I tanti che vivono ormai gran parte delle loro giornate avvolti da dati, informazioni e algoritmi sono costretti imparare a (soprav)vivere in una non-Terra costituita in larga parte da flussi immateriali fatti di bit, pixel, gif, icone, mp4, pdf e altre entità digitali, i quali, modellati opportunamente, costruiscono, tentando di reificarle, quelle che il filosofo coreano Byung-Chul Han nel suo recente saggio chiama le non-cose digitali (Le non cose, Einaudi, 2022). Un saggio che riflette sulla vita degli esseri umani nei nostri anni dominati dalle tecnologie informatiche che ha un sottotitolo esplicativo: “Come abbiamo smesso di vivere il reale”.
Le non-cose con cui abbiamo sempre più spesso a che fare sono cose senza peso e senza odore, oggetti immateriali, elementi simbolici che velocemente si compongono e si disfano senza fare rumore. Lo fanno in pochi attimi con velocità non umane, non tipiche della nostra natura. A volte hanno orizzonti vitali di millisecondi o microsecondi, intervalli infinitesimi che noi non sappiamo percepire. Sono manufatti immateriali senza peso ma di ogni forma e colore che catturano i nostri sensi e rubano la nostra attenzione. Non-cose che definiscono il nuovo reale della non-Terra in cui oggi molti vivono la gran parte delle loro giornate e i restanti altri saranno costretti a viverle in un futuro molto prossimo.
Le non-cose digitali sono fatte di informazione che, come un liquido che prende la forma del bicchiere che lo contiene, si adattano alla rappresentazione che fornisce loro il software che li manipola. Durano il tempo per cui sono stati programmati, non possiamo conservarli per sempre. Come scrive Han «Non sono gli oggetti, bensì le informazioni a predisporre il mondo in cui viviamo.»
Viviamo e ci muoviamo spesso nella non-Terra definita da Google Maps, lavoriamo nei non-uffici costruiti da Zoom e da Meet, coltiviamo le non-amicizie fatte di video digitali (veri o ritoccati) e di post di Facebook, ci nutriamo di non-affetti personali inverati dagli emoji. Alcuni hanno anche iniziato a trascorrere diverse ore nel non-ambiente del Metaverso. Eppure, i tragici eventi di questi ultimi due anni (la pandemia e la guerra in Ucraina), insieme ai tanti drammi di molti paesi poveri del mondo, ci riportano al reale tradizionale, al dolore dei corpi e dei sentimenti umani. Ci dicono che non è del tutto possibile sfuggire alla physis di cui siamo figli e alla fisicità del nostro corpo e di quello degli altri esseri umani che incontriamo. Questi eventi che ci riportano a stare con i piedi per terra non sembrano comunque così potenti di fronte alla informatizzazione del reale, alla digitalizzazione del mondo che accelera la produzione bulimica di non-cose e le pone davanti ai nostri sensi per farceli abbracciare, per spingerci dentro questo inedito universo fondato su infiniti flussi di bit ordinati e ordinanti.
L’enorme quantità di non-cose digitali che abitano il nostro presente ci vuole dire che non ci sarà più un ritorno all’identica situazione vitale in cui siamo nati e nella quale abbiamo conosciuto una sola Terra, un solo reale. Veniamo da uno spazio-tempo che ci obbligava a essere in un dato istante in uno solo dei suoi punti e stiamo andando in un nuovo universo che ci permette di ‘essere’ in molti luoghi nello stesso momento, addirittura di avere più personalità contemporanee. Occorre resistere? Occorre abituarsi? La risposta non è semplice e anche dopo aver fatto la scelta, praticarla è comunque molto difficile. Sapremo affrontare la nuova realtà piena di non-cose mantenendo il piacere di vivere con le cose che hanno costituito il nostro vecchio mondo? Sarà necessario non perdere le radici della semplicità dell’esistenza durante le nostre giornate che sono sempre più riempite da questo nuovo reale e ritornare a dedicare maggiore attenzione alle tante cose fisiche modeste che non la richiedono ma la meritano.
Il filosofo coreano scrive che «l’ordine digitale derealizza il mondo informatizzandolo.» In questa de-realizzazione noi umani ‘maneggiamo’ dati e informazioni che inverano tante non-cose digitali che sono sempre di più delle vecchie cose ‘reali’ che siamo stati abituati a toccare, a consumare. I nostri desideri sono sempre più orientati verso le non-cose. Cerchiamo dati, informazioni, app, brevi video, meme, emoticon, post, e sensazioni digitali veloci, contingenti, spesso effimere. Sono miriadi di entità digitali che generano dipendenza e spingono ad abituarsi al nuovo non-mondo.
Le non-cose sono spesso abilitanti nella risoluzione di tanti problemi degli individui e si propongono come apparentemente risolutive di ogni necessità umana. Sono lì pronte a rispondere ai nostri bisogni, sono lì a indurre nuovi bisogni. Compongono un mondo in cui ogni necessità sembra poter avere una soddisfazione digitale; ogni limite si può colmare con un’app, ogni ignoranza si può riparare con una pagina web, ogni solitudine con un tweet. In questo scenario, anche l’intelligenza artificiale che emula piccole e grandi abilità umane, riempie di scelte, di caratteristiche e suggerimenti le non-cose, le rende interessanti, fornisce loro una funzione e ce le offre “à la carte”.
La vera cosa reale su cui si fondano e da cui nascono è l’hardware dei nostri computer, degli smartphone e delle reti, ma da un solo hardware possono nascere innumerevoli non-cose software che vivono in esso. Ogni dispositivo digitale fisico ospita tantissime non-cose software che inter-agiscono con noi e con il nostro reale e sempre più spesso agiscono per noi, si sostituiscono alle nostre braccia, al nostro corpo, alla nostra mente. Costruiscono un nuovo habitat immateriale che sentiamo sempre più familiare, come avessimo sempre vissuto in esso. E così, nell’epoca dell’avvento delle non-cose digitali, siamo noi a rischiare di diventare cose.