Quando le multinazionali non pagano le tasse dove dovrebbero versarle vi è una perdita di gettito fiscale che può arrivare allo 0,3% del Pil nel caso dell’Italia: cinque miliardi di euro. Si tratta dell’elusione fiscale, fenomeno differente dall’evasione, ma comunque dannoso, e non solo per le casse dei governi.
Tasse, multinazionali ed elusione fiscale
Cosa si intende esattamente per elusione fiscale? Mentre con l’evasione vi è la palese violazione della norma, in questo caso formalmente la legge è rispettata, ma vengono utilizzati vuoti, contraddizioni, lacune dei complessi impianti normativi per aggirare la tassazione, evitarla o ridurla. Di fatto a essere violati sono i principi, anche se non la lettera dell’ordinamento tributario. È un lavoro da professionisti e infatti nelle multinazionali ci sono intere schiere di avvocati e fiscalisti incaricati di studiare tutti i modi per pagare meno tasse legalmente che però viene chiamata “efficienza fiscale”.
Quanto è grande l’elusione fiscale nel mondo
Secondo un recente report di Banca d’Italia al di fuori dal nostro Paese questo problema è ancora più presente. Come si vede dalla nostra infografica negli Stati Uniti l’elusione fiscale varia tra lo 0,2% e lo 0,5% del Pil, cioè tra i 45 e i 93 miliardi di dollari. Nel mondo si arriva a valori stimati ancora più alti, in base allo studio internazionale che si vuole prendere in considerazione la perdita da parte dei governi potrebbe ammontare a 500-460 miliardi di dollari, quindi allo 0,6%-0,8% del Pil. Le stime più ottimistiche parlano, invece, solo di 49 miliardi, lo 0,07% del prodotto interno lordo globale.
Le tasse sulle multinazionali: il mistero
Non deve stupire il fatto che la forchetta sia così ampia, soprattutto se si tratta di dati aggregati mondiali. Si tratta di un fenomeno che riguarda proprio la “sparizione” di profitti, il loro mascheramento e il cui scopo è in un certo senso l’inganno. Come per l’evasione sono possibili solo stime e queste vengono realizzate in modo molto diverso dai vari centri di ricerca, portando a esiti anche molto differenti.
Una cosa è certa, però, il fatto che in Italia il range dell’elusione fiscale veda un’oscillazione tra valori minimi e massimi più bassi che negli Usa non è dovuto a una maggiore disciplina delle nostre multinazionali o di quelle che nel nostro Paese fanno business. La ragione è che in Italia il peso di queste aziende globali, sia in termini di giro d’affari che di quota dei consumi che le riguardano, è inferiore. Siamo il Paese con la maggiore concentrazione di piccole e micro aziende, e più che altrove resiste il piccolo commercio.
Come le multinazionale evitano di pagare le tasse
Le tecniche per realizzare forme di elusione fiscale e distrarre i profitti dal luogo dove dovrebbero essere tassati sono diventati nel tempo sempre più sofisticati. Celebre è il cosiddetto “Double Irish with a Dutch sandwich”: si tratta di una tecnica, messa in atto soprattutto dalle società hi-Tech, che prevede la costituzione di un’azienda irlandese che detiene la proprietà intellettuale del servizio offerto. Le vendite, per esempio, negli Stati Uniti, fa scattare delle royalties che la casa madre americana paga alla sussidiaria irlandese. Questi pagamenti riducono di moltissimo i profitti netti che risultano al fisco americano. I profitti finiscono in Irlanda che, a differenza degli Usa, tassa pochissimo le royalties. I profitti così generati vengono poi depositati in un paradiso fiscale caraibico, grazie a un baco nella normativa irlandese.
Non è finita qui: la multinazionale crea in Irlanda una seconda sussidiaria per le vendite, per esempio in Europa. I suoi profitti vengono trasferiti ancora come royalties nei Paesi Bassi attraverso un accordo di sub-licenza, approfittando del fatto che tale trasferimento non era tassato per la legge olandese. L’azienda le indirizza di nuovo verso la prima sussidiaria di Dublino, di nuovo sotto forma di royalties, e da qui prendono il volo per le Bermuda o le Cayman. È in questo modo che Google, per esempio, è riuscita a trasferire miliardi di euro distogliendoli al fisco, 19,9 solo nel 2017, finiti in paradisi fiscali e mai tassati.
Negli anni però l’elusione delle multinazionali si è ridotta
Queste e altre forme di elusione fiscale, come anche altre, sono state “scoperte” e limitate. La buona notizia, infatti, è che negli ultimi anni l’ammontare di tasse non pagate e il loro valore in relazione al Pil si sono ridotti. Ciò è avvenuto principalmente grazie agli accordi tra i governi nell’ambito dell’Ocse o del G20.
Il Base Erosion and Profit Shifting (Beps) Action Plan, introdotto nel 2015 in ambito Ocse, prevede quindici misure, organizzate in tre pilastri. Il primo riguarda l’allineamento delle normative fiscali dei vari Paesi almeno per quanto riguarda la tassazione delle attività trans-nazionali. L’obiettivo è evitare la sottrazione al fisco dei profitti, per esempio, delle multinazionali digitali, evidentemente più portate all’elusione dalla natura del loro business, attraverso la fissazione di regole coerenti sulle transazioni all’interno dello stesso gruppo tra filiali internazionali o tra la casa madre e le società controllate. È in questo contesto che l’Irlanda ha dovuto correggere la propria legislazione eliminando quei bachi che consentivano il trasferimento di denaro in società nei paradisi fiscali.
In attesa di una tassazione minima globale sui profitti
Si è in attesa che veda la luce il secondo pilastro. Questo prevede, tra le altre cose, la fissazione di una tassazione minima del 15% sui profitti a livello globale e quindi l’eliminazione dei paradisi stessi. I ricercatori non sono certi che questo abbia lo stesso benefico effetto dell’omogeneizzazione delle legislazioni. Per esempio pensano che potrebbe incentivare ulteriori risparmi nella fase di produzione, almeno per quanto riguarda i beni fisici, crescerebbe, cioè, la spinta ad abbassare i costi del lavoro nei Paesi in via di sviluppo in cui sono fabbricati o a cercare nuove aree ancora più economiche in cui spostare gli impianti.
I dati si riferiscono al: 1980-2023
Fonte: Banca d’Italia