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La Rai che vorrei. S. Pattuglia: ‘Interattiva e convergente’

Simonetta Pattuglia

Simonetta Pattuglia

Già da vari anni la combinazione delle nuove tecnologie e del consumo massivo hanno dato la maggiore esibizione di sé in campo mediatico, artistico e delle grandi forme di entertainment. Le continue e ovunque presenti esperienze di informazione e produzione culturale – siano essi suoni o immagini o parole o ricordi o simboli o brand – non hanno avuto precedenti similari nella storia. E’ quella che taluni hanno definito la “società trasparente” ad evocare la onnipresenza dei media che preludono ad una comunicazione totale e ad indicare, invece, anche spesso, il contemporaneo spaesamento e la confusione oscura in cui l’individuo si dibatte nell’esercizio delle sue capacità critiche e di giudizio calato come è in una presunta condivisione comunitaria. “Insieme ma soli” ci ritiene S.T urkle e affannati da “ossessioni collettive” ci dipinge G.Lovink.

Vengono oggi di fatto sottovalutati dai più la tendenza al solipsismo che la società dei consumi ha portato con sé mescolata ai rituali di partecipazione collettiva – cosa sono se non questo i codici comportamentali sui social media? – e sovraesposizione di sé, basti pensare alle “immaginette” protagonistiche dei selfie dilaganti.

I nuovi mezzi che caratterizzano il vivere contemporaneo – internet, i social media e oggi su tutti la piattaforma mobile – presentano queste caratteristiche, sia le positive sia le negative, in un indissolubile continuum.

Il risultato complessivo è chiaro e sotto gli occhi di tutti. La progressiva globalizzazione, le riforme regolatorie e, nel contempo, le continue deregolamentazioni, le tecnologie disruptive, i conseguenti cambiamenti nella socialità, hanno generato l’esito che l’economia dei media, letta sia a livello macroeconomico e aggregato sia micro e del management, debba essere esaminata attraverso un amplissimo spettro di indagine realizzando, di fatto, uno degli argomenti maggiormente olistici dell’odierna discussione pubblica.

Le prospettive di ragionamento – anche ai fini della riconfigurazione di un moderno management dei media – stanno di fatto abbandonando la visione per singoli punti di vista, ovvero la visione verticale dei settori industriali tipica fino agli anni Ottanta, così come la visione per funzioni aziendali, tipicamente quella finanziaria a fronte di quella produttiva nonché distributiva nei media, come l’altrettanto obsoleta suddivisione fra old e new media.

Televisione, radio, giornali ed editoria, cinema oggi sono diventati – attraverso la digitalizzazione – linguaggi e contenuti globali dunque un tutt’uno inevitabilmente con le molteplici piattaforme tecnologiche internet, social e mobile che le distribuiscono e le comunicano.

L’approccio per piattaforme convergenti, di volta in volta, tecnologiche, relazionali, industriali, distributive di offerta di prodotti e servizi, ed organizzative e di marketing, è una valida chiave interpretativa per una lettura più consistente oggi del fenomeno mediatico e dell’industria globale della produzione e distribuzione di contenuti informativi, comunicazionali, educativi e di entertainment.

Il settore industriale mediatico comunemente non viene più disgiunto dai contenuti che esso veicola. I media vengono così di fatto, anche negli aggregati macroeconomici internazionalmente elaborati dalle grandi organizzazioni universitarie, della ricerca e della consulenza, neanche più separati dalla informazione e comunicazione e, sempre più spesso e recentemente, neanche dalle diverse forme di entertainment.

Si parla, oggi, di “industria creativa” come di quel macro-settore economico fra i più rapidamente crescenti e capace più degli altri di produrre valore monetario e non monetario nell’ambito di uno sviluppo finalmente sostenibile (PriceWaterhouseCoopers, 2013, Global Outlook on Media and Entertainment; Ernst & Young, 2015, Report Cultural Times. The first global map of cultural and creative industries).

Solo le industrie creative dunque – fra cui la televisiva, secondo i dati, è quella decisamente più remunerativa – sono capaci contemporaneamente di influenzare i ricavi, la rapida creazione di posti di lavoro, le esportazioni di prodotti culturali, insieme agli indicatori sociali intangibili quale la promozione della creatività nelle società in cui queste industrie sono preponderanti, l’incremento conseguente della qualità della vita delle persone, la produzione di risorse per il futuro. Solo dal punto di vista economico, queste industrie generano 2.250 miliardi di dollari di fatturato (dati 2013, Unesco, 2015) di cui la televisione copre 477 miliardi per oltre tre milioni e mezzo di impiegati (mediamente più giovani, ad alta produttività, indipendenti e imprenditivi, con un alto livello di formazione) attestandosi come la industry con maggiori revenue.

Ma l’industria creativa è anche considerata la “locomotiva della economia online” con l’unica e distintiva capacità che ha di attirare risorse, talenti e lavoratori molto competenti.

L’industria creativa dà pertanto un grande contributo alla digital economy attraverso prodotti fisici, contenuti culturali e pubblicità sui media digitali. Non a caso Richard Florida anni fa (2003) parlò di emersione della “classe creativa” fortemente concentrata nelle aree ad alta urbanizzazione come di una classe di persone “affamate” di entertainment, motore di sviluppo del “market of the future”.

Il megatrend è dunque quello che vede la diffusione e l’utilizzo sempre più autonomo e personale – dai mass media al my media, all’I-media  –  di mezzi e contenuti mediatici: basti pensare al ruolo che i giovani e i teenager svolgono nella loro attività di trend setter e fruitori quotidiani di media mix sempre più complessi, in tutte le aree del mondo; pensiamo all’uso dei media per attività amicali e familiari assolutamente impensabili sino a pochi anni fa, e ciò è valido per i miliardi di utilizzatori nel mondo di social network e media dedicati ad attività sinora prettamente fisiche e svolte attraverso il contatto personale. Basti pensare a tutte le forme di intrattenimento, televisivo, cinematografico, di evento, musicale, performativo, di gioco e scommessa, che oggi avviene attraverso dispositivi e applicazioni fisiche come virtuali e digitalizzate, quindi di fatto multicanale o come si preferisce dire, in logica integrata, “omnichannel”.

Questi cambiamenti dirompenti che l’individuo ha vissuto negli ultimi quindici anni, sia come singolo nella sua qualità e quantità di attenzione e attività, sia sempre più frequentemente preso nella sua partecipazione a molteplici comunità basate su internet, ha radicalmente cambiato i business model su cui tutta l’industria dei media aveva, nella verticalità delle singole industrie, fondato il proprio benessere e la propria crescita lineare.

Nel mondo analogico, i contenuti erano controllati dalle imprese mediatiche e dai loro committenti.

Nel mondo digitale, il contenuto viaggia attraverso le molteplici piattaforme tra loro interconnesse e comunicanti ed è portato esso stesso a rompere le barriere della proprietà delle singole imprese. Anche laddove non si verifichino atti di pirateria o attentati alla sicurezza informatica.

Ciò ha portato gli strateghi del marketing delle imprese di tutti i settori merceologici, così come quelli delle imprese media – e la RAI non fa eccezione e non deve fare eccezione – a dover rivedere completamente le aree di business, il posizionamento, le strategie, l’offerta di prodotti e servizi, la comunicazione di sé e dei propri prodotti-servizi.

Ciò ha condotto i cosiddetti media tradizionali ad operare una conversione completa verso aree di attività e modelli di ricavo fortemente dipendenti da una integrazione con le nuove piattaforme tecnologiche, inizialmente distributive, ora anche produttive e sempre più commerciali.

La ricerca di modelli di business misti validi per attività imprenditoriali sulle multi-piattaforme è ancora interessante e attuale argomento di discussione di cui i risultati non sono peraltro, vista la velocità della continua convergenza delle piattaforme stesse (di computing, di tlc, di contenuti) e l’emersione di funzionalità sempre nuove e attraenti, definibili una volta per tutte.

Che il modello pubblicitario ovvero il “terzo pagante”, classicamente considerato, sia in grave crisi, è assodato. Il modo di skippare lo spot è il suo funerale. Che le forme, nel frattempo emerse e sostanzialmente codificate come mix fra gratuità (e nel caso televisivo pubblico, conseguente canone), pagamento tramite sottoscrizione e micro-pagamento, abbiano ancora dimostrato di potere assicurare la sostenibilità futura in un mondo industriale che dovrebbe via via fare a meno dell’introito pubblicitario tradizionalmente inteso non è affatto chiaro e forse non lo sarà ancora per molto.

Questo stressante fine tuning con lo scenario competitivo tecnologico, normativo, geo-politico, conduce pertanto le imprese a studiare costantemente come coinvolgere nel lungo periodo il consumatore ormai comunque globale e considerato, a ragione, necessario alleato dello sviluppo.

La sfida delle imprese – su tutte quelle mediatiche ipso facto – è oggi quella di raggiungere il consumatore ovunque esso si trovi fisicamente o virtualmente, catturarlo – perché già saturo di consumi mediali – in “luoghi” mediatici che lo attraggano e non lo lascino scappare più, siano essi informativi, ricreativi o meramente comunicazionali. Solo così possiamo spiegare, nell’eccesso di offerta, il successo dei business model misti che conosciamo per i cosiddetti over the top. Solo così si possono spiegare le due cifre di crescita, dal 2011 al 2014, per Amazon +44%, Netflix +61%, Google +18%, Facebook +39%, Kickstarter +81%, tutte aziende OTT, distributrici di contenuti anche co-creati e prodotti altrui, concorrenti dirette ed indirette delle televisioni (tutti concorrono sull’uso del tempo del consumatore! pensiamo per brevità a YouTube come alla Playstation), e spesso, ora, anche produttrici di fiction e live events. Operatori che di fatto hanno generato, e continueranno a generare, la costante ristrutturazione dei settori industriali dell’intrattenimento, fatto di ricreazione ma anche di commercio integrati nella piattaforma convergente di internet+mobile. A solo titolo di esempio, nel 2013 Netflix ha investito 379 milioni di dollari, ovvero il 9% del suo fatturato, dedicandoli alla ricerca e sviluppo di nuovi prodotti e infrastrutture. Impiega 300 persone solo per sviluppare i recommendation softwares dei contenuti (straordinari strumenti di marketing relazionale online per l’analisi, la segmentazione, il targeting e la comunicazione digitale) che le sono vitali per l’espansione, al costo di 150 milioni di dollari annui (dati EY, 2015).

L’industria dei media, dell’informazione, della comunicazione e dell’entertainment è dunque da intendersi in via integrata quello che oggi definiamo “ecosistema mediatico”, primo fra tutti ad emergere, anche temporalmente, Google.

Il futuro dunque sarà interattivo e convergente, basato sui contenuti e non meramente sulle piattaforme, relazionale e coinvolgente verso i consumatori e i clienti, focalizzato sui giovani e sulla innovazione condivisa.

L’industria dei media e dell’entertainment – di cui, ricordiamolo, la televisione (o come si chiamerà nel futuro digitale) è il maggiore capitolo a livello mondiale –  diviene così uno dei principali driver dell’economia globale e delle singole economie dei paesi sviluppati così come anche di quelli emergenti, e, grazie alle tecnologie continuamente convergenti, il grande moloch industriale sostanzialmente oligopolistico di cui tutti – esperti e meno esperti – abbiamo cominciato a percepire i contorni ma di cui non individuiamo ancora le vie di fuga.

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