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E’ opinione largamente condivisa che la RAI dovrà (dovrebbe) trasformarsi in Media Company, o più precisamente assumere la natura di Public Service Media, secondo la definizione proposta dall’EBU.
Anche il Parlamento ha voluto indicare questo obiettivo quando ha inserito nella recente legge 220/2015 la previsione che “le parole: «servizio pubblico generale radiotelevisivo», ovunque ricorrano, sono sostituite dalle seguenti: «servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale»” (art.1 comma 1 lettera a)”
Questo notevole incremento delle funzioni della Concessionaria comporta necessariamente la ridefinizione del perimetro delle attività della medesima.
Silvia Venturini e Fabio Bassan ad esempio scrivono che “Tenuto conto della definizione di “servizio pubblico” contenuta all’art. 2, comma 1, lett. t) del d.lgs n. 177/05 e della circostanza che il mercato nazionale e globale in cui si inserisce l’attività della concessionaria è sostanzialmente cambiato, così come è cambiata la fruizione dei mezzi storici, appare necessario individuare con certezza il perimetro del “servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale” e ne propongono pertanto una nuova definizione che articola il “servizio pubblico” in una serie di attività: “Le attività di produzione e diffusione su tutte le piattaforme tecnologiche di contenuti audiovisivi o multimediali, di interesse generale, dirette a promuovere la cultura e la creatività, la coesione sociale, l’utilizzo delle nuove tecnologie e a fornire un’informazione completa e imparziale, anche nel rispetto del pluralismo delle idee, costituiscono un diritto dei cittadini riconosciuto dal secondo comma dell’art. 3 e dall’art. 21 della Costituzione e sono garantite dal servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale”
Discutere di principi e di definizioni quando ci troviamo davanti ad una conclamata crisi di legittimazione del servizio pubblico, in larga parta dovuta alla prostrante subalternità ed eterodirezione vissuta dalla RAI nel primo decennio del secolo in corso, parrebbe pura accademia.
Tuttavia, mentre si sta insediando un nuovo management con responsabilità dirette e con concrete possibilità operative, le tesi presentate nel brillante saggio di Flavia Barca hanno stimolato una interessante discussione che consente di approfondire i tanti e diversi aspetti della questione.
Partendo dalla sua chiara affermazione “Ritengo che la missione Rai, così come quella di tutti i broadcaster pubblici europei (pur nelle loro diversità culturali) poggi su un doppio binario: da una parte le industrie culturali e creative, dall’altra i cittadini; da una parte il ruolo di spinta nei confronti della produzione audiovisiva (in particolare facendo leva sulla qualità e l’innovazione); dall’altra quello di stimolare e promuovere, con più gentilezza ma mano ferma, inclusione sociale e processi partecipativi” alcuni come Piero de Chiara hanno posto l’accento sul primo binario affrontando al contempo la questione della indispensabile rilegittimazione; in particolare concordo pienamente con la sua tesi che “La separazione societaria sarebbe la strada migliore, come insegna il best case di Channel 4, che senza attingere a risorse pubbliche, riesce ad essere più innovativa dei privati (…) Oggi la commistione tra canone e pubblicità indebolisce il carattere distintivo del servizio pubblico e distorce tutta l’industria televisiva”.
Ma in questa sede vorrei approfondire un particolare aspetto del secondo binario, anche sulla scia delle notevoli predicazioni di Michele Mezza che nel suo intervento, come in altri recenti saggi, propone di spostare il fulcro della discussione attorno al tema della sovranità degli algoritmi, sul ruolo del software “che ora sta pilotando la transizione dall’informatica meccanica all’intelligenza artificiale, avviando la fase di superamento della APP con i nuovi agenti intelligenti personalizzati”
Sostiene Mezza che “L’ elemento che ridisegna il profilo della comunicazione è il software, o meglio la centralità dell’algoritmo come ordinatore strategico del sistema audiovisivo.”
“Nel passaggio dal modello broadcasting – da uno a tanti – a quello circolare del socialnetworking – da tanti ad ognuno – i processi prevalgono sui singoli contenuti nell’elaborazione culturale.”
“Se il software è la porta d’entrata nel nuovo mercato culturale globale, ed è il linguaggio che riconfigura le nostre relazioni e le forme mediatiche che danno corpo allo stato nazionale e senso alla percezione di appartenenza sociale, allora diventa alto il rischio che ad una carenza strutturale nell’elaborazione e caratterizzazione autonoma degli algoritmi corrisponda una subalternità dell’intera comunità nazionale. In sostanza se è l’algoritmo il collante della nostra comunità, importando software rinunciamo ad una piena autonomia e sovranità nazionale.”
Proprio per questo motivo “La BBC produce almeno il 50% degli algoritmi che adotta in casa.”
Un servizio pubblico audiovisivo non è dato se non ha pieno controllo dei propri linguaggi.
Nel momento in cui lo smartphone diventa un ordinatore sociale “ci vuole una Rai che sia una grande fabbrica di linguaggi e non più un’edicola di messaggi. Un’azienda che investa nella trasformazione delle interfacce, sulle matrici dei nuovi algoritmi, sui nuovi sistemi utenti.”
Alla Rai deve essere affidato il mandato di orientare questa transizione.
“Paradossalmente per questa nuova Rai ci vuole più politica, ma una politica diversa, ovviamente. Una politica che si ritiri dalla gestione diretta di imprese e apparati, e si concentri nell’elaborazione di regole e strategie che diano forza al sistema paese. Una politica che valorizzi i punti forti del sistema nazionale: le mille culture locali, il sistema delle autonomie, il pulviscolo dei talenti e delle competenze professionali, l’istinto di una relazione sociale forte dei nostri cittadini. Una politica che non lasci il management della RAI solo a decidere la mission e la strategia del sistema comunicativo italiano.”
Ho estrapolato queste citazioni dall’intervento di Mezza non solo perché sono molto chiare ed io le condivida pienamente, ma anche perché ritengo che sia necessario tentare di focalizzare il dibattito su questo punto: oggi l’azienda RAI può veramente svolgere una funzione di Public Service Media?
L’aggettivo multimediale inserito nel suo mandato può essere declinato in una ritrovata centralità della Rai, un servizio pubblico che diventi un traino per far uscire il sistema paese dall’arretratezza digitale nel quale è immerso?
E infine perché oggi tutti si richiamano al maestro Alberto Manzi come icona salvifica?
Mezza liquida quest’ultimo fatto come pura retorica, proverò a dimostrare che non è così; certamente è un appello disperato, qualcosa di simile all’invocazione di un Santo nel pericolo, ma è anche un richiamo ad una radice profonda sulla quale si potrebbe ancora tentare di innestare qualcosa.
Un progetto per i Post millennials
I Millennials hanno poco a che spartire con la televisione in broadcast, quasi zero con la Rai.
La scelta di Antonio Campo dall’Orto quale DG/AD si segnala anche come un estremo tentativo per recuperare questa vasta platea che non si riconosce nell’offerta del servizio pubblico, essendo egli indiscutibilmente uno dei massimi esperti di quella generazione.
Esistono gli strumenti per misurare con una certa precisione il successo di questo veramente difficile tentativo e pertanto fra qualche anno si tireranno le somme. Ovviamente tutti confidiamo ed auspichiamo che i risultati possano arrivare.
Tuttavia oggi una nuova generazione è in gestazione, quella dei Post Millenials. Fra i vari tentativi di classificazione sociologica (la sociologia dei consumi è sempre in fermento per capire cosa compreranno i fratellini dei Millennials) trovo divertente la proposta di Randy Apuzzo che li definisce The Digitarians, anche se la traduzione in Digitariani potrebbe sollevare qualche perplessità.
Ma al di là dei nominalismi il fatto rilevante è che la Rai incontra quotidianamente questi bambini, perché l’offerta di RAI YoYo ha indici di ascolto e gradimento assai elevati. Non solo: dal prossimo mese di maggio il canale 0/6 verrà trasmesso senza pubblicità; una scelta rilevante e significativa sotto diversi punti di vista. Sicuramente gli ascolti cresceranno e la fidelizzazione al canale, al brand RAI, aumenterà.
Forse si potrebbe provare a ripartire proprio da qui, da questo rinnovato patto di fiducia con i cittadini genitori per costruire un rapporto con i bambini fruitori del servizio pubblico televisivo estendendolo anche al multimediale.
Dieci anni di Concessione (di canone) sono un tempo abbastanza lungo per progettare, fare e poi valutare la riuscita di questa nuova scommessa, peraltro neanche troppo costosa.
Anche in questo caso studiare attentamente quello che sta facendo la BBC è molto utile. Certo da anni edita Cbeebies e i Teletubbies per la tradizionale offerta broadcast, ma soprattutto si è impegnata nel lancio di un grande progetto di cultura digitale per i ragazzi: BBC’c Make It Digital attraverso il quale intende promuovere l’insegnamento del coding, dei diversi linguaggi di programmazione, abilitanti al protagonismo nell’infosfera digitale.
La BBC si propone quale azienda (istituzione) leader nella formazione digitale delle nuove generazioni; di recente ha deciso di regalare a tutti i bambini di 7 anni un computer codificabile tascabile, BBC micro:bit, con il fine dichiarato di sviluppare la creatività e formare una nuova generazione di pionieri tecnologici; una grande sfida certo (the micro:bit is the BBC’s most ambitious education initiative in 30 years), ma anche un grande esempio di che cosa significhi oggi servizio pubblico multimediale. Ed anche un’ottima modalità per legittimare il ruolo della BBC nei confronti della nuovissima generazione: in UK The Digitarians sono formati dal locale PSM.
Fra le diverse aziende che hanno aderito all’iniziativa del MIUR “Programma il Futuro”, che intende promuovere “l’ora del coding” nelle scuole italiane, non troviamo la RAI, piuttosto spicca Microsoft.
Eppure il Maestro Manzi oggi farebbe questo, lavorerebbe per abbattere l’analfabetismo digitale che incombe nel nostro paese. Il servizio pubblico multimediale dovrebbe svilupparsi in questa direzione: educare, divertire ed informare, anche mettendo a disposizione dei ragazzi e delle scuole il grande patrimonio digitale delle proprie teche, insegnare loro a manipolare i contenuti digitali degli archivi, spingere le nuove generazioni verso la conoscenza dei linguaggi di programmazione, incentivare la produzione di algoritmi per la fruizione e lo scambio di informazioni e contenuti.
Oltre ai notevoli benefici per il sistema paese, certamente il brand RAI tornerebbe ad essere intrinseco alla cultura delle prossime generazioni, legittimando così il nuovo ruolo, già assegnatole per legge, di fornire al paese il servizio pubblico multimediale.
Probabilmente oggi la RAI non dispone delle risorse umane per presidiare un’iniziativa di questo genere; tuttavia questa potrebbe essere l’occasione per lanciare un’operazione straordinaria decidendo di assumere, mediante concorso, molte centinaia di giovani under 30, i quali diventerebbero i veri protagonisti di questo necessario sviluppo.
Le risorse economiche l’azienda le ha già in pancia; ad esempio potrebbe finanziare la nascita del servizio pubblico multimediale attraverso la cessione delle quote di Rai Way: una Media Company proprietaria di tralicci per il broadcast è un ossimoro; nessun PSM in Europa possiede torri.
La prossima consultazione auspicabilmente dovrebbe mettere al centro anche la questione di questa nuova mission, non limitando l’ambito della discussione al tradizionale settore radiotelevisivo.