Letto il titolo avrete sicuramente pensato: «Ma che c’azzecca?», per usare un’espressione informale e anortografica che era molto di moda qualche decennio fa. Qualche minuto di pazienza e lo scoprirete.
Penso ormai tutti sappiate che il nostro Paese, come molti altri in Europa, è impegnato nella messa in cantiere e nel varo di una congerie di progetti finanziati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), sostenuti da parecchie decine di miliardi di euro che riceveremo dalla Commissione Europea.
Osservo, en passant, che questi fondi sui quali c’è grandissima attesa sono sostanzialmente prestiti e, in quanto tali, andranno restituiti con delle condizioni che, dice qualche economista fuori dal coro, sono complessivamente per il nostro Paese più gravose di quelle che avremmo potuto ottenere rivolgendoci direttamente ai mercati e decidendo noi le priorità. Non è il mio settore, quindi mi astengo dal giudizio: il futuro ci dirà chi aveva ragione.
È anche generalmente noto che due priorità che la Commissione ha fissato sono quelle della transizione verde e della trasformazione digitale. Mi soffermo sulla seconda, data la mia competenza ed esperienza. Ho già espresso alcune riflessioni su come il nostro PNRR ha pianificato il processo di transizione digitale. Estendo adesso quelle considerazioni, nella speranza di far capire l’importanza di correggere la rotta su alcuni aspetti che ritengo fondamentali.
Questa onnipresente tecnologia digitale, che intermedia sempre di più tante relazioni umane, si presenta, davanti alla navigazione del nostro Paese nell’oceano della ripresa, come un iceberg (o un borgognone, come scrive Cesare Pavese nella sua spettacolare traduzione del Moby Dick). Ne vediamo la parte emergente, quella costituita, come illustrato nella figura sottostante (un mio adattamento di un’idea di Simon Peyton-Jones), dalle applicazioni che ormai praticamente tutti usiamo quotidianamente.
La nostra Nave sta cercando di affrontarla e superarla, ma sta, in buona sostanza, facendo attenzione solo ciò che si vede davanti agli occhi, focalizzandosi sull’insegnare a tutti le competenze operative. Operazione indispensabile, ma che da sola non è sufficiente, sul lungo periodo, soprattutto perché gli strumenti in questo settore cambiano molto velocemente.
Trascurare ciò che sta sotto la superficie, lo sviluppo della tecnologia informatica, compito generalmente svolto dagli ingegneri – che trasformano le idee in realtà, ci porta a non possederne il controllo, col risultato che se poi dispositivi e sistemi deviano dal comportamento previsto, perché chi li ha realizzati lo ritiene opportuno per i suoi scopi, siamo costretti ad adeguarci o a subire costi non secondari per passare ad usarne altri. Abbiamo quindi bisogno di formare chi sappia progettarli e costruirli, sulla base delle nostre esigenze, e di influire sulle direzioni di sviluppo.
Trascurare, inoltre, ciò che è alla base di tutto, cioè la conoscenza diffusa dei concetti fondamentali – che sono enormemente più stabili di ciò che si vede galleggiare, fa sì che i cittadini non siano pienamente consapevoli di tutti gli aspetti in gioco nella società digitale e non riescano a partecipare attivamente alla sua evoluzione. Come effetto consequenziale, ma non per questo meno rilevante, ne risulta un numero insufficiente di studenti, ed ancora di più di studentesse, che decide di proseguire gli studi all’Università nei settori scientifico-tecnologici dell’informatica.
È un aspetto questo che, ormai quasi una decina di anni fa, gli Stati Uniti hanno capito perfettamente. Nel 2014 l’allora presidente Obama girò il video che esortava tutti gli studenti americani ad imparare l’informatica «per mantenere il Paese all’avanguardia». Da quel momento, tutti e 50 gli Stati USA hanno implementato politiche miranti a diffondere nella scuola lo studio dell’Informatica. Sottolineo che la materia che è stata introdotta non è il coding, cioè la semplice programmazione dei calcolatori, ma proprio la computer science, la disciplina scientifica che noi chiamiamo informatica, che loro ritengono essenziale per costruire un’educazione bilanciata ed adeguata al XXI secolo. Per questo, l’hanno messa sullo stesso piano delle discipline più tradizionali, quali la madrelingua, la matematica e le scienze. I risultati stanno arrivando. Ormai nel 30% delle scuole elementari di tutti gli stati USA si insegna l’informatica (ricordo che è una decisione di competenza di ogni singolo stato) ed il numero delle ragazze che scelgono, alla fine della secondaria, l’esame AP di informatica (che è un indicatore attendibile dell’interesse verso la disciplina negli studi universitari) è raddoppiato.
Formare le persone nella cultura scientifica che è alla base della trasformazione digitale è un fattore strategico per qualunque nazione. La vitalità ed il successo di un paese democratico in un futuro sempre più digitale dipenderanno in larga misura dal livello di cultura informatica dei suoi cittadini. Gli Stati Uniti l’hanno capito.
Sappiamo tutti, dalla sfortunata vicenda del Titanic – appunto – come rischia di andare a finire per il nostro Paese se non facciamo attenzione a ciò che sta sotto la superficie.
Ne parlerò martedì 30 novembre nella relazione invitata “Cittadinanza nello Stato digitale” che terrò al Politecnico di Torino per l’apertura della 13° Conferenza del Nexa Center for Internet and Society. Se volete saperne di più potete seguire la conferenza online.
(I lettori interessati potranno dialogare con l’autore, a partire dal terzo giorno successivo alla pubblicazione, su questo blog interdisciplinare.)