Quel che è accaduto durante la puntata dello show di Rai2 “Realiti” (mercoledì scorso 5 giugno) è sintomatico di alcune patologie del sistema mediale italiano, e il dito d’accusa non può non essere rivolto verso i vertici di Viale Mazzini: come è noto, due cantanti neo-melodici, il 19enne Leonardo Zappalà (detto “Scarface”) presente in studio, e Niko Pandetta (detto anche King ovvero Leone di Cibali, dal nome di un quartiere di Catania, nonché Tritolo), nipote 27enne del boss ergastolano Salvatore Cappello, hanno manifestato pareri insultanti nei confronti dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
In particolare, Leonardo Zappalà, riferendosi ai magistrati uccisi nel 1992, ha detto: “queste persone hanno fatto queste scelte di vita… le sanno le conseguenze. Come ci piace il dolce, ci deve piacere anche l’amaro…”.
L’affermazione in questione – ed altre dello stesso calibro – ha scatenato polemiche a catena: il conduttore Enrico Lucci ha dichiarato di aver cercato di contrastare le tesi dei due filo-criminali (“davanti a me non c’era mica Riina, ma un pischello, gli ho detto di studiare…”), il direttore di Rai2 Carlo Freccero si è scusato ma ha subito rivendicato che la sua rete ha una precisa linea editoriale “anti-mafia” (e domani sera trasmetterà finalmente il controverso film di Sabina Guzzanti, “La trattativa”, congelato da anni negli archivi delle teche Rai)… Anche l’Amministratore Delegato Rai Fabrizio Salini ha manifestato a chiare lettere le scuse aziendali: “chiediamo scusa ai parenti di Falcone e Borsellino, ai familiari di tutte le vittime della mafia e ai telespettatori”. Però non basta: il problema è altro, e va oltre lo specifico episodio. È una questione afferente alla miglior interpretazione (complessiva) del concetto di “servizio pubblico”.
Il programma “Realiti” è stato comunque spostato, nell’edizione odierna, in seconda serata, e sarà in versione registrata, onde evitare… “i rischi” della diretta. E nel mentre anche la Procura di Catania ha aperto una inchiesta, per ora senza indagati, sull’accaduto, su iniziativa del Procuratore Aggiunto Carmelo Petralia: ci auguriamo che l’inchiesta porti qualcuno sul banco degli imputati, perché questi ammiccamenti alla mafia – ed in generale alla cultura del crimine – sono veramente intollerabili.
Niko Pandetta, durante l’intervista a “Realiti”, ha mostrato fiero i suoi tatuaggi e ha raccontato i suoi anni di detenzione, per rapine e spaccio di droga, segnalando con affetto che è lo zio detenuto (Salvatore Turi Cappello, boss dell’omonima famiglia mafiosa), condannato al regime di detenzione dura del “41-bis”, ad aver ispirato le sue canzoni (“io canto versi dello zio boss”). Ha pure simpaticamente rivelato di aver prodotto il proprio cd con i proventi di una sua rapina.
Va anche segnalato che l’incredibile vicenda sarebbe forse passata quasi inosservata, se non avesse contribuito darle corpo un post su Fb di Paolo Borrometi, giornalista da anni sotto scorta per le sue inchieste contro le mafie (nonché Presidente della pugnace associazione Articolo21).
L’episodio merita infatti essere analizzato non nella sua “occasionalità”, perché un “errore” simile determina conseguenze non indifferenti: produce ulteriore sedimentazione di una deleteria tolleranza strisciante. E ciò va oltre lo share della specifica trasmissione, che è stato modesto (2,5 %), registrando certamente non masse oceaniche di spettatori (circa 430mila telespettatori).
Il problema di fondo è la quantità e la pervasività di messaggi di “tolleranza” (se non di simpatia) nei confronti di questi comportamenti criminali-criminogeni: il caso idealtipico è la serie televisiva “Gomorra” (produzione Sky Italia e Cattleya), apprezzabile nella sua forma creativa, censurabile per i valori che “involontariamente” finisce per trasmettere e per l’emulazione che stimola (almeno in una parte della propria audience, il terreno di coltura dei giovani aspiranti criminali). Ne abbiamo già scritto su queste colonne (vedi “Key4biz” del 9 maggio 2016, “Sky presenta ‘Gomorra 2’, eccellente fiction Made in Italy”), ed in particolare manifestavamo perplessità su quell’“affrancamento dalla morale” teorizzato da Roberto Saviano in nome della libertà dell’arte…
Perché si deve costruire un immaginario collettivo positivo
Il problema di fondo è la costruzione di un “immaginario collettivo” positivo che sia in grado di proporre una interpretazione critica dei fenomeni criminali: questa costruzione dovrebbe essere promossa anzitutto dal servizio pubblico radiotelevisivo. Il che non avviene. Il che non è avvenuto nel corso degli anni. Ovvero non è avvenuto e non avviene in quantità / qualità adeguata alla sfida in atto.
Sia ben chiaro: nessuno contesta alla Rai il merito di aver realizzato iniziative eccellenti per stimolare una “cultura antimafia” (o, su altro fronte, contro le discriminazioni), ma esse sono state ed ancora sono in quantità insufficiente rispetto alla necessità di proporre (opporre) un flusso informativo e narrativo che contrasti quella sostanziale acquiescenza nei confronti di forme sub-culturali che finiscono per tollerare (se non ammiccare verso) comportamenti criminali.
Scrivevamo qualche mese fa, segnalando un bel film contro la ‘ndrangheta come “Liberi di scegliere” (per la regia di Giacomo Campiotti), trasmesso da Rai1 in prima serata, che si trattava di un “apprezzabile ma ancora timido tentativo di Viale Mazzini di contrastare culturalmente prodotti come ‘Gomorra’” giustappunto (vedi “Key4biz” del 22 gennaio 2019, “La Rai presenta il film ‘Liberi di scegliere’, bene ma serve serialità”).
Quel che riteniamo manchi è uno “spirito informatore” complessivo del servizio radiotelevisivo pubblico, che proponga – sempre e non occasionalmente – visioni critiche della realtà, che contrastino il conformismo dominante. ogni atteggiamento distratto dell’opinione pubblica.
Il deficit riguarda certamente anche un’agenzia di socializzazione fondamentale qual è la scuola: anche in questo caso, è indubbio che il Ministero per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca promuova iniziative commendevoli (pensiamo ai bandi Miur su educazione alla cittadinanza attiva ed al “piano nazionale per la promozione della cultura della legalità”), ma anch’esse sono poche, sporadiche, occasionali e non “informano” il sistema scolastico (e la sua complessiva trasmissione di valori) nel suo insieme.
Il sistema mediale e culturale italiano riesce a produrre in sé una qualche “energia critica”, anche narrativamente, ma il problema è che essa finisce per essere marginale, quasi “di nicchia” nella sua occasionalità e frammentarietà, rispetto ad un dominante flusso “mainstream”, che propone informazione spesso passiva e narrazione spesso neutra rispetto ai comportamenti criminali.
Questo passivo approccio nefasto finisce per divenire amorale, perché stimola tolleranza, accettazione, remissività, e quindi acquiescenza e – alla fin fine – cedimento morale.
Il “patologico” finisce per divenire “fisiologico”, nella macchina isterica della spettacolarizzazione continua del sistema mediale: la debordiana “società dello spettacolo” indebolisce anche il “senso dello Stato”.
Le energie per contrastare questi fenomeni sono ancora troppo limitate e deboli: e, se la Rai ed il Miur riescono a fare poco, non ci sembra peraltro di aver registrato, nel corso degli anni, iniziative significative di sensibilizzazione da parte dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, se non in rarissimi casi (da ultimo, in occasione dell’intervento Agcom contro i “discorsi d’odio”, vedi “Key4biz” del 5 giugno 2019, “L’Agcom presenta il regolamento contro l’hate speech. Ma senza sanzioni non è efficace”).
E certamente non basta, su queste tematiche, qualche alto monito e severo richiamo – pur sempre apprezzabile, ovviamente – del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella…
Perché certe presenze sono in tv?
Ci si domanda anche che ruolo svolgono i servizi di “intelligence” nazionale, su queste tematiche delicate e strategiche: Possibile che nessuno sapesse che in una trasmissione Rai fossero stati coinvolti due “neomelodici” filo-criminali?! Così come avvenuto qualche anno fa, in occasione della famigerata quanto ignobile puntata di “Porta a Porta”, condotta dall’immarcescibile Bruno Vespa, che vide ospite addirittura il figlio di Totò Riina (anche lui condannato per mafia).
Nessuno ne aveva notizia, nell’apparato complessivo del Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica Italiana, ovvero Aisi – Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna in primis?! C’è qualcuno, in quelle oscure lande, che ogni tanto getta un occhio (discreto ma vigile) su quel che avviene in Rai?!
Possibile che le dirigenze del servizio pubblico non abbiano antenne attente ad intercettare il rischio di simili operazioni, da parte di quella che – volens nolens – resta la principale “industria culturale nazionale”?!
E che dire di un fenomeno cui nessuna “agenzia” istituzionale sta prestando attenzione, ovvero il crescente successo della sub-cultura “rap” (o “trap” che sia) in Italia!?
Nessuno (o quasi) sembra porsi il problema del “sistema valoriale” di questi cantanti, che finiscono per influenzare in modo determinante l’immaginario giovanile, adolescenti e finanche infanti. Qualcuno, a viale Mazzini o a viale Trastevere, ha chance di ascoltare in modo accurato e metodico, ovvero studiare ed analizzare, i “valori” che vengono veicolati da questa musica, che sempre più spazio ha nelle trasmissioni radiofoniche, televisive, e nella fruizione multimediale dei giovani?!
Nessuna vocazione censoria – sia ben chiaro – ma soltanto l’esigenza di uno Stato che sappia proporre una lettura critica di alcuni fenomeni “di mercato”: e chi può farlo, se non Rai e Miur, ovvero il servizio pubblico radiotelevisivo ed il sistema scolastico pubblico?
Abbiamo denunciato trattato la questione su “Key4biz” (vedi l’edizione di questa rubrica “ilprincipenudo” del 14 dicembre 2018, “Anastasio vince X Factor 2018, qualche perplessità sociologica sulla canzone e sui rapper italici”), ma purtroppo non ci sembra che il nostro modesto contributo abbia registrato una qualche significa attenzione istituzionale. Ed esiste una connessione – ovviamente – nelle culture giovanili (e non soltanto) tra sub-culture musicali e sub-culture audiovisive e digitali…
Deficit attenzionali della nostra Intelligence a parte… Si ha l’impressione che in Italia le azioni “a contrasto” di una cultura troppo “tollerante” e permissiva sono poche ed insufficienti, e raramente ottengono il sostegno che meritano: in questi giorni, nelle sale cinematografiche italiane, circolano due film lungometraggi che meriterebbero essere teletrasmessi in prima serata e prima ancora proiettati nelle scuole (ovviamente accompagnati da opportune interpretazioni e da dibattiti critici), ovvero “A mano disarmata” di Claudio Bonivento e “Selfie” di Agostino Ferrente.
Il primo propone una ricostruzione (cinematograficamente purtroppo non particolarmente riuscita, a parer nostro) della dolorosa vicenda di Federica Angeli, la coraggiosa giornalista del quotidiano “la Repubblica” che ha tra l’altro scoperchiato il marciume criminale che caratterizzava il litorale di Roma (a lei, sotto scorta da anni, si deve l’inchiesta ha portato all’arresto di esponenti del “Clan Spada”). È tratto dal libro autobiografico della Angeli, edito da Baldini+Castoldi. Il film è una produzione Laser Digitale Film con RaiCinema, e quindi ci si augura che venga presto trasmesso da Viale Mazzini.
Il secondo (che utilizza una tecnica narrativa innovativa, quasi tutto girato in modalità “selfie” con uno smartphone) è un documentario di creazione che racconta la vita quotidiana di due adolescenti in una zona periferica di Napoli, il quartiere Traiano, due bravi ragazzi (nel senso veramente positivo dell’espressione) che hanno deciso di non assecondare le scelte criminali di molti loro coetanei. Anche questo film, prodotto da Gianfilippo Pedote per Casa delle Visioni, vede la partecipazione produttiva di RaiCinema, e quindi speriamo di vederlo presto sui teleschermi, magari però non in seconda o – peggio… – terza serata su Rai3.
“A mano disarmata” è attualmente proposto in 202 sale cinematografiche in tutta Italia, mentre “Selfie” è attualmente offerto soltanto in 15 cinematografi: entrambe le opere, a fine tenitura, conquisteranno complessivamente poche migliaia di spettatori (appassionati di cinema e cittadini attivi), mentre ben altro target potranno potrebbero raggiungere, se verranno venissero adeguatamente rilanciate dalla Rai. Sicuramente, comunque, nelle sale cinematografiche non raggiungeranno la soglia di quei 400mila telespettatori dell’incriminato programma “Realiti”…
Sono entrambe due validi esempi di opere di impegno civile che meritano attenzione, ma non basta l’apprezzamento di un qualche critico cinematografico o di un qualche esponente di associazioni della società civile.
La Rai suddita dell’audience?
Insomma, non basta la “foglia di fico” di una trasmissione occasionale o marginale sulle reti Rai: in questo senso, va denunciato che trasmissioni come “L’ora di legalità”, l’ultimo interessante programma dell’appassionato Loris Mazzetti, in onda dal 5 maggio su Rai3, non possono essere messe in onda alle ore… 23.45 (e non basta nemmeno che le cinque puntate, dal 1° giugno, siano ritrasmesse in replica, sempre su Rai3… alle 13). Questa logica di palinsesto è scandalosa, per un “player” come Rai, un’emittente che non deve essere suddita dell’audience e del marketing.
La logica della auto-emarginazione nelle fasce sepolcrali del palinsesto deve essere superata, a favore di un indirizzo editoriale Rai che sia forte, deciso, radicale: che spiazzi coraggiosamente il conformismo attuale dei palinsesti.
E Rai3 non deve certo divenire il “Wwf” della cultura di impegno civile della televisione pubblica.
Come abbiamo già scritto su queste colonne, serve – insieme ad uno spirito informatore complessivo di “servizio pubblico” – anzitutto una “serialità” televisiva che promuova i valori della legalità, dell’accettazione delle diversità: una…anzi molte fiction che siano all’altezza – espressivamente – di una serie come “Gomorra” (non si può contestare che si tratti di un’opera audiovisiva accattivante, ovvero seducente) e ne contrasti la sua malata Weltanschauung: in altre parole, serve una “produzione industriale” – sia consentita l’espressione – di opere culturali che contrastino il dominio del male.
Come ha sostenuto giustamente Paolo Borrometi: “attenzione, non sono per censurare nessuno, neppure i delinquenti. Il problema sta nello spazio che gli offri, nelle domande che gli fai e nel contraddittorio. Pandetta è un delinquente che non va ospitato in tv senza ricordargli le responsabilità sue e dello zio capomafia”.
La cultura iper-liberista del capitalismo digitale produce un’offerta travolgente quanto anarchica, ed il complessivo sistema valoriale di una società (che vorremmo democratica, plurale ma coesa, e si pensi anche a quella “coesione sociale” invocata anche dal “contratto di servizio” tra Stato e Rai) va in malora: il senso stesso di “comunità” viene messo in discussione da un policentrismo contro-valoriale che tende ad “azzerare” le differenze tra “il bene” ed “il male”.
Lungi da noi proporre un approccio moralistico-censorio, ma riteniamo che la società debba essere difesa da questa continua fluviale e debordante narrazione di comportamenti criminali ed incivili, che finiscono per indebolire il “senso dello Stato”, ovvero l’importanza fondamentale della comunità sociale interpretata dalle istituzioni.
Si tratta di fatto di uno scontro tra “Stato” e “Mercato”: e noi continuiamo a credere che le ragioni del primo debbano prevalere sulle ragioni del secondo, senza toccare la sacrosanta libertà di espressione (e… di mercato). E ci piacerebbe vedere sia Rai sia Miur – ed altre istituzioni ancora – impegnate in modo più deciso su questo fronte.