Esclusiva

Le conclusioni della Vigilanza sui modelli di governance della Rai

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Eliminare la pubblicità e estendere il mandato del cda? Una indagine ambiziosa ma con risultati modesti. La Commissione si è concessa due settimane per le proposte di emendamenti al testo

Ieri sera, martedì 22 febbraio 2022, è stato presentato “internamente” il documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sul servizio pubblico in Europa ovvero sui possibili novelli modelli di governance della Rai, iniziativa avviata quasi un anno fa dalla Commissione Parlamentare per l’Indirizzo Generale e la Vigilanza dei Servizi Radiotelevisivi (vedi “Key4biz” del 30 marzo 2021, “Rai, Commissione di Vigilanza avvia indagine conoscitiva sul servizio pubblico in Europa”): è proprio il caso di usare la pur abusata metafora della “montagna” che ha partorito il “topolino”.

Il documento – che “Key4biz” è in grado di pubblicare in esclusiva ed in anteprima – contiene spunti e suggestioni di indubbio interesse, ma appare tecnicamente fragile, e deficitario dal punto di vista documentativo.

Il titolo: “Documento conclusivo dell’Indagine conoscitiva su modelli di governance e ruolo del Servizio pubblico radiotelevisivo”. Si tratta di una bozza, sulla quale vengono presentati emendamenti, e poi si arriverà ad una versione finale. Il titolo per esteso è “Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sui modelli di governance e il ruolo del servizio pubblico radiotelevisivo, anche con riferimento al quadro europeo ed agli scenari del mercato audiovisivo”.

I due co-relatori hanno ritenuto di anticiparne un qualche contenuto al giornalista del quotidiano confindustriale “Il Sole 24 Ore” che segue, sempre con attenzione, le tematiche delle politiche e delle economie della televisione e degli altri media, Andrea Biondi, che ieri ha pubblicato un suo primo commento, ma riportando i pareri del Presidente della Vigilanza Andrea Barachini (Forza Italia) e del suo collega Andrea Romano (Partito Democratico).

Abbiamo chiesto direttamente al gentile Presidente della Vigilanza il documento (dato che era stato evidentemente fornito ad un collega giornalista) e ci ha risposto oggi: “il documento sarà pubblico quando sarà definitivo e approvato dai commissari con i loro contributi, adesso è una bozza e come tale sarebbe scorretto distribuirla”.

Ci siamo permessi di sommessamente contestare – da giornalisti, da ricercatori, da cittadini – che una simile “bozza” dovrebbe essere oggetto di immediata pubblicazione, anche perché non si tratta – evidentemente – di segreti industriali, ma semplicemente di un documento di stimolazione tecnico-politica.

Al che Alberto Barachini ci ha risposto che “comunque” la bozza sarebbe stata pubblicata entro questa sera nel resoconto della Commissione di ieri. Attendiamo fiduciosi, pur avendo osservato come i verbali della Commissione non vengano resi di pubblico dominio – a livello di stenografico (che è l’unica fonte veramente utile) – sempre con particolare tempestività (se non andiamo errati, l’ultimo resoconto stenografico di seduta risale al 24 novembre 2021: si trattava del “seguito dell’audizione del Presidente e dell’Amministratore delegato della Rai”, vedi qui il link per averne conferma; era la seduta n. 77, e la Commissione affronta oggi la seduta n. 81, quindi non ci sono ancora i verbali delle successive tre sedute, rispettivamente del 20 gennaio 2022, dell’8 febbraio e di ieri 22 febbraio 2022).

Ciò premesso, un qualche componente della Commissione è stato meno ritentivo, ed abbiamo quindi – grazie a simpatica generosità informativa di alcuni – acquisito il… prezioso testo (abbiamo ricevuto più file, ed alcuni recano, tra le proprietà del documento, come “autore” il nome di Alessia Melchiorri, funzionaria della Camera dei Deputati).

Il file che l’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult e “Key4biz” hanno quindi ritenuto di rendere subito di pubblico dominio è ancora formalmente “secretato” (il che provoca in verità un simpatico sorriso).

Contenuti forse rivoluzionari nel documento della Vigilanza?!

Propone contenuti rivoluzionari?!

No, ma anche . , ma anche no (un po’ à la Walter Veltroni?!).

Una premessa importante: si legge che “nel corso dell’indagine conoscitiva, pur nella presa d’atto delle difficoltà sempre maggiori che è destinato ad incontrare il servizio pubblico, nessuno ne ha realmente messo in discussione l’utilità e il ruolo”.

Un respiro di sollievo? Beh, certo, si potrebbe sempre temere il peggio, ovvero un auspicio di liberalizzazione assoluta, sull’onda di un qualche conato digital-turbocapitalista… Conforta sapere che nessuno degli auditi ha messo in dubbio il servizio pubblico mediale!

Due punti essenziali emersi: si deve assicurare alla Rai certezza di risorse e stabilità di gestione. Si prospetta una tendenziale rinuncia alla pubblicità ed un consiglio di amministrazione in carica per cinque anni (a fronte degli attuali tre).

Il modello di riferimento è la Bbc – per autorevolezza forza indipendenza – non si può che condividere questa impostazione di fondo, ma, nel passaggio dalla teoria alla pratica, dalle belle intenzioni all’operatività quotidiana, una simile (saggia) decisione determina l’esigenza di una riforma del sistema mediale italiano.

La Rai ricava infatti dalla pubblicità circa un terzo delle sue risorse ed il Parlamento italico ha dimostrato di apprezzare – demagogicamente – la riduzione del canone Rai (tesi spesso ribadita sia da Matteo Renzi sia da Matteo Salvini): ma, se si vuole – realmente – assicurare alla tv pubblica risorse stabili, si deve intervenire con un finanziamento diretto per via normativa (legge che comunque è soggetta agli umori mutevoli del Parlamento), anzitutto per compensare i minori ricavi che deriverebbero dalla eliminazione della pubblicità. Nell’economia complessiva dello Stato italiano, non rappresenterebbe certo un problema significativo mantenere basso il canone ed integrare con un finanziamento diretto consistente.

Il problema è anche di complessivo approccio culturale al “public media service”: da decenni sosteniamo che la presenza della pubblicità disturba anzi inquina anche “semioticamente” l’immagine complessiva della Rai e disturba la sua politica editoriale e quindi l’offerta. Lo stesso Alberto Barachini (che è stato – merita essere ricordato – giornalista al servizio del Gruppo Mediaset dal 1999 al 2017, di cui è stato Caporedattore centrale e conduttore), ha sostenuto nell’articolo di ieri di Biondi sul “Sole”: “se la Rai insegue i target pubblicitari, si appiattisce sul modello della tv commerciale”. E nel documento si legge, non a caso, “di contro, è stato sottolineato che, se la Rai insegue i target pubblicitari o si appiattisce sul modello delle televisioni commerciali, l’identità del servizio pubblico rischia di sbiadire mettendo seriamente in dubbio il senso della propria esistenza”.

Bene, bravo, ma… quindi come si compensa – a livello di risorse – il prospettato venir meno della pubblicità?!

Nella “bozza” che abbiamo studiato, c’è anche un passaggio sconcertante: si legge “nonostante la presenza di emittenti televisive private che svolgono funzioni paragonabili a quelle previste dal contratto di servizio” (testuale, pag. 3).

Or bene, delle due l’una: chi ha redatto il documento ha inteso ammiccare ai broadcaster privati, oppure non ha letto il “contratto di servizio” vigente. Riteniamo più probabile – ahinoi – la seconda ipotesi.

Altra questione affrontata è il presidio dell’habitat digitale: RaiPlay (di cui non siamo entusiasti analisti, ma che pure iniziative meritevoli ne ha intraprese non poche) “non appare in grado di rispondere alla sfida di dotare l’azienda di un servizio autenticamente competitivo con le piattaforme Ott”. D’accordo, ma allora, che fare?! Ritiene il Parlamento di dotarla di risorse economiche adeguate per affrontare la sfida?!

Va segnalato “en passant” che l’offerta di RaiPlay è zeppa di pubblicità a livelli veramente insopportabili. Qualcuno si domanda: per la Rai, il limite di affollamento pubblicitario è notoriamente del 7 % per fasce orarie e del 12 % per ogni ora, ma la copiosa pubblicità che inonda la piattaforma streaming RaiPlay, come viene conteggiata? Ci sembra di capire che sfugga a qualsivoglia “vigilanza”, anche dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni – Agcom, dato che il web è mercato assai libero, anzi anarchico…

Non si dimentichi peraltro che la Direttiva “Sma” (alias “servizi media audiovisivi”) recentemente recepita nell’ordinamento italiano, ha previsto la riduzione dell’affollamento pubblicitario sulle reti Rai, che scenderà al 6 % dal 2023 dall’attuale 7 %, obbligo ora imposto ad ogni singolo canale (vedi “Key4biz” del 10 novembre 2021, “Direttiva “Smav”, ridotto l’affollamento pubblicitario Rai: -150 milioni di euro l’anno?”).

Prima di approfondire oltre, merita una qualche osservazione critica l’elenco dei soggetti “auditi”, nel corso di un anno: soltanto 10, nell’ordine (cronologico): Anica (Francesco Rutelli), Ebu (Noel Curran), Confindustria Radio Televisioni (Francesco Angelo Siddi), Apa (Giancarlo Leone), Mia (Lucia Milazzotto), Siae(Sergio Maria Fasano ed Andrea Marzulli), Italian Film Commission (Cristina Priarone), Banijay Group (Marco Bassetti e Paolo Bassetti), Agcom (Giacomo Lasorella), Stand By Me (Simona Ercolani).

Molti soggetti istituzionali pubblici e privati non sono stati auditi: nemmeno il Ministero della Cultura!

Si tratta di un “campione rappresentativo” del sistema televisivo italiano? Certamente no.

Selezionati come? Non è dato sapere.

Alcuni dei deficit nella consultazione: non sono stati ascoltati molti soggetti importanti e rappresentativi del sistema televisivo e mediale italiano, sia pubblici sia privati:

  • nessun dicastero in qualche modo “interessato” alla materia: dal Ministero per lo Sviluppo Economico – Mise, che pure è controparte della Rai nella stipula del “contratto di servizio” tra Stato e servizio pubblico (come è noto, è in corso la segreta gestazione del prossimo contratto, che varrà per il quinquennio 2023-2027, a partire dall’anno prossimo, mentre nessuno – nemmeno la Vigilanza – si è presa la briga di verificare se Rai è adempiente rispetto a quello vigente 2018-2022) al Ministero della Cultura – Mic (che pure ha avviato estemporanee iniziative come la controversa piattaforma web ItsArt), dal Ministero dell’Istruzione (Mi) e dell’Università e Ricerca (Mur) a quello per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale (Maeci); anche l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – Agcm, che pure forse qualcosina da dire in materia potrebbe averla, è stata ignorata;
  • nessuna associazione di autori, a parte la Siae, eppure ve ne sono varie, a partire dall’Anac per arrivare ai 100autori passando per Wgi
  • nessun esponente del sistema accademico, allorquando ci son state fior fiore di università che si sono appassionate alla materia: basti citare l’esperienza della “Pallacorda” sul servizio pubblico promossa da Scienze della Comunicazione dell’Università di Roma Sapienza, su iniziativa del professor Mario Morcellini (Commissario Agcom fino all’autunno del 2020);
  • nessun esponente del mondo della ricerca, allorquando ci sono più di un istituto specializzato che ha studiato scientificamente queste tematiche;
  • nessun esponente degli “stakeholder”, che sarebbero in fondo – sbagliamo?! – i telespettatori, ovvero i cittadini che pagano il canone (tutti, dato che esso è imposto nella bolletta dell’elettricità, e su questo tema pende una spada di Damocle di direttive europee, una cui interpretazione potrebbe determinare il superamento di quest’obbligo), eppure esistono organismi istituzionali come il Consiglio Nazionale degli Utenti (Cnu) e soggetti privati come l’Aiart;
  • nessun esponente della società civile, ovvero del terzo settore;
  • nessun esponente dei sindacati

E potremmo continuare.

Come si può porre l’accento sull’importanza di sostenere la produzione audiovisiva indipendente senza consultare almeno il Ministero della Cultura, che – attraverso il fondo per il cinema e l’audiovisivo istituito da Dario Franceschini (la legge n. 220 del 2016) – sovvenziona in modo robusto e determinante l’intera produzione nazionale, con un budget passato dai 400 milioni di euro anno della legge istitutiva agli attuali 750 milioni di euro?! Significa non conoscere i fondamenti dell’economia mediale italiana, ovvero come funziona la filiera.

E questa la si definisce una… “indagine conoscitiva”?!

Più che altro – come dire – un “bignamino” forse.

Non è stato promosso nessuno studio comparativo internazionale, allorquando l’indagine prevede ciò a partire dalla titolazione assegnatale: per il “riferimento al quadro europeo” è bastato 1 audito uno???

Di internazionale, emerge infatti soltanto 1 dei 10 auditi, ovvero la European Broadcasting Union (Ebu). Da non crederci.

Anche errori marchiani…

“E non a caso, ci sono anche errori più o meno marchiani.
A pagina 4 del documento, si legge “la pandemia ha inoltre reso ancor più evidente il valore e l’importanza per l’informazione della rete di sedi regionali e locali, di cui in Italia soltanto la Rai dispone”. Si dimentica che esiste un tessuto ancora abbastanza ricco (almeno in alcune regioni) di emittenti televisive regionali e locali private, e, se è vero che né Mediaset né Sky né la La7 hanno così articolate redazioni locali, questa è una caratteristica della Rai comune a tutti “psb” europei.

Ma la Commissione di Vigilanza ha cognizione che è “servizio pubblico” anche quello – per esempio – del solidissimo modello tedesco di Ard, consorzio di nove canali televisivi pubblici regionali, e finanche quello spagnolo della Forta (Federación de Organismos de Radio y Televisión Autonómicos) la rete composta da dodici enti pubblici radiotelevisivi delle comunità autonome della Spagna?! E la Commissione ha coscienza che, senza dubbio, le sedi regionali sono una ricchezza della Rai, ma al contempo un potenziale assolutamente inespresso?! E si dimentica che la stessa Bbc – più volte evocata come modello – ha una divisione giustappunto responsabile dell’offerta e dei servizi regionali e locali (Bbc English Nations and Regions)?! Boh.

Si legge nel documento: “da un lato, vi è il limite rappresentato dalla mancata produzione di contenuti originali per RaiPlay…”. Tesi errata, anche questa. Basti pensare a prodotti eccellenti come la serie “Mental” diretta da Michele Vannucci (prodotta da Stand By Me, fiction cui abbiamo dedicato attenzione su queste colonne: vedi “Key4biz” del 22 gennaio 2021, “Perché la riforma della Rai è finita nel dimenticatoio?”: scrivevamo che si trattava di “una grande opera spettacolare ed al contempo pedagogica. Questo è vero servizio pubblico”), che è stata realizzata offerta in esclusiva proprio per RaiPlay. E peraltro nell’audizione dell’allora Amministratore Delegato della Rai Fabrizio Salini, proprio di fronte alla Vigilanza, si legge che egli ebbe a dichiarare, il 24 dicembre 2020: “nella fiction, siamo il punto di riferimento del mercato, non solo abbiamo arricchito tipologie e generi di racconto, ma continueremo a farlo con nuovi titoli che seguono memoria, identità e innovazione. Lo abbiamo fatto anche con prodotti in esclusiva per RaiPlay”. La Commissione ha forse memoria corta?!

Perché poi, del mondo della produzione audiovisiva, siano state scelte due società che non sono più controllate da capitali italiani, è un vero mistero: Banijay Group è una società francese che controlla Banijay Italia (fatturato 2021 nell’ordine di 62 milioni di euro), e Stand By Me (fatturato 2021 di 20 milioni) è controllata al 75 % dal gruppo statunitense specializzato in strategie di investimento alternative Oaktree Capital Management e fa parte del gruppo paneuropeo a matrice francese Asacha Media… Veramente paradossale, anzi surreale.

Si segnala che il documento approvato a fine marzo dell’anno scorso prevedeva: “la Commissione di Vigilanza Rai ascolterà le associazioni di settore, le principali imprese italiane e straniere dell’audiovisivo, i principali gruppi editoriali, la Siae, l’Agcom e ogni altro soggetto che sarà ritenuto utile alla ricognizione, ed elaborerà entro sei mesi una Relazione conclusiva che potrà servire da base per gli interventi normativi che saranno ritenuti utili e necessari dal Parlamento italiano”.

A parte il termine temporale non rispettato (la Commissione ha impiegato 11 mesi invece di 6), non è stato “ascoltato” nessun “gruppo editoriale” e nessuna delle “imprese italiane” che pure la Commissione sembrava essere intenzionata ad audire. E ciò basti.

Completamente ignorata dalla Commissione di Vigilanza anche una delle più interessanti iniziative promosse dalla Rai, che nel marzo del 2020 ha dato vita alla Direzione Rai per il Sociale, per stimolare l’inclusione e la coesione sociale, raccogliendo le indicazioni, le sollecitazioni e le suggestioni del mondo dell’associazionismo e di tutte quelle categorie che chiedono attenzione e ascolto, facendone messaggio di coinvolgimento allo scopo di rafforzare il senso collettivo di appartenenza e comunità. Di grazia, questa dovrebbe essere una delle funzioni precipue del servizio pubblico, e, se si spingesse il piede su questo acceleratore, senza dubbio si migliorerebbe il profilo identitario della Rai, con una caratterizzazione ben precisa (e ben altra rispetto al “broadcasting” commerciale).

Una questione delicata: la “contabilità separata”, ma il vero problema è un “contratto di servizio” serio, con obblighi ben identificati ed adeguate controprestazioni (budget)

Scrive la Commissione (ovvero i co-autori del documento, Andrea Barachini e Andrea Romano) che la Rai “non dovrebbe trarre alcun indebito vantaggio commerciale dal proprio ruolo di servizio pubblico e dal conseguente finanziamento”.

Sottotesto: intendono forse tra le righe che la Rai attualmente tragga dall’assetto attuale un… “indebito vantaggio commerciale”?!

E propongono: “per questo serve, in primo luogo, un reale sistema di contabilità separata (nota del redattore: quello attuale è quindi forse… fittizio?!) che impedisca di utilizzare, direttamente o indirettamente, i ricavi derivanti dal canone per finanziare attività non inerenti al servizio pubblico generale radiotelevisivo, tra le quali andrebbero espressamente annoverate la produzione, l’acquisizione o cessione, la distribuzione o comunicazione al pubblico, sotto qualsiasi forma, di programmi che non costituiscono adempimento degli obblighi di servizio pubblico. Senza alcune correzioni necessarie, l’attuale modello di separazione contabile non assicura il pieno rispetto degli obblighi assunti a livello europeo onde evitare che il finanziamento al servizio pubblico sia considerato un “aiuto di Stato” in violazione dell’articolo 87 del Trattato istitutivo della Comunità europea, secondo quanto affermato anche dal Presidente dell’Agcom nel corso dell’indagine conoscitiva”.

Qui l’accusa è pesante: da ricercatori (che studiano queste materie da decenni), riteniamo che il problema della “contabilità separata” vada superato da una precisa definizione delle prestazioni (obblighi) e delle controprestazioni (budget) nell’ambito di un “contratto di servizio” che sia all’altezza del suo titolo, e non un documento… generico, fumoso, evanescente, come è stato finora.

Quello che deve essere “reale” è il “contratto di servizio”, in primis.

La produzione: quel che propone la Commissione sembra sotto dettatura dell’associazione dei produttori

Interessanti e valide le considerazioni in materia di produzione audiovisiva, anche se sembra che la Commissione abbia semplicemente fatto proprie le stranote tesi della potente Associazione Produttori Audiovisivi (Apa, ex Apt), allorquando denuncia la riduzione del budget destinato alla “fiction”, dai 190 milioni del 2020 ai 160 milioni del 2021: “una riduzione degli investimenti di circa il 20 % su base annua: una preoccupante tendenza al disimpegno del servizio pubblico sull’audiovisivo, che rischia di avere un effetto di trascinamento al ribasso anche per il 2022 e gli anni successivi”. Certamente condivisibile la critica al modesto budget assegnato ai documentari: “nonostante la creazione di una direzione ad hoc per i documentari, il budget assegnato a questo prodotto è stato finora del tutto inadeguato”.

Stimolante la richiesta in materia di formazione, correlata alla produzione: “il tema della promozione della produzione audiovisiva si lega anche a quello della formazione e della valorizzazione delle competenze che alimentano l’autorialità italiana. In questo senso, nel corso delle audizioni è stato espresso l’auspicio che la Rai, come editore televisivo e multimediale di servizio pubblico, riservi una voce di budget allo sviluppo di una linea d’intervento specifica per la formazione di autori nel settore dell’audiovisivo”. E viene ricitata Bbc, ed il suo dipartimento dedicato (Writersroom). In verità, qualcosa (qualcosina) Rai ha fatto in materia, in passato, ma effettivamente negli ultimi anni ha gettato la spugna.

In materia di produzione – senza aver ascoltato il soggetto direttamente competente (il Ministero della Cultura) – si sostiene che, “sul piano degli incentivi economici e fiscali, si potrebbe valutare un’estensione alle opere audiovisive del tax credit previsto dalla Legge 220/2016 (la legge Franceschini, n.d.r.) che attualmente esclude dai propri benefici le aziende che producono programmi di informazione e attualità” così come le imprese che producono “intrattenimento”. E si suggerisce di “estendere la misura del credito di imposta alla produzione ai format prodotti da produttori indipendenti”. Magari focalizzando in modo adeguato – però – il concetto di “produttore indipendente”, che attualmente in Italia è assai lasco…

Viene affrontato anche il tema della “tutela della proprietà intellettuale”, ed anche qui giunge forte l’eco delle tesi dell’Apa: insomma, Rai trattiene troppi diritti e toglie ossigeno ai produttori… E la Vigilanza guarda nuovamente alla Bbc: “si potrebbe ipotizzare di fare riferimento, ancora una volta, al modello della Bbc e, nello specifico, al “Code of Practice” che il servizio pubblico radiotelevisivo britannico ha introdotto nel 2018 con l’obiettivo sia di “valorizzare il proprio ruolo di strumento e stimolo allo sviluppo del settore dei produttori indipendenti … su basi di correttezza e trasparenza”, e sia di “specificare in modo trasparente il processo di affidamento, dare ai fornitori esterni informazioni chiare sui requisiti e affidare i programmi in appalto ai produttori indipendenti con modalità aperte e leali in considerazione della qualità e del prezzo delle rispettive proposte… Il protocollo varato dalla Bbc prevede, tra l’altro, che vi sia ampia pubblicità sul calendario pubblico delle trattative per il calendario di appalto, sul tariffario con prezzi indicativi per ogni genere audiovisivo e sui diritti acquisiti e i relativi termini di pagamento”. A fronte dell’attuale estrema discrezionalità della Direzione di Rai Fiction, queste tesi appaiono valide, così come il “benchmark” del “public service media” britannico.

Che la Rai si faccia carico dell’alfabetizzazione digitale

Tra le questioni che, secondo la Commissione, emergono dall’indagine, “l’esigenza che la società concessionaria si faccia maggiormente carico di un servizio che assuma sempre più i contorni di un servizio essenziale per la cittadinanza, ossia l’alfabetizzazione digitale, inteso come sviluppo non solo di abilità digitali ma anche di una più diffusa e più solida consapevolezza civica nell’utilizzo degli strumenti digitali”. Bene, bravi. Giusto, ma cosa si propone in concreto?! “Così, l’offerta obbligatoria della concessionaria dovrebbe arricchirsi di contenuti e format, ideati per una fruizione attraverso diverse piattaforme di comunicazione, dedicati all’innovazione digitale, allo sviluppo tecnologico, alla divulgazione della cultura informatica, alla disciplina giuridica del web, alla sostenibilità digitale”. In questo caso, la richiesta è chiara. Ed è certamente condivisibile.

Conclusivamente: una indagine così debole da essere inutile?!

Conclusivamente, questa “indagine conoscitiva” si dimostra assai debole: deficitaria, fallace, inconcludente.

In una parola: inutile. O comunque utile come può essere utile una tesina universitaria non particolarmente brillante.

In sintesi: si guarda alla Bbc, per molti aspetti, ma nessuno pensa di mettere mano al portafoglio.

Eppure l’indagine aveva ed ha (avrebbe) l’ambizione di rappresentare un “contributo alla legge di riforma del servizio pubblico radiotelevisivo, attualmente al vaglio del legislatore presso le competenti commissioni permanenti di Camera e Senato”. Modesto contributo, ahinoi.

Verrebbe quasi da dire che la Commissione di Vigilanza – conscia della propria funzione istituzionale – s’è sentita in dovere di intervenire, a fronte di una (tante volte annunciata) riforma della Rai (va segnalato che lo stato dei lavori parlamentari, in materia, ci sembra piuttosto… sonnolento). Ma, di fatto, senza intervenire granché, e semplicemente prospettando alcune ideuzze. Teoria allo stato puro, in totale assenza di analisi di scenario e studi di fattibilità delle deboli tesi avanzate. Pensiero debole, insomma.

Compitino svolto, funzione assolta?!

Nel comunicato sintetico di quel che è avvenuto ieri sera a Palazzo San Macuto, si legge: “è stato quindi avviato l’esame del documento dell’indagine conoscitiva, previa illustrazione da parte del Presidente, d’intesa con l’on. Romano. È stato fissato un termine di due settimane per formulare osservazioni e proposte di integrazione al testo”.

Sarà interessante verificare se i componenti della Commissione avranno voglia di “formulare osservazioni” e “proposte di integrazione al testo”.

Se quello prodotto ieri sera è lo “stato dell’arte” delle conoscenze e delle vocazioni dei nostri parlamentari, non si può che manifestare una profonda delusione: cognitiva, intellettuale, mediologica, e – conclusivamente – politica.

Clicca qui, per la bozza del “Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sui modelli di governance e il ruolo del servizio pubblico radiotelevisivo, anche con riferimento al quadro europeo ed agli scenari del mercato audiovisivo”, Commissione di Vigilanza Rai, Palazzo San Macuto, 22 febbraio 2022

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