Le polemiche che accompagnano una banale operazione di legalità, come quella di trovare il sistema di far pagare il canone a tutti, fanno intendere come la RAI fatichi oggi a condividere con i suoi utenti finali ed intermedi la sua missione di servizio pubblico.
Perché è ancora oggi così importante avere un servizio pubblico forte e rilevante in paesi, come l’Italia, sempre più affollati di canali e proposte audiovisive?
La domanda con cui Flavia Barca ha avviato questo dibattito sul futuro della RAI, ci sta inseguendo da almeno 7 lustri, impegnando settimanalmente, l’intera allegra brigata di convegnisti sul futuro della televisione, che da parecchio tempo vive, nemmeno male devo dire, scrutando la sfera di cristallo.
E mentre noi scrutiamo, il futuro diventa presente, e tende a fuggire nel passato, sconfortando ogni nostro week end.
Devo confessare che non mi hanno mai convinto né le risposte basate solo su logiche industrialiste, legate ai fattori produttivi e di scambio nell’attuale mercato audiovisivo, né quelle, per contro, basate su inafferrabili criteri di qualità dei contenuti.
In sintesi, la tesi che proverò a giustificare è quella di una RAI come agenzia pubblica di selezione e abilitazione di linguaggi e standard digitali, piuttosto che edicola di messaggi.
Una fabbrica di algoritmi e non un’accademia di raccontatori.
Un indirizzo che vedo battuto da due grandi e analoghi servizi culturali, come la BBC inglese e il sistema mediatico vaticano. Entrambi si stanno ponendo innanzitutto il tema di come governare sovranamente i processi di automatizzazione dei linguaggi, più che trovare modelli narrativi suggestivi.
In questi 25 ultimi anni, il contesto della comunicazione audiovisiva è cambiato vorticosamente, e con esso la possibile mission da dare a Viale Mazzini, vista sempre in termini compensativi rispetto ad un’insorgenza.
Negli anni ’80 era l’avvento della Fininvest di Berlusconi ha dare alla RAI il ruolo di equilibratore delle mire totalitarie private; poi l’espansione della pay–TV, affidò al servizio pubblico il ruolo di garante di un’offerta gratuita; infine la convergenza multimediale chiedeva un’interpretazione originale ad un gruppo multimediale italiano.
Oggi lo scenario è la frammentazione delle platee sul piano sociale, e il predominio delle piattaforme su quello tecnologico. Passiamo dalle news diffuse per profilazione di utente di Instant Articles di Facebook, alle sbornie di Binge Waching di grappoli di serial e fiction in sequenza, propinate da Netflix e Sky Box.
Veri shock che configurano comportamenti sociali e modelli di percezione linguistica nell’assoluta assenza di competitor italiani.
Tutte le proposte puramente oppositive non hanno mai risolto il problema della nuova identità che l’azienda pubblica sta cercando da quando perse il suo monopolio.
Proporzionalmente all’inconcludenza di questa ricerca, si è approfondito il divario che dall’inizio degli anni 80 ha cominciato a separare l’azienda del cavallo dai suoi utenti.
Moimer Znamer, storico dirigente della televisione pubblica canadese, spiegava che il cambio copernicano del digitale per la Tv era legato al fatto che mentre prima, nel analogico, in uno scenario segnato dalla penuria di contenuti e tecnologie, decideva chi parlava in TV, ora, in uno scenario invece dell’abbondanza, come quello in cui ci troviamo da qualche tempo con il digitale, decide chi ascolta.
Questo è lo shock che sta riclassificando il mercato della comunicazione, da cui molti mediatori non si sono ancora riavuti. Come dimostra anche l’apparente banale incidente di capodanno di Rai 1. Al netto della pacchiana trovata di anticipare l’orario del nuovo anno, la vicenda dell’imprecazione sacrilega andata in sovraimpressione sulla videata che riportava gli sms degli spettatori, dimostra, ancora una volta, come i due mondi – la lenta Tv e la frenetica rete – non sono accostabili semplicemente con uno switch di regia.
Quello che abbiamo alle spalle è un salto culturale e politico radicale, che costringe l’idea di servizio pubblico, in ogni settore, dalla scuola alla sanità, a ripensarsi. A maggior ragione nel campo televisivo.
Per questo il presente è già troppo complesso e variegato per infilarci sempre nelle previsioni di un futuro che, come diceva Keynes, ci vedrà tutti morti. Oggi accadono le cose. Non abbiamo alibi, siamo immersi in quelli che gli americani chiamano il “narrowcasting”: la selezione di eventi immediati.
Tutto si sta rovesciando, giorno per giorno, e nel nostro piccolo di utenti della Tv vediamo scombussolarsi forme e contenuti del sistema audiovisivo, e del servizio pubblico in particolare.
A cominciare dall’identificazione, che sembrava indissolubile, fra azienda pubblica e dimensione statuale, quella che possiamo definire, Tv nazione.
In questo passaggio, io credo, va sciolto uno dei nodi che sta ingarbugliando da tempo la matassa di Viale Mazzini.
E non è questione solo di palinsesti.
La Tv-Nazione, televisione che coincide con un territorio, una lingua e una cultura, si sta esaurendo. In molti paesi ormai le emittenti principali vengono dall’estero. E questo cambia la natura del mandato istituzionale al servizio pubblico.
Infatti, se è vero, che la stampa, e più tardi la comunicazione elettrica, hanno permesso l’affermarsi dell’opinione pubblica, e con essa, la costituzione degli stati nazionali, in un nesso indissolubile fra Gutenberg, Marconi e la pace di Westfalia, allora, seguendo il filo del ragionamento che ci propone la citazione iniziale di Manuel Castells, possiamo dire che oggi si sta riclassificando, con i nuovi linguaggi digitali, l’intera infrastruttura istituzionale delle comunità nazionali.
Dunque, se lo stato è la conseguenza appunto dell’opinione pubblica, che, a sua volta, è stata forgiata dai media di massa uniformi (il giornale e, dopo, la radio e poi la TV che offrono a tutti la stessa informazione), ora che la comunicazione si articola per formati e soluzioni individuali, on demand, distinti e distanti gli uni dagli altri, allora è evidente che muta l’identità nazionale, e con essa i grandi collanti della nazione, come erano i servizi pubblici.
Senza divagare credo che la stessa vicenda dell’ISIS, il nucleo statale del nuovo terrorismo islamico, assolutamente disancorato da un territorio e da una lingua, ma arroccato sul monopolio delle proprie comunicazione e dei propri modelli di digitalizzazione, sia parte di questa storia, di questo nuovo intreccio fra stato liquido e comunicazione liquida.
Cambia lo stato perché cambia il sistema della comunicazione. E la comunicazione è forma e linguaggio essenziale del Nation Building. A tutte le latitudini. Nation Building politica, culturale e anche economica. Soprattutto in un’epoca che, come spiega Mary Douglas, una delle madri del marketing moderno, “ogni prodotto non coincide con il suo contenuto ma con il suo racconto”. Chi controlla i racconti batte moneta.
Per questo credo che la rivisitazione dello statuto del servizio pubblico andrebbe contestualizzato in questa logica e dotato di un pensiero lungo e denso, dove la geopolitica prevalga sulla tecnologia, e sui generi televisivi. E i linguaggi siano più importanti dei bilanci dei fornitori.
La comunicazione audiovisiva nazionale non è più da tempo uno strumento di welfare interno, con cui assicurare gratuità e medietà dei contenuti, per integrare un’offerta di servizi accessibili a tutti, quanto piuttosto è leva di grande competitività nazionale, che fornisce al sistema paese strumenti, alfabeti e governo dei processi tecnologici per autodeterminare la propria forma statuale. La Rai è un arsenale e non una compagnia teatrale. Così come la mitica BBC e ora anche i dispostivi di cui si serve Papa Francesco.
Monopolio della violenza interna e capacità di sostenere modelli e forme di comunicazione differenziata sono oggi, nell’economia mobile globalizzata, dove capitali e individui si spostano a velocità siderale, i due basilari fattori che identificano lo stato nazione.
La società, ci spiega ancora Castells viene invece identificata dalla dinamica delle reti che l’attraversano, la esprimono e la sostengono.
Le reti modificano la società in base alla velocità di relazione che consentono. E come dice Paul Viriliò la velocità è il messaggio. Velocità e individualizzazione dei sistemi utente frantumano lo specchio unitario del servizio pubblico. Costringendolo a competere sui punti alti dello scenario. E’ da lì che si può costruire un primato nazionale.
Dunque una mission geopolitica che assegni all’apparato professionale e tecnologico della RAI il ruolo di presidiare e sostenere la linea della competitività e dell’autonomia del sistema Italia sul mercato dei nuovi linguaggi digitali. Nelle forme e nei modi che la rete impone. La Rai come il neo realismo, un sistema che fa pensare in italiano. Magari parlando in inglese o arabo.
Il secondo tema che riclassifica il sistema mediatico è il modo con cui il mercato risponde all’individualizzazione sociale: un’estrema e inaggirabile targettizzazione dell’offerta. Lavoro di massa, consumi di massa, media di massa, spiega Bauman, che poi così declina il nuovo schema di oggi: lavori individualizzati, consumi personali, media on demand.
Interventi di amici che stimo come Flavia Barca e Piero de Chiara insistono sull’idea di una Rai come retrovia del sistema narrativo audiovisivo italiano. Per certi versi è un’ovvia accortezza. La Rai deve essere l’infrastruttura professionale ed economica del racconto italiano.
Ma quale?
Quello che impone il mercato, con la sua torsione individualistica delle relazioni sociali, o un modello diverso, autonomo, distinto dalle logiche globali?
La parcellizzazione delle offerte, dai format televisivi, che vengono sempre più personalizzati medianti menù e formule di fruizione on demand, con piattaforme che inducono e sollecitano modelli di fruizione singoli ed isolanti, sono fattori di una trasformazione della stessa identità del prodotto audiovisivo.
Dai nuovi canali a flusso di Sky, come Sky Box, dove ogni format diventa uno streaming inesauribile e incontenibile, agli stessi quotidiani, che con la loro versione digitale, diventano flussi di notizie e contenuti da consumare e navigare individualmente, fino all’estrema polverizzazione introdotta dai nuovi modelli di delivering delle news come i già citati Intant Articles di Facebook e AMP ( Accelerated Mobile Pages) di Google, che rendono ormai impossibile condividere lo stesso giornale e le stesse informazioni fra più cittadini di uno stesso territorio, si sta disegnando metrica e semantica della narrazione audiovisiva. Un racconto che proprio perché fruito e interagito individualmente, assume spessore e valore diverso rispetto allo stesso audiovisivo visto in gruppo.
Proprio in questi giorni Netflix sta mettendo a punto un sistema algoritmico che intrappola ulteriormente ogni utente nei suoi desideri, giocando sui 90 secondi che in media ognuno usa per scegliere dal menu della Tv, per proporre e orientare le opzioni su offerte estremamente pertinenti al carattere e alla personalità dello spettatore. Siamo ormai alla blindatura di ogni immaginario individuale.
Non occorre essere psicosemiologi per cogliere il nesso fra fruizione e contenuto. Come spiegava Umberto Eco fin dal 1973 “la comunicazione si definisce dove arriva e non da dove parte”.
Oggi siamo nel pieno di un ennesimo tornante antropologico, che stressa definitivamente il processo di fruizione delle narrazioni audiovisive.
Contenitore e motore di questa trasformazione individualistica della comunicazione è il terminale mobile, lo smartphone.
I dati sono sotto i nostri occhi e mutano, incrementandosi, ogni minuto: siamo in Italia al 68% di uso corrente di smartphone per accedere alla rete.
Negli USA oltre del 88% di cittadini riceve dal telefonino informazioni ed istruzioni di vita quotidiana.
Lo schermo del cellulare ci svincola da qualsiasi appartenenza sociale: famiglia, amici, colleghi. Ci informiamo in assoluta mobilità, facendo surfing fra le nostre relazioni. E come ci spiega ora la pubblicità, soprattutto quella nativa digitale, è proprio nella sovrapposizione fra i diversi screen, dal televisore, al tablet al telefonino, che si ricava l’indice di “connessività” del nostro costo contatto, ossia dalla qualità della nostra capacità di scambiare dati.
Qui, a mio parere, si coglie forse uno dei valori aggiunti più rilevanti per rispondere alla domanda iniziale di Flavia Barca: perché oggi un servizio pubblico? Per riunire ciò che divide il mercato, per ricomporre platee e gruppi sociali, anche solo momentaneamente. Per aggregare una nuova coach television, che saltuariamente rimetta in contatto, e in contrasto magari, generazioni, territori, culture e istinti sociali. Soprattutto un motore di contenuti che introduca permanentemente nella dieta mediatica dei cittadini l’effetto serendipity, rompendo le corsie di solitario corporativismo che tendono ad ingabbiare gli utenti nei rigidi sistemi on demand: se io vedo solo quello che scelgo, e scelgo solo quello che conosco, sarò sempre più rinserrato nella mia identità, raggrinzendo le risorse del mio paese, e limitando le culture dell’ibridazione.
La Rai è un frullatore sociale che alchemicamente deve poter promuovere corto circuiti culturali, meticciato sociale. Per questo vedo una mission strategica del servizio pubblico nell’essere imprenditore, ma soprattutto impresario – qui sono d’accordo con Flavia e Piero- facendo lavorare il paese dell’audiovisivo, elaborando modelli e formati che inducono a contatti e non ad isolamenti. Fiction, musica, varietà, cinema, news sono strumenti potentissimi di un’offerta che intrecci, differenziandole, le diete mediatiche individuali.
Già la televisione, e prima ancora la radio, sono stati fattori di ricomposizione fra identità, censo, e culture in ambito nazionale. Un collante che era anche uno straordinario fattore di sovranità e sviluppo delle singole comunità nazionali, che si sono espanse, attraendo risorse e capacità, anche in virtù del potere di suggestione dell’immaginario collettivo. La TV nazione nel ‘900 è stata sentinella e tutore di un’auto programmazione culturale e linguistica.
In questo possiamo concordare sul fatto che la televisione pubblica unitaria, al di là della frustra retorica del Maestro Manzi, sia stata un fattore di identità e di affermazione dello stato nazione, che producendo e scambiando linguaggi e contenuti sul mercato globale valorizzava i propri asset nazionali. Questa storia si è chiusa nella transizione dal potere di chi parla a quello di chi ascolta come dice Znamer. La nuova mission deve rinnovare questa funzione in altri termini rispetto alla superata autarchia della miseria.
Nel passaggio dal modello broadstating-da uno a tanti- a quello circolare del socialnetworking- da tanti ad ognuno- i processi prevalgono sui singoli contenuti nell’elaborazione culturale.
Emerge in questa fase una centralità dello stato impresario culturale – giustamente Flavia ricorda lo Stato Innovatore di Mariana Mazzucato – nel momento in cui la comunità richiede una partnership forte con l’istituzione pubblica per non soccombere nella competizione digitale globale. L’istituzione pubblica diventa essa stessa networking per vincere nella guerra dei networking. La BBC è oggi arsenale nazionale nella guerra dei saperi digitali. Proprio la Mazzucato ricorda nel suo libro che l’ente radiotelevisivo pubblico inglese ha scelto di sviluppare con risorse e criteri interni la propria piattaforma digitale i Player. Gran parte delle risorse pubbliche assorbite si giustifica così.
Il terzo elemento che ridisegna il profilo della comunicazione è il software, o meglio la centralità dell’algoritmo come ordinatore strategico del sistema audiovisivo.
Già Italo Calvino nelle sue Lezioni Americane intuì che il software avrebbe comandato sull’hardware. E’ attraverso l’interfaccia del software che ogni individuo trova modi e soluzioni per partecipare alla nuova agorà cross mediale. Un software che ora- stiamo sempre parlando del presente- sta pilotando la transizione dall’informatica meccanica all’intelligenza artificiale, avviando la fase di superamento della APP con i nuovi agenti intelligenti personalizzati.
Qui arriviamo al nuovo ostacolo che deve saltare il cavallo di Messina.
Se il software è la porta d’entrata nel nuovo mercato culturale globale, ed è il linguaggio che riconfigura le nostre relazioni e le forme mediatiche che danno corpo allo stato nazionale e senso alla percezione di appartenenza sociale, allora diventa alto il rischio che ad una carenza strutturale nell’elaborazione e caratterizzazione autonoma degli algoritmi corrisponda una subalternità dell’intera comunità nazionale. In sostanza se è l’algoritmo il collante della nostra comunità, importando software rinunciamo ad una piena autonomia e sovranità nazionale.
E’ grave e colpevole essere al 21° posto dei siti web- ma non è il risultato di una maledizione divina, ci sono nomi e cognomi dietro a questa debacle – ma è criminale il fatto che più del 90% delle intelligenze digitali che la Rai usa le importa a scatola chiusa. La BBC produce almeno il 50% degli algoritmi che adotta in casa. Il sistema delle news è una delle fabbriche strategiche di questa risorsa intelligente. Un servizio pubblico audiovisivo non è dato se non ha pieno controllo dei propri linguaggi.
Un’azienda pubblica può delegare la sua grammatica giornalistica e le architetture dei suoi data base a fornitori esterni?
Un servizio pubblico può costruire culture e primati professionali adottando comportamenti e linguaggi dall’ufficio marketing di questo o quel grande monopolio digitale?
Con l’aggravante di quell’orgia di standard e modelli di software differenti che ogni singolo comparto aziendale ha ritenuto di scegliere per capriccio o ignoranza, rendendo l’azienda completamente subalterna alle aziende fornitrici. Anche in questo caso non si tratta di un destino cinico e baro.
E’ mancata la volontà di affrontare i nodi della riconversione digitale per non perdere potere di decisione e funzioni di spesa. Il sapere digitale si produce non in una stanza o in un centro di produzione ma federando talenti e professionalità sul territorio, organizzando comunità di sviluppatori, e facendo scorrere le competenze. Ancora Mariana Mazzucato, analizzando i modelli internazionali scrive che per la competitività digitale “quello che conta non è lo stock di R&S quanto la circolazione della conoscenza e la sua diffusione mediante l’economia”.
La Rai deve essere motore di questa circolazione.
Diventa strategico disporre per questo di relazione e cooperazioni con centri di competenza privati e di agenzie pubbliche in grado di rendere la comunità nazionale autonoma e protagonista nella lunga transizione dall’analogico al digitale, dal fordismo al post fordismo, dalla centralità del produttore a quella dell’utente.
Un esempio clamoroso lo abbiamo sotto i nostri occhi per quanto riguarda la connettività: dopo 20 anni di sbornia privatizzatrice, con i più stravaganti e inconcludenti piani per portare la rete nelle case degli italiani, oggi si riconosce che solo una strategia pubblica, concordata con le realtà locali, può innestare un processo di vera connettività territoriale. La Rai come l’Enel potremmo dire: tutela e retrovia della battaglia per la propria identità digitale.
Tanto più in un tornante che vede mutare radicalmente grammatiche e linguaggi dell’azione comunicativa che sempre più è mediata e interfacciata dal software.
Quanto sta accadendo nella stampa, penso ai processi di concentrazione e semplificazione industriale, e all’omologazione delle grandi testate ai modelli giornalistici dei gruppi multinazionali digitali come Facebook e Google che abbiamo già ricordato, lascia alla fabbrica delle news della Rai la responsabilità di un’informazione in italiano, soprattutto di nuove architetture di informazione territoriale. Qui ritroviamo il telefonino come ordinatore sociale. Una transizione che la RAI deve avere il mandato di orientare.
La TGR deve essere il primato della RAI, dove il servizio pubblico fa quello che non vogliono, non possono e non sanno fare i privati: una copertura continua e permanente di tutti i cento campanili nazionali. In sostanza rivolgere i centri di produzione dell’informazione a lavorare sulla rete e con la rete e non viceversa, come accade prevalentemente oggi, di usare la rete come vetrina dove esporre prodotti realizzati in analogico, e non come fabbrica dove sviluppare a basso costo grandi quantità di soluzioni.
Per questo la testata regionale, la più imponente redazione del paese, non può essere, come è oggi, solo una ansimante e faticosa burocrazia giornalistica, dove a malapena si riesce a coprire le tre edizioni del notiziario tv, mentre deve essere un network locale, un broker delle news del territorio che organizzi e attivi i suoi utenti come redazione sociale, che si connetta alle mille realtà del territorio. E che produca linguaggi e piattaforme soprattutto nel mobile anche per le realtà istituzionali e le community. Pensiamo che l’anno scorso Google ha fatturato oltre 400 milioni per realizzare per conto di regioni e comuni sistemi di web TV.
Qui si incontra un altro tema essenziale per la nuova identità della RAI: è solo un servizio pubblico nazionale?
Ha come referente solo i poteri pubblici verticali?
Non è forse il caso di rendere questa azienda una grande multiutility delle community locali che sempre più devono declinare servizi, organizzazione, assistenza e governance in ambienti e con linguaggi audiovisivi?
La Rai deve essere un sistema territoriale, che coniughi mandati e poteri nazionali con funzioni e servizi locali. Realizzando in questo anche un allargamento dello spettro del pluralismo e della rappresentatività dell’azienda.
Più ancora che nell’età televisiva tradizionale, al tempo della rete avere strategie, politiche e realtà in grado di dialogare in maniera non subordinata e passiva con i centri di produzione delle forme espressive è essenziale per dare un futuro al paese. Soprattutto in una fase di ulteriore instabilità, con il passaggio al mobile delle nostre comunicazioni professionali e relazionali.
Già negli anni ’80 le forze progressiste e riformatrici del paese non colsero l’emergenza comunicativa che batteva alle nostre porte. Ignorarono come la richiesta di modelli comportamentali, contasse più di valutazioni qualitative sui contenuti trasmessi.
In pochi anni un processo di privatizzazione di ogni forma di comunicazione televisiva strinse l’azienda pubblica in una morsa da cui l’azienda non si è più ripresa.
La liberalizzazione selvaggia del mercato pubblicitario fu il volano di un aggregato d’interessi e di potere che ha poi portato agli intrecci incestuosi che oggi governano il paese.
Fu un errore non cogliere l’opportunità, che pure si presentò per un riassetto del sistema, che pur non avvilendo la pulsione liberalizzatrice della televisione privata, desse regole e modelli funzionali ad una razionale finalizzazione della potenza comunicativa in ambito nazionale. In quel gorgo, penso all’ormai lontanissima proposta di Claudio Martelli di un rete consortile che convogliasse le emissioni private unitariamente.
Non solo la Rai patì quella cecità politica. Lo stesso vincitore di allora, il competitore privato rimasto unico sul mercato reso un deserto, si trova oggi gonfio di interessi ma povero di risorse di strategie per adeguarsi alle nuove geometria multimediali.
L’Italia rischia di trovarsi senza motori della moderna comunicazione. E dunque sguarnita nel momento in cui si riconfigura lo stesso profilo istituzionale del paese sulla spinta dei nuovi comportamenti digitali.
Rischiamo di non avere una testa televisiva in italiano.
E’ indispensabile ritrovare il filo di una strategia di sistema, ricostruendo culture e capacità in grado di assicurare spazio alla libertà di ogni individui, e al tempo stesso di non rendere velleitaria l’ansia di competizione dei soggetti nazionali in ambito globale.
Bisogna elaborare un pensiero “Italiano” sulla rete. Un pensiero non certo scioccamente autarchico, ma in grado di valorizzare la peculiarità di un paese da sempre produttore di socialità e di relazioni. Un pensiero italiano che si confronti con la rete come sarà e non come era.
Che si forgi nel conflitto che sta sorgendo fra privatizzatori ed espansionisti del networking.
Che trovi ambiti dove la cross-medialità non sia un’economia fagocitante e speculativa, ma che accompagni lo sviluppo di servizi, produzioni e culture tipicamente italiane.
Il mondo del design ci ha mostrato una strada di competizione vincente sulla scena internazionale.
Dobbiamo ricostruire una politica industriale che consolidi i primati e recuperi i ritardi.
Il comparto cinematografico e televisivo, ma anche l’intero mondo del software, della ricerca biotecnologica, delle convergenze audiovisive, tridimensionali, georeferenziate, che rappresentano i nuovi alfabeti di una comunità, deve diventare un settore portante di un paese che si propone come una grande fabbrica di valori relazionali.
Già oggi l’Italia è un grande nell’economia a rete. Siamo stati il paese dell’esplosione delle televisioni locali, il paese della telefonia cellulare, oggi siamo la comunità forse più protesa nel social-networking. I grandi produttori ci considerano un mercato da beta testing dei nuovi prodotti. Dobbiamo diventare un co produttore, e anche un negoziatore di soluzioni, di tecnologie, di senso. L’algoritmo non è un valore neutro, possiede un’anima e una cultura che non ci può essere imposta dall’alto di una seduzione dell’oggetto o del fascino del buon funzionamento.
Come spiega Bauman, il digital devide reale non è la conseguenza di un deficit infrastrutturale, quanto l’incapacità di creare senso comune.
Dobbiamo rilanciare un’ambizione a diventare partner nella produzione di senso, rimettendo sulle gambe sistemi, imprese, servizi che nella comunicazione e nei modelli a rete possano ridare forza ad un protagonismo italiano nell’ambito di un nuovo rinascimento dell’intero sistema industriale e produttivo.
L’esperienza di Milano expo ci dovrebbe aver insegnato che si può diventare centrali nell’immaginario, se non si pensa che l’immaginario è solo uno, quello a colori di Hollywood.
Così come le nuove strategie dei sistemi scientifici dal polo Humanism Technology che dovrà proprio rilevare gli spazi dell’Expo, insieme agli insediamenti in Italia di centri di sviluppo software come Apple a Napoli, e General Electric a Firenze o Sun Microsystem a Vimercate, ci indicano che partener e spazi ci sono per pilotare una transizione dalla comunicazione isolata, ai linguaggi sociali audiovisivi.
Per questo ci vuole una Rai che sia una grande fabbrica di linguaggi e non più un’edicola di messaggi. Un’azienda che investa nella trasformazione delle interfacce, sulle matrici dei nuovi algoritmi, sui nuovi sistemi utenti. Forse anche meno centrale sul mercato che si vede, ma strategica nelle retrovie che decidono.
Paradossalmente per questa nuova Rai ci vuole più politica, ma una politica diversa, ovviamente. Una politica che si ritiri dalla gestione diretta di imprese e apparati, e si concentri nell’elaborazione di regole e strategie che diano forza al sistema paese. Una politica che valorizzi i punti forti del sistema nazionale: le mille culture locali, il sistema delle autonomie, il pulviscolo dei talenti e delle competenze professionali, l’istinto di una relazione sociale forte dei nostri cittadini. Una politica che non lasci il management della RAI solo a decidere la mission e la strategia del sistema comunicativo italiano.
Ricordandoci che, come recita il Corano, ogni bambino che nasce assomiglia più al suo tempo che a suo padre.
Se parliamo ai padri non li incontreremo mai.