2014 http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2014/01/pdf/text.pdf).

Elevata propensione al risparmio nei paesi emergenti, elevato volume di impieghi in titoli di debito pubblico a basso rischio per l’investitore (es: Treasury Bonds) o a rischio elevato se però emessi da paesi dell’area Euro e per contro, ricerca di più alti rendimenti attesi dagli investitori in titoli azionari (+ dividendi) hanno inoltre caratterizzato il panorama economico/finanziario dal 2000 al 2007 riproponendosi nel 2013. Anche in questo caso però la clessidra sta esaurendo rapidamente il suo contenuto “Since the late 1990s, the following factors have largely driven the decline in real rates and the cost of capital:a) A large increase in the emerging market economy saving rate between 2000 and 2007 more than offset a reduction in advanced economy public saving rates. b) Portfolio shifts in the 2000s in favour of bonds were due to higher demand for safe assets, mostly from the official sector in emerging market economies, and to an increase in the riskiness of equity relative to that of bonds. These shifts led to an increase in the real required return on equity and a decline in real rates—that is, an increase in the equity premium.c) Scars from the global financial crisis have resulted in a sharp and persistent decline in investment in advanced economies. Their effects on saving have been more muted”.

(Da: IMF World Economic Outlook April 2014http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2014/01/pdf/text.pdf)

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