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Una concessione è l’atto con il quale uno Stato, anziché svolgere direttamente un servizio dovuto ai suoi cittadini, lo assegna a una azienda, cedendole denaro pubblico e diritti speciali.
L’ultima concessione dallo Stato alla Rai fu firmata nella notte tra domenica e lunedì 28 marzo 1994, poche ore prima del risultato elettorale che mise fine alla prima repubblica. Per bon ton istituzionale Gianni Letta, in procinto di trasferirsi da Fininvest a palazzo Chigi, fu informato e diede l’assenso, pensando un po’ al vice-lavoro che lasciava, un po’ a quello che lo aspettava.
Da quel lontano lunedì la concessione è stata meglio specificata con convenzione e contratti di servizio, ma sempre e solo con l’accordo vincolante della stessa Rai. Non a caso l’ultimo contratto, scaduto 38 mesi fa, non è stato rinnovato.
Per questo la scadenza del 6 maggio segna una data con effetti duraturi; si dovrà decidere se è ancora utile incaricare un’azienda del Servizio pubblico, indicando gli obiettivi e impegnando risorse di lungo periodo. Se, come pare probabile e ragionevole, la concessione sarà rinnovata per dieci anni, in contropartita l’azienda Rai riceverà una ventina di miliardi dei contribuenti, più della metà di tutti i soldi che lo Stato spenderà nel periodo in attività, finanziamento e incentivi per l’industria informativa e culturale.
Con quali obiettivi?
L’AD della Rai, che viene da una brillante carriera nell’industria privata, è abituato a ricevere dall’azionista obiettivi definiti e misurabili con KPI, Key Performance Indicator, rispetto ai quali dovrà giustificare gli scostamenti.
La palla quindi è ora nel campo dell’azionista che ha un problema, anzi due. Per usare i termini proposti da Flavia Barca, creare valore per il pubblico e per il sistema economico sono diventate due attività distinte; negli anni Venti hanno un peso e un significato diverso da quelli che avevano all’inizio degli anni Novanta. Quei venti miliardi, quindi, vanno divisi tra le due diverse creazioni di valore pubblico.
Valore per il pubblico
Partiamo dal valore per il pubblico, al quale nei decenni passati, non solo la Rai, ma tutti i servizi pubblici hanno destinato la gran parte delle risorse, facendo del loro meglio per contribuire alla coesione sociale, literacy, partecipazione alla cosa pubblica, cura dei beni comuni; insomma per contribuire a “fare nazione”.
Partire da qui è inevitabile, perché qui c’è quasi per intero il vissuto della Rai, la percezione e le attese che ne hanno i suoi spettatori e dipendenti. Con la attenuazione delle barriere linguistiche e della scarsità delle frequenze l’efficacia economica di questo sforzo è decrescente.
Ma se ne può fare a meno?
Per salvaguardare la nazione le principali potenze hanno scelto altre vie: gli americani immedesimandosi con la propria industria culturale privata, i cinesi con il SARFT, l’amministrazione che decide quanti e quali film e serie nazionali e straniere possano essere visti nelle sale o in TV e dal prossimo mese anche via internet. Bruxelles sta ragionando su una via di mezzo tra cinesi e americani, ricalibrando quote e vincoli, diversità culturale e difesa dell’industria, ma non ha la forza per imporre una regolamentazione armonizzata con la revisione delle direttive in corso. Inoltre il trattato di Amsterdam impedisce di metter becco su come ogni Stato fissa e finanzia gli obiettivi del proprio servizio pubblico.
Quindi la missione di fare gli europei e fare gli italiani, di essere nazione che evolve e integra, continuerà a spettare alla Rai. Sia pure con risorse e rendimenti decrescenti, la maggior parte dei soldi del canone e gran parte del “percepito distintivo” continuerà a essere affidato ai programmi messi in onda su tutte le piattaforme e in particolare sul digitale terrestre. Lascio ad altri la discussione su quali linguaggi, contenuti, modelli e valori utili ai fini della crescita civile di una nazione indicare in concessione, oltre a quelli generici già presenti in legge; più degli ottativi però conterà l’evoluzione della cultura aziendale e la politica delle assunzioni.
Non siamo alla ricerca solo dei nuovi Guala e Bernabei e neanche dei nuovi Gadda, Eco e Guglielmi. Con la moltiplicazione dei canali e dei contenuti accessibili, per ambire a un minimo di visibilità e di influenza nazionale, serve alla Rai qualcosa di simile alla discontinuità portata dai concorsi del 1953 e 54: migliaia tra i migliori under trenta, centinaia tra gli under 40 esperti, decine di fuoriclasse, che conoscano le nuove dinamiche dei sistemi di comunicazione.
Un’operazione straordinaria sul personale attingendo a un’entrata straordinaria (cessione di RaiWay?) consente un turn over per modificare non solo la composizione per età, ma soprattutto il mix di competenze. Non servono giovani cameramen, registi, giornalisti o amministrativi interni, ma una leva di nuovi mestieri per connettere l’azienda con il paese, puntando in particolare sul commissioning e sul “public service navigator”.
Commissionare dal punto di vista del servizio pubblico comporta uno sguardo diverso rispetto al commissioning di Sky o Mediaset. A differenza delle imprese private non basta che il prodotto generi più ricavi da abbonamento o pubblicità di un altro prodotto con pari costi, occorre che introduca nel pubblico dibattito argomenti, racconti, notizie che altrimenti non sarebbero circolati.
Ancor più tremenda è la carenza del servizio pubblico sulla interattività: la Rai da sola non conta nulla, è al 21° posto tra gli utenti unici del web e non recupererà posizioni solo razionalizzando la propria offerta interna. La funzione di un public navigator è promuovere anche il prodotto esterno, ricostruire i nessi, organizzare i prosumer, fornire le guide, utilizzare i dati, sia sul fronte informativo sia su quello narrativo. Non si tratta di acquisire contributi o fornire guide che sostituiscano gli eccellenti algoritmi di YouTube, di Spotify o Netflix. Ma chiunque (utente o fornitore di contenuti) si affidi solo a quegli algoritmi, conosce il rischio (prospettico) di creazione di bolle o distorsioni o patti leonini e può convenire sulla utilità di un public service navigator, almeno a livello europeo, quale consorzio dei servizi pubblici nazionali.
La nuova concessione può indicare altre degne missioni che creano valore per il pubblico. I difetti del privato e i market failure possono essere infiniti; ma occorre riconoscere che in un ambiente chiassoso si riduce l’influenza diretta che la Rai può avere per educare, proteggere i minori, dar voce alle minoranze, ai territori, agli sport minori, al pluralismo delle opinioni ecc. Tutte queste attività vanno ripensate in termini di guide o presìdi, con inevitabile riduzione dei costi rispetto alla concessione in scadenza.
Valore per il sistema industriale
Gran parte delle risorse infatti andranno dirottate sul secondo e separato obiettivo che è creare valore per il sistema industriale, le cui performance andranno misurate quindi con KPI di sistema (occupazione, esportazioni, capitalizzazione) esterni all’azienda.
Per una politica industriale di settore questo è il momento magico in cui si ridisegna la divisione internazionale del lavoro creativo; una partita importante per tutte le nazioni e per l’Italia in modo particolare. Tra gli addetti ai lavori si parla oggi di una rinascita italiana per la produzione di film e serie tv, come degli anni scorsi di Israele o Scandinavia. Ma è un interesse suscitato da casi isolati, non sorretti da numeri solidi e da una politica industriale consapevole. Per trasformare le rondini in primavera abbiamo invece bisogno di una azione pubblica esplicita, da affidare non a un ministero o a una nuova istituzione, ma una impresa pubblica. Può essere la Rai, a condizione che separi le due attività.
Le due creazioni di valore (per il pubblico e per il sistema industriale) sono infatti divergenti e si inquinano a vicenda. Si pensi al commissioning: fra Gomorra e il Sindaco pescatore non c’è via di mezzo, non puoi inserire un po’ di buonismo da una parte e un po’di spettacolare violenza dall’altra, senza fallire entrambi gli obiettivi. Se commissioni un prodotto che vuol scalare i mercati mondiali, devi testarlo nel tuo paese senza vincoli di linguaggio o di affollamenti pubblicitari. Più dei privati inoltre un’azienda pubblica potrà rischiare su linguaggi e formati innovativi, che possono rivelarsi dei flop, ma sono gli unici che alla lunga creano valore e spostano gli equilibri tra le nazioni.
La separazione societaria sarebbe la strada migliore, come insegna il best case di Channel 4, che senza attingere a risorse pubbliche, riesce ad essere più innovativa dei privati, più commerciale della BBC. Se di separazione non vogliono sentire parlare né la Rai, né Mediaset, con lobby collegate, un’ipotesi meno dirompente e che suscita meno obiezioni consiste nel togliere la pubblicità a un canale generalista e togliere i vincoli di servizio pubblico a un altro. Mantenendo la flessibilità per gli sviluppi futuri, quest’ipotesi può forse consentire di testare nell’arco del primo contratto di servizio, i benefici della separazione dei due approcci nell’azienda e nel sistema.
Oggi la commistione tra canone e pubblicità indebolisce il carattere distintivo del servizio pubblico e distorce tutta l’industria televisiva. Nelle ore di maggiore ascolto, dove la Rai può concentrare gli spot che le sono concessi dagli stretti limiti settimanali, la competizione per lo share di prima emissione impone costi drogati dal canone. Nelle altre ore, dove Rai deve lasciare ai privati quasi tutta la pubblicità, tutti investono al di sotto degli standard internazionali. In entrambi i casi ne derivano programmi e formati scarsamente distinguibili e non adatti ai mercati mondiali.
Non è colpa dei manager, ma della vecchia concessione e della normativa. Sciogliere questo nodo è più importante e difficile che nominare un bravo capoazienda o recuperare l’evasione del canone.
Per una fortunata congiunzione astrale nei prossimi mesi devono essere rinnovati la concessione, il contratto di servizio e, con legge delega, la legge primaria. Per la coerenza del disegno e per ridurre gli spazi alle lobby conservatrici sarebbe preferibile riallineare le date delle tre decisioni; ma quel che conta soprattutto è la qualità del dibattito da qui al 6 maggio.