Il 6 Maggio 2016 scade l’attuale Convenzione tra Rai – Radiotelevisione Italiana e lo Stato italiano. Ed è per questo che abbiamo deciso di lanciare su www.key4biz.it un confronto che contribuisca concretamente alla Consultazione attraverso la pubblicazione di articoli di studiosi, addetti ai lavori, esperti, che offra idee e sollecitazioni ai rappresentanti del Ministero dello Sviluppo Economico, alla Commissione Parlamentare di Vigilanza, ai vertici Rai.
Chi tra i lettori fosse interessato a contribuire al dibattito può scrivere all’indirizzo serviziopubblico@key4biz.it. Tutti i contributi saranno raccolti in un eBook dall’editore goWare. Clicca qui per leggere gli articoli precedenti.
A che serve il servizio pubblico? E quando un servizio radiotelevisivo può considerarsi pubblico?
Lo Stato deve ancora svolgere un ruolo in questo settore, limitare la propria presenza o ritirarsi?
Come i grandi cambiamenti sociali e tecnologici sfidano l’attuale assetto del servizio pubblico radiotelevisivo?
Sono solo alcune delle domande che ci poniamo e che sono in qualche modo soggiacenti all’importante articolo di Flavia Barca.
Credo però, per sgombrare il campo da ogni equivoco, che il servizio pubblico non possa più essere solo quello “radiotelevisivo” e che esso, come logica conseguenza, non si esaurisca nella Rai (che a sua volta non è più solo broadcasting e sempre più dovrà essere anche altro).
Accesso per tutti a un’informazione equilibrata, pluralista e con contenuti di qualità, unita alla possibilità per tutti i gruppi sociali di essere rappresentati: sono gli elementi considerati parte integrante dei “diritti di cittadinanza” dei Paesi europei e hanno fatto del servizio pubblico radiotelevisivo, un’istituzione tipicamente europea. La tv pubblica è stata accusata (non solo in Italia) di essere costosa, inefficiente, incapace di originalità nella programmazione, troppo dipendente dalla politica. E l’elenco – spesso strumentale – potrebbe continuare. Flavia Barca spiega benissimo le cause della crisi del servizio pubblico: “dalla difficoltà di reperire risorse finanziarie al declino di fiducia nei confronti delle istituzioni pubbliche, dalla moltiplicazione dei canali e delle piattaforme ad una competizione sempre più accesa sui contenuti premium, dalle trasformazioni e disintermediazioni della tradizionale catena del valore al ruolo sempre più centrale dei nuovi gatekeeper (aggregatori, over the top, ecc.), dalla struttura organizzativa elefantiaca e poco efficiente di molti broadcaster pubblici alla migrazione delle utenze più giovani verso nuove forme di consumo”.
Impossibile non essere d’accordo sull’analisi.
Proprio a causa di tali processi e anche nel tentativo di offrire delle vie di fuga, si sono registrate innovazioni e cambiamenti in molti paesi europei, sia sul piano della governance sia su quello del modello di business e delle fonti di finanziamento.
A partire dalla nota Direttiva 89/552/CEE “Televisione senza frontiere”, modificata nel 2007, è facile individuare i cardini del servizio pubblico. Esso, infatti, deve:
- impedire l’incitamento all’odio basato su razza, sesso, religione o nazionalità;
- garantire l’accesso ai servizi di media audiovisivi per le persone con disabilità;
- tutelare lo sviluppo fisico e mentale dei minori;
- rendere riconoscibile la pubblicità che, peraltro, deve avere uno spazio contingentato nella programmazione (20% massimo ogni ora), non deve essere occulta o discriminatoria o contraria al rispetto della dignità umana, non deve riguardare prodotti giudicati dannosi per la salute, deve sempre tutelare i minori;
- rendere pubblici gli eventi di particolare rilevanza per la società;
- rispettare, nella programmazione, una determinata percentuale di prodotti audiovisivi europei (51% del tempo) e opere di produzioni indipendenti (10% del tempo e del bilancio).
Aspetti importanti ma forse non più sufficienti.
La stessa declinazione dell’aggettivo pubblico è “scivolosa” e richiama due diversi significati: da un punto di vista oggettivo, esso chiama in causa il ruolo di importanti agenzie di socializzazione, promozione ed educazione civile che la televisione e la radio (ma potremmo estendere il concetto a tutti i media) hanno svolto (e in parte ancora svolgono) nella società. Proprio rifacendosi a questo significato, in ambito europeo, il servizio di broadcasting viene ricondotto ai servizi di interesse economico generale cui si fa riferimento nell’articolo 14 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (o Trattato di Amsterdam). Da un punto di vista soggettivo, invece, il servizio radiotelevisivo è pubblico quando lo Stato è responsabile della sua realizzazione e del compimento della sua mission, attraverso modalità di gestione dirette o indirette, come nel caso della concessione.
Il quadro normativo trova ancora oggi la sua giustificazione “politica” e culturale nel saggio del 1924 di John Reith, Broadcast over Britain, in cui si gettavano le basi del servizio pubblico.
Quando in Italia si parla di servizio pubblico, si fa spesso riferimento – più o meno consapevolmente – proprio alla triade reithiana. Abbandonata nel tempo la centralità del valore educativo di radio e tv, resta la considerazione generale che il servizio pubblico debba ancora informare e divertire (in qualche caso anche educare). Tuttavia, l’obiettivo primario oggi dovrebbe essere quello di offrire uno spazio democratico alle società civili nazionali (e non solo). Nello stesso tempo il servizio pubblico deve diventare veicolo per la distribuzione di un public service content, ovvero di un contenuto al servizio della collettività. In altri termini, il nuovo public service media (non solo broadcasting dunque) dovrebbe garantire un ampio, orizzontale e democratico accesso e, al tempo stesso, favorire forme di effettiva partecipazione. Con accenti simili, peraltro, lo scrive molto bene e in maniera inequivoca Flavia Barca: “Il ruolo del pubblico si giustifica, infatti, solo ed esclusivamente qualora offra un servizio unico (quindi di chiara identità specifica) e che produca bene pubblico. In questo caso anche chi non ne usufruisce può comunque trarre un vantaggio sociale dall’esistenza di quel bene, perché ha potenziali ripercussioni sullo sviluppo e l’inclusione sociale e, quindi, aumenta il benessere collettivo”.
Qui siamo a uno snodo, a mio avviso, fondamentale.
Lo Stato dovrebbe garantire alle cittadine e ai cittadini la libertà di accesso alla comunicazione, che è essa stessa bene pubblico; perché questo non sia solo una dichiarazione di principio sono necessarie alcune misure: a) la crescita della reti NGA (Next Generation Access); b) l’interconnessione delle reti civiche e un programma di investimenti (effettivi) sulla banda ultra-larga; c) l’affermazione di una vera neutralità della rete; d) lo sviluppo di modalità di controllo di tipo deliberativo-partecipativo da parte dei cittadini sul servizio radiotelevisivo e più in generale sulla comunicazione. Da qui la necessità di considerare la tv (e ovviamente la radio) parte di un “asset” più ampio.
E siamo alla Rai. L’azienda costituisce ancora oggi il più importante player dell’industria culturale italiana, luogo potenzialmente deputato alla sperimentazione e alla ricerca. Ancora Flavia Barca nell’articolo che ha aperto questo forum di discussione: “la vera novità oggi, è quella della partecipazione e condivisione. Cioè di un progetto pubblico (di valori e servizi), non più unidirezionale, ma mediato e arricchito da una continua immissione/scambio di nuove idee e suggestioni. Se è giusto, come sopra teorizzato, che la Rai produca idee e valori ‘pubblici’ mediante i quali costruire capitale sociale, è indispensabile, al contempo, che queste idee e valori siano negoziati, continuamente, con tutto il Paese. E questo può e deve avvenire aprendo la Rai ad un dialogo trasparente con tutti gli spazi di produzione di pensiero, quindi scuole, università, centri di ricerca, terzo settore, cittadinanza attiva”. In altri termini, la Rai come motore di una nuova forma di connessione sentimentale. Si tratta di un progetto rilevante che investe un attore fondamentale del servizio pubblico ma – lo ribadisco – non l’unico.
Le caratteristiche peculiari della tv pubblica dovrebbero essere potenziate, non limitate; e garantite dal carattere assolutamente pubblico della Rai. In questo quadro, bisognerebbe provare a evitare la retorica neo-liberista dei tagli, funzionali a una presunta “efficientizzazione” (anche la parola è brutta). Al contrario è necessario incrementare le risorse – non solo per la Rai (che deve continuare a fare innovazione, anzi ricominciare a farla nella prospettiva individuata da Flavia Barca) – ma addirittura per l’intera produzione culturale italiana. Bisognerà, ovviamente, razionalizzare e ottimizzare le risorse ma queste non possono essere sfrondate seguendo una logica di “tagli lineari” indifferenziati. Forse l’impegno per le industrie culturali può valere il sacrificio di qualche aereo da combattimento, dal momento che la cultura (in senso ampio) costituisce uno degli asset strategici del Paese e della sua economia. La Rai, in altre parole, deve essere rinnovata, forse ristrutturata ma sicuramente tutelata perché rappresenta una grande risorsa per l’Italia. Al tempo stesso, essa deve diventare parte (una parte molto importante) di una relazione sistemica, capace di garantire alle cittadine e ai cittadini l’accesso alla comunicazione (che va chiaramente rubricato come diritto della persona), la trasparenza e il controllo.
Questo cambiamento implica anche una trasformazione nel modello di governance, non solo della Rai ma dell’intero servizio pubblico della comunicazione. Bisogna affiancare al Parlamento (che resta fondamentale nel suo ruolo di vigilanza e garanzia), gruppi di cittadini e di esperti. Il modello della democrazia partecipativa e deliberativa (assemblee deliberative, citizen’s juries, etc.) può rappresentare uno schema per una nuova architettura di controllo condiviso. Insomma, è possibile adottare i metodi dell’amministrazione collaborativa anche al servizio pubblico, almeno a quello che non si esaurisce nel broadcasting tradizionale.
Infine, è necessario che la nuova architettura multi-piattaforma capace di fornire l’accesso alla comunicazione per tutte le cittadine e i cittadini si svincoli dalla logica degli ascolti. Che, d’altra parte, in un’idea di servizio pubblico che non si esaurisce nel broadcasting, diventano del tutto secondari. Ecco di nuovo la centralità di un controllo condiviso sul “servizio pubblico”, attraverso forme di consultazione, all’interno della prospettiva (anche) della democrazia digitale.
Si noti, peraltro, che ribadire la centralità della comunicazione (e non solo della televisione) significa anche contribuire a cambiare l’architettura generale del Paese e delle sue istituzioni. Da tempo sostengo che bisognerebbe concepire la comunicazione non come una variabile interveniente in una società statica bensì come la modalità principale dell’organizzazione sociale; trasformare lo Stato in un grande “corpo comunicante” significa aderire pienamente a un modello organizzativo multilivello, basato su forme di governance collaborativa in una cornice contrassegnata dalle dinamiche dell’open government. In questo modello, la comunicazione diventa allora una risorsa strategica; l’accesso alle reti, il controllo democratico sull’informazione, il pluralismo nei contenuti, la trasparenza dei meccanismi di gestione, la natura pubblica dei “canali” costituiscono elementi fondamentali per la tenuta del sistema democratico. In questa prospettiva, il servizio pubblico non può limitarsi alla pure importante televisione, dal momento che esso costituirebbe la chiave di volta di un’architettura molto più ampia e complessa.
Una discussione sociale ampia sull’intero sistema della comunicazione non è più rinviabile. Le questioni concernenti la sua libertà effettiva, il diritto delle cittadine e dei cittadini a comunicare e partecipare non riguardano – com’è evidente – solo la questione della tv o di cosa essa trasmette ma investono, invece, l’essenza stessa della nostra democrazia.