Da sempre, riteniamo che esista una connessione diretta ed intima tra il “sistema culturale” ed il “sistema dell’intelligence”, perché la tutela dell’identità nazionale ha un valore non meno importante della difesa nazionale, e peraltro la cultura (intesa anche come informazione, comunicazione, media) ha un ruolo ormai centrale nello sviluppo socio-economico delle nazioni, ancor più a fronte della pervasiva digitalizzazione dell’habitat nel quale viviamo.
Non a caso, operazioni strategiche – ovviamente censurabili – come quelle messe in atto da Cambridge Analytica dimostrano quanto il confine tra “media” ed “intelligence” sia ormai veramente labile.
Questa è la premessa necessaria per segnalare le ragioni sulla base delle quali riteniamo che non sia casuale l’innesto nella “Legge di Bilancio 2021” di tre iniziative che vanno a modificare gli assetti di tre “macchine culturali”, quali possono essere considerate le storiche Rai e Cinecittà e finanche il nascente Istituto Italiano di Cybersicurezza (da cui l’acronimo “Iic”). Anche se certamente non esiste una precisa regia in questi interventi, che, anzi, evidenziano giustappunto il deficit di strategia complessiva in materia di politiche culturali, mediali, della sicurezza.
La bozza di Legge di Bilancio 2021 in gestazione
Se la bozza di Legge di Bilancio in gestazione in questi giorni diverrà norma dello Stato, tutte e tre questi soggetti – Rai, Cinecittà, Iic – saranno oggetto di modificazioni, parziali per quanto riguarda Viale Mazzini e Via Tuscolana, radicali per quanto riguarda Iic, dato che in questo caso si tratta di una vera e propria fondazione ex novo.
Procediamo con ordine, non senza segnalare che la modifica che riguarda Rai è stata oggetto di una qualche modesta attenzione giornalistica, mentre quella relativa a Cinecittà ha provocato soltanto qualche trafiletto sui quotidiani, e curiosamente ancor meno interesse mediatico ha suscitato la annunciata nascita dell’Iic.
La notizia dell’istituendo Istituto italiano per la Cybersicurezza è stata infatti “attenzionata” soprattutto – anzi, quasi esclusivamente – dal sito web della eccellente rivista “Formiche”, diretta da Paolo Messa, già alla guida fino al 2018 del Centro Studi Americani, e, forse non a caso, già consigliere di amministrazione della Rai (si segnala – en passant – che il Csa è presieduto da Gianni De Gennaro, già Capo della Polizia, poi Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel Governo Monti, e dal 2013 al 2020 Presidente di Leonardo, ex Finmeccanica). Intrecci certamente significativi, nella relazione tra media ed “intelligence”.
Per quanto riguarda Rai, nella bozza di legge di bilancio si ha conferma di quel che il Ministro dell’Economia Roberto Gualtieri aveva già preannunciato l’11 novembre scorso nell’audizione di fronte alla Commissione bicamerale di Vigilanza sulla Rai, ovvero una piccola re-integrazione dello “scippo” che Rai subisce rispetto al flusso delle risorse da canone.
Lo Stato che “scippa” parte del canone alla Rai
Come ha scritto l’Amministratore Delegato Fabrizio Salini nella lettera che ha indirizzato il 28 ottobre 2020 al Presidente della Commissione, il senatore (in quota Forza Italia) Alberto Barachini, Viale Mazzini riceve – senza alcuna logica (se non… repressivo-estorsiva!) – soltanto 74 euro dei 90 euro dell’importo unitario del canone. Il 18 % dei danari che Rai dovrebbe ricevere vengono distolti e destinati ad altro.
Si tratta di una assurda disposizione che priva la televisione pubblica italiana di risorse indispensabili per il suo sviluppo, ancor più alla luce di non pochi gravosi obblighi imposti dal “Contratto di Servizio” con lo Stato.
Nella lettera a Barachini, Fabrizio Salini evidenzia in modo chiaro il paradosso di una legge che – grazie al pagamento attraverso la bolletta elettrica – ha sì azzerato l’evasione (prima una delle più alte d’Europa, intorno al 30 %), ma di fatto non ha incrementato i flussi di ricavi da canone per la Rai, che sono attualmente inferiori a quelli che aveva sette anni fa: si tratta di 1.636 milioni di euro nel 2020, a fronte di 1.655 milioni di euro nel 2013.
È evidente l’intenzione del Governo (e del Parlamento che lo ha sostenuto in queste scellerate manovre) di tenere sotto morsa la radiotelevisione pubblica, così come la volontà di non affrancarla dal controllo politico-partitico.
L’articolo 97 della Legge di Bilancio 2021 in gestazione (intitolato “Destinazione delle entrate a titolo di canone di abbonamento alla televisione”) consente al Ministro dell’Economia di integrare una parte delle risorse allocate a favore della Rai.
Il Ministro Gualtieri – nella sua veste di “azionista di controllo” (ahinoi, così si è auto-qualificato, senza scrupoli, in Commissione Vigilanza) di Rai s.p.a. – ha prospettato un piccolo incremento del flusso, fin dall’esercizio 2021, di 85 milioni di euro, ovvero una sorta di “restituzione” alla Rai di una quota del 5 % che è stata finora impropriamente trattenuta dallo Stato (dalla Legge di Bilancio 2015). Si tratta comunque di una piccola iniezione di ossigeno finanziario, a fronte di una previsione di oltre 200 milioni di euro di perdite nel consuntivo 2021, a causa delle conseguenze della pandemia e degli investimenti straordinari per gli Europei di Calcio e per le Olimpiadi di Tokio.
La vicenda deprimente dell’evanescente canale Rai per l’estero
Ancora una volta si ragiona comunque in ottica contingente, di breve periodo, e senza pensare ad uno sviluppo strategico della Rai, come agenzia culturale e digitale a servizio del Paese.
Peraltro, nel “Contratto di Servizio” 2018-2021 tra Stato e Rai (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 7 marzo 2018) sono stati inseriti obblighi di servizio pubblico che non sono mai stati valutati preventivamente in modo minimamente serio, come il canale istituzionale ed il canale internazionale in lingua inglese: non a caso, entrambe queste iniziative sono quindi state affrontate in modo inadeguato, erratico, impreciso, in assenza di certezze di risorse. Salini, nella sua lettera a Barachini, sostiene che questi canali erano stati inseriti nel Contratto di Servizio nella presunzione – da parte di Rai – che tutto il gettito del canone le sarebbe stato assegnato (ma questa interpretazione è controversa), nell’economia di un “piano industriale” sospeso a causa della pandemia. Piano industriale che, peraltro, ancora una volta, è stato appaltato all’esterno della Rai a suon di milioni di euro (ad una delle solite multinazionali della consulenza, che finiscono per essere ormai in Italia una sorta di governo-ombra del Paese; nel caso in ispecie, il “piano” Rai del 2019-2021, a Boston Consulting Group – Bcg).
Martedì sera 16 novembre, il futuro canale Rai in inglese, in particolare, è stato oggetto di un servizio ironico da parte di “Striscia la notizia”, dato che il progetto è ancora nebuloso: scrivono i redattori del tg satirico di Mediaset: “Pinuccio si occupa di Rai e in particolare degli sprechi che – nonostante un indebitamento di oltre 275 milioni di euro – continuerebbero a essere fuori controllo. Riflettori puntati su Rai English, canale lanciato dall’ad di viale Mazzini Fabrizio Salini circa un anno fa e finora costato circa 2 milioni di euro di soldi pubblici pur non avendo mai trasmesso nulla, ma con un direttore nominato e profumatamente retribuito”. Gli irriverenti giornalisti ricordano il concetto espresso dall’Ad, quando il canale fu annunciato: «Va a riempire un tassello della Tv pubblica che in Italia non esiste e che è già forte negli altri Paesi europei». E continuano: “Era l’aprile del 2019 quando Salini annunciò la creazione del nuovo canale, il cui obiettivo era di «parlare dell’Italia al mondo ed educare gli italiani all’apprendimento dell’inglese». Venne addirittura nominato un direttore, Fabrizio Ferragni. Peccato che Rai English non sia mai esistito! E ora, mentre la tv pubblica – che continua a percepire il canone dagli italiani – sembra intenzionata a batter nuovamente cassa con lo Stato per farsi aiutare a uscire dalla crisi, Salini ne propone la chiusura. In sostanza, vorrebbe arginare il debito Rai chiudendo un canale che non solo ha creato lui stesso poco più di un anno fa, ma che di fatto non ha mai trasmesso nulla. Intanto, l’emorragia dei conti Rai si fa sempre più allarmante…”. Fabrizio Ferragni ha un compenso annuo di 219mila euro (dato tratto dalla sezione “Trasparenza” della Rai) ed è stato nominato “Direttore del Canale in Lingua Inglese” nel giugno 2020, dopo essere stato nominato nel luglio 2019 “Direttore del Canale Tematico Istituzionale”. Di entrambi, non v’è traccia di vita…
Non entriamo ovviamente nel merito della non indipendenza della fonte “Striscia”, dato che la stimolante trasmissione è pur sempre espressione del principale concorrente di Rai, qual è giustappunto Mediaset.
Gualtieri mette la Rai sotto scacco: si rinnova la patologia della dipendenza dall’Esecutivo
Questa decisione di Gualtieri di re-integrare una parte del canone sottratto, è stata però correlata – secondo alcuni osservatori – ad una sostanziale delegittimazione da parte del Governo dell’attuale vertice Rai: in effetti, Gualtieri scrive che la concessione degli 85 milioni “debba essere accompagnata da interventi da parte del management più ampi ed incisivi che puntino al rilancio dell’azienda”. Si legga tra le righe.
Si conferma quindi la patologia storica di una dipendenza diretta della Rai dall’Esecutivo, allorquando un sistema sano dovrebbe prevedere un’assoluta indipendenza. Alcuni già prefigurano possibili candidati alla successione dell’Amministratore Delegato, nel solito balletto di lottizzazione partitocratica…
Nessuno si domanda perché debbono essere destinati ad altri operatori radio-televisivi altri 110 milioni di euro derivanti dal cosiddetto “extra gettito”, ovvero quel che deriva dal canone recuperato rispetto all’evasione. Per quale bislacca ragione, il “Fondo per il Pluralismo e l’Innovazione dell’Informazione” (istituito nello stato di previsione del Ministero dell’Economia e delle Finanze dalla Legge n. 198 del 2016) deve essere finanziato anche dal canone destinato alla Rai?!
Si ricordi che la Legge di Bilancio 2019 (la n. 145/2018, all’articolo 1, comma 90) ha stabilizzato la previsione – già vigente per il 2017 e il 2018 – secondo la quale la metà delle eventuali maggiori entrate versate a titolo di canone Rai (il cosiddetto “extra gettito”, appunto) è riversata all’Erario, e ne ha confermato anche le finalizzazioni, tra cui rientra il finanziamento, fino ad un importo massimo di 125 milioni ogni anno, del “Fondo per il pluralismo e l’Innovazione dell’Informazione”… Quale la logica (e la numerologia) di questi intrecci normativi?!
Le nubi si addensano su Rai, e qualcosa sembra muoversi finalmente anche a livello parlamentare, dato che il Partito Democratico ha annunciato la volontà di intervenire con una riforma: l’ex Ministro nonché Vice Segretario del Pd Andrea Orlando ha reso nota in questi giorni il testo di una sua proposta di legge formalmente depositata alla Camera a metà ottobre. Orlando ha ricordato che uno dei punti del contratto di governo “è la riforma del sistema radiotelevisivo improntata alla tutela dell’indipendenza e del pluralismo”, sostenendo che “sarà sempre più difficile identificare il servizio pubblico e giustificarne il finanziamento, soprattutto se continuerà a non differenziarsi dal modello della televisione commerciale”. Questa riforma “sistemica” è stata annunciata un anno fa nel “patto” tra Pd e M5S (seppur in modo assai generico), ma finora nessuno l’ha concretamente avviata.
Di fatto, la proposta Orlando ricalca il mitico e sempiterno “modello Bbc”, con la creazione di una Fondazione, ovvero un sistema di distacco dalla logica partitocratica, simile a quello proposto nel tentativo di riforma avviato da Paolo Gentiloni nel lontano 2007. Avremo occasione di tornare sulla questione, con la necessaria attenzione.
Immediata la reazione dei grillini, nella persona del senatore Primo Di Nicola, che ha dichiarato, allorquando il Sottosegretario con delega all’Editoria Andrea Martella (Pd) ha sostenuto l’esigenza di una “nuova governance” per la Rai: “invito pertanto tutte le forze politiche, a cominciare dal Pd, a mettere sul tavolo le loro proposte. Noi siamo pronti già da due anni. Altri ritardi non sono ammissibili”.
In questi giorni, la senatrice piddina e già titolare del Miur dal dicembre 2016 al giugno 2018 Valeria Fedeli (che può peraltro vantare anche un significativo passato da sindacalista in Cgil) ha annunciato anche lei una proposta di riforma, di cui ancora non si conosce il testo, intanto rivendicando una donna alla presidenza della Rai.
Ci si augura che si passi dalle belle intenzioni, dai roboanti annunci ad azioni concrete in ambito parlamentare, con una calendarizzazione concreta e con pubblici dibattiti, andando oltre l’effervescenza dei comunicati stampa.
I pessimisti temono si tratti invece di una rinnovata abile schermatura mediatica per novelle operazioni di raffinata ri-lottizzazione, nella miglior tradizione del camaleontismo italico.
Non i partiti, ma un sindacato: la Cgil promuove un convegno sulla Rai, il 20 novembre
Da segnalare anche che, dopo anni di silenzio assordante (incredibilmente nessun partito politico ha promosso convegni sulla Rai dopo l’insediamento del primo Governo Conte), di dibattito asfittico (o comunque rimasto chiuso nelle stanze di pochi cenacoli intellettuali), è un sindacato a promuovere un incontro pubblico sul futuro della Rai: venerdì prossimo 20 novembre, dalle ore 10, la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (Cgil) ed il suo sindacato “specializzato” Slc (Sindacato Lavoratori della Conoscenza) ha organizzato un convegno intitolato “Rai / Bene pubblico in un Paese che cambia”. Previsti, tra i partecipanti, esperti del calibro di Sergio Bellucci, Giacomo Mazzone, Renato Parascandolo, e politici come Valeria Fedeli e Alberto Barachini. Per la Rai, partecipa il Direttore dell’Ufficio Studi Andrea Montanari. Le conclusioni verranno tratte dal Segretario Generale Maurizio Landini. L’iniziativa può essere seguita via web attraverso la piattaforma multimediale Futura Lab.
È interessante (e finanche sintomatico) che sia un sindacato dei lavoratori, e non un partito, a promuovere, dopo anni di stagnazione, un pubblico dibattito sui futuri possibili della Rai.
Nubi scure si addensano su Rai, ed il “meteo” non volge al bel tempo nemmeno rispetto ad una “macchina culturale” di ben più modeste dimensioni, ma – almeno potenzialmente – di importanza strategica per il sistema culturale nazionale: Istituto Luce Cinecittà (fatturato 2019 di poco inferiore ai 50 milioni di euro, 262 dipendenti).
Cinecittà: aumento di capitale, nuovo Cda che passa da 3 membri a 5…
L’articolo 9 della bozza di Legge di Bilancio 2021, all’articolo 93, prevede un (ennesimo) intervento a favore di Istituto Luce Cinecittà, che viene trasformata da “società a responsabilità limitata” (srl) a “società per azioni” (spa). Le ragioni di questa modifica non sono chiare, e peraltro permane la formula curiosa di un azionista, che è il Ministero dell’Economia e delle Finanze, che cede ad un altro dicastero, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, “i diritti dell’azionista” (e, per semplificare il tutto, con la formula “d’intesa con il Mef”). Viene autorizzato un aumento di capitale nell’ordine di 10 milioni di euro.
La legge prevede che La società sia amministrata da un consiglio di amministrazione composto da 5 membri, di cui 2 membri designati dal Ministro titolare del Mef (uno dei quali con funzioni di Presidente, designato d’intesa con il titolare del Mibact), e 3 membri (uno dei quali con funzioni di Amministratore delegato), designati dal Ministro per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo. Diverte osservare che la Relazione Illustrativa della Legge di Bilancio non prende nemmeno in considerazione l’articolo 93, per comprendere l’importanza (…) assegnata all’intervento.
I maligni sostengono che la misura sarebbe stata in verità determinata da una situazione debitoria molto critica di Cinecittà, e dalla nomina, l’11 novembre scorso, di Maria Pia Ammirati, Presidente di Luce Cinecittà, alla guida della Direzione Fiction Rai (incarico rimasto vacante per mesi, dopo che Eleonora Andreatta ha lasciato nel giugno 2020 Viale Mazzini per assumere la guida delle attività produttive di Netflix in Italia). Se la Ammirati aveva incredibilmente mantenuto – nel silenzio dei più – un piede in due staffe (Presidenza di Cinecittà Luce e Direzione delle Teche Rai), questo suo novello assai più impegnativo incarico a Viale Mazzini rende impraticabile – se non incompatibili – i due ruoli.
Quindi, si approfitterebbe della vicenda per ri-nominare presto un nuovo Consiglio di Amministrazione, che però viene… allargato. Attualmente, a parte l’Ammirati, il Cda di Cinecittà è affidato al potentissimo Goffredo Bettini (il primo consigliere del Presidente della Regione Lazio nonché Segretario del Partito Democratico Nicola Zingaretti) e dalla romanziera ed organizzatrice culturale Annalisa De Simone, con simpatica ripartizione partitocratica “old style” (ma questa volta le opposizioni sono escluse) Italia Viva (Ammirati), Partito Democratico (Bettini), Movimento 5 Stelle (De Simone).
Tra qualche settimana, questo scenario verosimilmente cambierà, anche perché i consiglieri passano da 3 a 5, ma la sostanza non verrà modificata: Cinecittà resta una società pubblica senza una precisa identità e strategia aziendale (e culturale), sganciata sostanzialmente dall’economia complessiva del sistema culturale nazionale. Senza dimenticare che, per ragioni incomprensibili, il Mibact ha “delegato” a Cinecittà una parte delle attività tipiche del dicastero: in effetti, nell’ambito delle “funzioni di supporto alla Direzione Cinema e Audiovisivo”, Luce Cinecittà gestisce il Fondo per la Produzione, la Distribuzione, l’Esercizio e le Industrie Tecniche previsto dalla “Legge Cinema” (la Franceschini del 2016).
Il Cda di Cinecittà Luce era stato nominato dall’Assemblea (socio unico il Mef) il 12 giugno 2020… Come recita un capolavoro del drammaturgo David Mamet, “Le cose cambiano”. Talvolta assai rapidamente. Misteri del “governo della cultura” italiano.
Nasce l’Istituto Italiano di Cybersicurezza (Iic), ulteriore asse tra Premier e Servizi Segreti?!
La proposta di legge di bilancio 2021 prevede all’articolo 100 il varo della Fondazione “Iic” ovvero dell’Istituto Italiano di Cybersicurezza, ente finalizzato a promuovere e sostenere “l’accrescimento delle competenze e delle capacità tecnologiche, industriali e scientifiche nazionali nel campo della sicurezza cibernetica e della protezione informatica, nonché di favorire lo sviluppo della digitalizzazione del Paese, del sistema produttivo e delle pubbliche amministrazioni in una cornice di sicurezza”.
Altro obiettivo (ambizioso assai) è “il conseguimento dell’autonomia, nazionale ed europea, riguardo a prodotti e processi informatici di rilevanza strategica, a tutela dell’interesse della sicurezza nazionale nel settore”.
La questione si intreccia con la necessità di tutelare il “perimetro di sicurezza nazionale cibernetica” (il 22 ottobre 2020 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale un primo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in materia) e con lo strumento del “golden power” per garantire la sicurezza delle nuove infrastrutture di telecomunicazione, con particolare riferimento a quelle 5G. Si ricordi che il “golden power” assegna al Governo poteri di interdizione, indirizzo e orientamento nelle transazioni in settori sensibili quali la difesa e la sicurezza nazionale, nonché in taluni ambiti di attività definiti di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni. Il “golden power” è stato evocato anche in relazione al tentativo di “scalata” da parte del gruppo francese Vivendi nei confronti di Tim e Mediaset, e si ricordi che in questi giorni la relatrice del decreto sul Covid, la piddina Valeria Valente ha annunciato un emendamento che di “una norma ultra-specifica” (come ha ben precisato Vincenzo Vita su “il Manifesto” di giovedì della scorsa settimana 12 novembre) “volta a tutelare Mediaset da un’ipotetica scalata del gruppo francese Vivendi”.
Per l’Iic, è prevista una spesa di ben 30 milioni di euro (!) per il 2021, addirittura 70 milioni di euro (!!!) per il 2022, di 60 milioni per il 2023, 50 milioni per il 2024… Complessivamente impegni per oltre 200 milioni di euro nell’arco di 4 anni.
Un budget importante, anzi discretamente impressionante, anche se in verità le ambizioni dell’Istituto appaiono oggettivamente notevoli così come le attività previste: “pianifica, elabora, sviluppa, promuove e supporta iniziative e progetti di innovazione tecnologica e programmi di ricerca riguardanti la sicurezza delle reti, dei sistemi e dei programmi informatici e dell’espletamento dei servizi informatici, in coerenza con la strategia nazionale di sicurezza cibernetica, e supporta le istituzioni nazionali competenti nella materia della protezione cibernetica e della sicurezza informatica, anche ai fini della partecipazione alla definizione degli standard internazionali nel settore; promuove la consapevolezza dei rischi informatici presso le Istituzioni, le imprese e gli altri utenti di prodotti e servizi informatici”.
Una nuova struttura dei servizi… al servizio del Premier?
I membri fondatori della Fondazione – che si sarebbero ispirati ad un modello israeliano – sono il Premier, premier, i ministri del Cisr (Comitato Interministeriale per la Sicurezza della Repubblica: Interno, Difesa, Esteri, Giustizia, Mef, Mise) cui si aggiungerebbe il Ministro dell’Università e della Ricerca (Mur) Gaetano Manfredi (M5S), e si avvarrebbe del coordinamento del Dipartimento Informazioni e Sicurezza (Dis), di cui è Direttore Generale Gennaro Vecchione (nominato da Conte a fine 2018; si ricordi che al Dis fanno capo le due agenzie degli “007” italici, rispetivamente l’Aisi per la sicurezza “interna” e l’Aise per la sicurezza “esterna”).
Questa iniziativa è controversa assai: secondo alcuni, il progetto, molto caro a Giuseppe Conte (e fortemente voluto dal grillino Angelo Tofalo, Sottosegretario alla Difesa, e già a capo del Copasir), sarebbe in fase di depotenziamento – e potrebbe essere ridimensionato (se non addirittura cestinato) durante l’iter parlamentare – a seguito di una qual certa resistenza da parte del Partito Democratico, che starebbe cercando di ostacolare la fondazione dell’Istituto, inevitabilmente destinato a divenire un ulteriore ponte e legame tra Palazzo Chigi ed i gangli strategici dei servizi segreti. Si ricorda che Conte si è tenuta ben stretta per sé la delega sui servizi… E si ricordi, sullo sfondo, l’attività dell’intelligence Usa, sempre vigile anche in Italia: il settimanale “l’Espresso” ha preso visione di documenti interni dell’Ambasciata Usa a Roma, che identificherebbero nei ministri della Difesa Lorenzo Guerini e degli Affari Europei Vincenzo Amendola (entrambi Pd) i possibili interlocutori privilegiati in Italia della futura (probabile) amministrazione Joe Biden. Senza dimenticare la voce che vedrebbe nell’ex Premier Matteo Renzi il prossimo Segretario Generale della Nato, sulla base di una vecchia promessa di Barack Obama… D’altronde – commenta sarcastico qualcuno – se abbiamo Luigi Di Maio a reggere il Ministero degli Esteri, non potremmo forse avere Matteo Renzi a guidare la Nato?!
Alcuni obiettano che le funzioni che verrebbero assegnate all’Iic sono in parte già svolte dal Dipartimento Informazioni di Sicurezza (Dis) ed in parte dall’Agenzia per l’Italia Digitale (Agid)… Secondo alcuni, l’Iic si andrebbe a sovrapporre anche a compiti già istituzionalmente svolti dal Ministero dello Sviluppo Economico e dal Ministero per l’Innovazione.
Quando i “perimetri” si confondono, data l’incertezza definitoria delle funzioni, la confusione aumenta, così come il rischio di duplicazioni e sovrapposizioni, ovvero di moltiplicazione burocratica.
Il rischio concreto è anche, ancora una volta, quello di una “superfetazione” burocratica di dubbia utilità, nella miglior tradizione del “poltronificio” italico.
Quel che riteniamo si possa sostenere è che queste iniziative – dalla Rai a Cinecittà all’Istituto italiano di Cybersicurezza – sono il risultato di decisioni maturate nelle “segrete” stanze del potere, ovvero in luoghi certamente oscuri, in totale assenza di trasparenza, e con evidente deficit di strategia complessiva. Basti osservare il disastro venutosi a determinare anche a causa della (non) reattività del Dis rispetto alla pandemia (in argomento, si rimanda al nostro intervento del 19 aprile 2020, “Emergenza covid-19: i servizi segreti italiani sapevano e hanno omesso di dare adeguato allarme sulla pandemia?!”, su “Articolo21”). E dei deficit della Rai rispetto alla pandemia, abbiamo scritto molto anche su queste colonne.
Conclusivamente: interventi normativi estemporanei, frutto di oscure dinamiche, in totale assenza di pubblico dibattito, in settori strategici del Paese. Interventi quasi “accidentali”, in assenza di una strategia nazionale – organica ed integrata – su media, cultura ed intelligence.
Ci si augura che l’iter parlamentare della Legge di Bilancio possa stimolare un indispensabile dibattito pubblico, un confronto dialettico con le rispettive comunità professionali di riferimento e con le forze politiche e della società civile.
È il minimo che si dovrebbe richiedere, in un sistema democratico sano.
Clicca qui per leggere l’intervento di Roberto Gualtieri, Ministro dell’Economia e della Finanze, in audizione di fronte alla Commissione parlamentare bicamerale Vigilanza Rai, l’11 novembre 2020
Clicca qui per leggere la lettera dell’Amministratore Delegato della Rai Fabrizio Salini al Presidente della Commissione Vigilanza Rai Alberto Barachini, il 28 ottobre 2020
Clicca qui per leggere la bozza del Disegno di Legge di Bilancio 2021, versione 14 novembre 2020 ore 23.