L’incontro di ieri alla Trump Tower dei grandi imprenditori americani con il neo presidente potrebbe rivestire un rilevo storico non marginale.
Nella delegazione delle aziende anche il nucleo storico della Silicon Valley che andava a Canossa dopo il prevalente ed evidentissimo tifo fatto per l’avversario del presidente eletto.
Trump, non solo aveva in mano la spada di Brenno del vincitore, ma poteva esibire anche una superiore capacità dimostrata nell’uso dei big data, rispetto persino ai padroni dei data.
Proprio questa superiorità, che ha permesso al debuttante candidato di convincersi prima, e di convincere poi, che poteva vincere, era la conseguenza di un approccio all’intera politica tecnologica che potrebbe riservare soprese a tutto il mondo.
Trump si trova infatti nell’inedita e sorprendente ruolo di un miliardario reazionario che scopre il potere e l’ebrezza della politica democratica come strada per conquistare il mercato.
Un’ebrezza molto simile a quella provata venti anni fa da un imprenditore televisivo milanese che si immerse in quel gorgo per difendere il proprio patrimonio, ed oggi si trova a vedere proprio le Istituzioni che aveva conquistato essere l’ultimo baluardo per difendere quel patrimonio dai sussulti del suo mercato.
Trump ha ingigantito questo fenomeno. Diventando il terminale dell’intera filiera di economia matura, i segmenti ancora legati alla materialità industriale e fordista, assediati e minacciati dalla cavalleria digitale immateriale. Per la prima volta si ribalta, apparentemente la metafora dei mulini di Carlo Marx, che spiegava a Proudhon che la storia era soprattutto storia delle innovazioni del capitale “con il mulino ad acqua avrai la società medievale, con il mulino a vapore la società industriale”. Il Mulino digitale si trova oggi in ostaggio ai vecchi mulini a vapore.
In realtà pensiamo che sebbene lo l’abbia letto, ma non si può mai dire, Donald il Biondo si stia comportando proprio come la lezione marxista impone: raccogli gli interessi sociali più in sofferenza e connettili ai punti alti dello scontro per costruire una base di consenso sufficiente a strappare il governo.
Berlusconi congiunse le rendite ex democristiane del Sud, con gli impulsi autonomistici del Nord e usò il liberismo individualista che soffiava già nel mondo come motore elettorale contro la sinistra già irrigidita dalle ruggini post sovietiche.
Trump ha connesso gli spiriti selvaggi dei vecchi monopolisti fordisti, con le rendite petrolifere e immobiliari, usando il nazionalismo del lavoro come megafono per raccogliere i voti di massa della classe media bianca e mettere nell’angolo i globalisti della Silicon Valley.
Grazie a questa strategia ha potuto meglio leggere i dati della Rete, misurando la plausibilità della sua scommessa, e costruendo un mosaico di consensi implacabile.
Ma come Berlusconi rischia di rimanere vittima di una brillante strategia elettorale che non riesce a diventare una praticabile politica di governo. Troppo soffocanti le contraddizioni nel blocco dei vincitori.
Dalle prime mosse sembra che voglia imboccare la scorciatoia proprietaria, disegnando una mappa dei patrimoni e delle imprese che possano ricostituire una certa forza economica del sistema americano, producendo lavoro, e consumo e rafforzando il dollaro.
Una strategia troppo acrobatica, che potrebbe funzionare solo se riesce a declinare l’efficienza dei settori industriali maturi (energia, siderurgia, auto, e infrastrutture) con una nazionalizzazione della cavalleria digitale.
In questa manovra risiede anche la sua relazione sospetta con la Russia di Putin, infatti è proprio da Mosca che viene il modello di una militarizzazione dei segmenti tecnologici, che funzionano come locomotori dell’intero sistema russo, e anche, come truppe di conquista dei mercati all’estero. Ma soprattutto come forza deterrente e di pressione sulla scena politica globale, come gli americani hanno denunciato, parlando di interferenze nelle elezioni presidenziali da parte degli hacker russi.
Siamo forse ad un tornante epocale: il partito di Trump, che non coincide con i repubblicani, punta a costruire un apparato industriale scientifico, tecnologico che, non so quanto consapevolmente, riproduca la potenza del vecchio combinato industriale militare sovietico, nazionalizzando gli algoritmi della Silicon Valley.
Facebook e Google sono disponibili ad arruolarsi nei marines? Sono pronti e capaci di ricondurre le proprie strategie globali agli interessi di Trump e dei suoi alleanti, deponendo le ambizioni di grandi agenzie mondiali della mobilità e della comunicazione? Questo è il nodo che si cerca di sciogliere nella Trump Tower: ricostruire attorno all’idea di un algoritmo nazione, un potere declinante degli USA.
Un’idea che vulnerabile proprio perché basata sull’imitazione di un modello estraneo e meno dinamico di quanto la realtà digitale americana ormai sia.
Sarebbe infatti la prima volta nella storia americana che il Paese si trova a costruire la propria potenza sulla subalternità ad una cultura esterna. Questa politica di Trump dell’algoritmo nazione potrebbe solo offrire ai suoi avversari democratici l’opzione di una vera rivincita: affermarsi come il vero partito di una nuova egemonia americana proprio difendendo il ruolo trasversale e immateriale delle potenze in Rete, e respingendo l’idea di una Silicon Valley che assomigli a un Cremlino a stelle e strisce.
In fin dei conti quello che accadde con Berlusconi: il centro sinistra lo costrinse a passare dalla libertà al liberismo.
Riducendone seduzione e convenienza nei confronti la sua base popolare.