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Credo che il servizio pubblico, anche nel nuovo ambiente multicanale e multimediale e nell’esperienza della rete, debba costituire una bussola di riferimento: sia per una professione, quella del giornalista, sempre più bisognosa per la sua stessa sopravvivenza di essere guardata in termini di servizio ai cittadini, sia per le funzioni sociali di intrattenimento e di creatività narrativa che sono strumenti di educazione permanente.
Un sistema dei media di buona qualità è di importanza pari alla stessa scuola, perché insieme, nell’ambiente globalizzato, costituiscono veri punti di forza e di debolezza di un paese, della sua lingua, della sua immagine pubblica.
L’Europa riconosce e tutela il ruolo del servizio pubblico radiotelevisivo, che fa parte della sua storia e della sua cultura; molte grandi potenze si tengono ben stretti i loro servizi pubblici, magari in modo molto discutibile.
Negli Stati Uniti la missione di servizio pubblico per decenni è stata svolta da una iniziativa privata sensibile e governata, anche dalle agenzie federali; e ora l’equilibrio incerto si è spostato alla governance della rete.
In Italia, la diffusione non regolata della TV commerciale e l’entrata in politica del suo leader hanno accentuato i meccanismi di distorsione presenti a livello globale. Da una parte il servizio pubblico radiotelevisivo è stato percepito da molti come un ostacolo alle necessarie liberalizzazioni.
Da un’altra parte la sua occupazione da parte della politica ne ha fatto strumento di prima linea nello scontro delle parti. Ne è scaturita una accentuazione della sua missione “pluralistica”, a volte concepita non più come rispetto delle opinioni ma come esaltazione di un bisogno diffuso di “resistenza”; e ciò ha favorito le voci estreme e meglio litiganti. Parallelamente si è affievolita la missione orientata al dialogo, alla pace e alla coesione sociale.
Vediamo anche una attenzione insufficiente, da parte della politica italiana, verso gli assetti della comunicazione e della informazione per quanto riguarda gli effetti a medio e lungo termine sul paese. È indispensabile guardare ai fenomeni di trasformazione nel mondo della comunicazione con sguardo lungo, e non pensando ai vantaggi immediati in termini elettorali.
È apparso evidente, negli ultimi anni, il fallimento della visione che pretende di distinguere nella produzione della azienda Rai gli aspetti di servizio pubblico finanziati dal canone e quelli commerciali finanziati dalla pubblicità: tutta la produzione Rai, anche quella di intrattenimento, deve essere sottoposta alla logica del servizio al pubblico. L’organizzazione dell’offerta va ripensata sottraendola alla logica delle aiuole di parte. Il “canone in bolletta” può essere la strada per stabilizzare le risorse pubbliche, ridurre e rendere equo il prelievo, e limitare il condizionamento della pubblicità.
La recente legge sulla governance aziendale ha risolto un problema immediato, rendendo possibile – anche se non ne garantisce la correttezza – una profonda e necessaria opera di destrutturazione e ristrutturazione della Rai, il più possibile libera da condizionamenti lottizzatori.
Tuttavia, queste norme non garantiscono la Rai da future volontà liberticide della politica, e di questo si dovrà tenere conto.
Non sono più accettabili le logiche di contrapposizione ideologica interna. Il pluralismo va difeso ovunque e in ogni momento, senza sperare che emerga miracolosamente dalle contrapposizioni.
Le testate informative devono essere unificate perché il servizio pubblico, ora più che mai, deve essere inteso dai cittadini in una prospettiva di unità nazionale, e perché un segnale di discontinuità è necessario per la stessa credibilità della Rai, oggi pericolosamente appaiata a quella della politica.
Parallelamente l’azienda deve essere organizzata per competenze produttive, orientate alla crossmedialità, distinguendo il compito di gestire i palinsesti; e deve credere nel rapporto con il territorio anche per saldarne le diverse identità al comune sentire nazionale e europeo.
La ricostruzione delle competenze professionali e della cultura del servizio pubblico gioverà alla società italiana e al suo sistema di industria culturale. La misurazione e l’incremento della qualità, la internazionalizzazione dei prodotti, la valorizzazione delle forze creative interne e esterne devono essere punti di forza di questa svolta.
Le prassi burocratiche di rigidità e divisione dei ruoli e delle carriere, anche per autodifesa dalle pressioni esterne, hanno penalizzato la circolazione delle idee e degli uomini dentro e fuori l’azienda. Occorre trovare il modo di garantire l’equilibrio dei conti, il rispetto delle norme e, parallelamente, la vivacità degli apporti creativi.
Infine, il dibattito previsto dalla legge di riforma sugli obblighi futuri della concessionaria del servizio pubblico deve essere vissuto non come scadenza burocratica, ma come occasione rilevante per ripensare la missione e la cultura aziendale della Rai. Quindi è la stessa Rai a doversi mobilitare, ben oltre quanto sta accadendo, per coinvolgere i cittadini in questa riflessione.