Oggi
Quest’anno la consegna dei David di Donatello, cerimonia prestigiosa del cinema italiano, è stata affidata, dopo anni di indiscusso monopolio della Rai, alle telecamere di Sky.
Per molti anni, ogni anno, mi chiedevo guardando sconsolata la diretta della serata, perché mai la Rai non sapesse rendere televisivamente dignitoso un evento che pure riguarda una gloria nazionale, un settore trainante dell’industria culturale, migliaia di lavoratori e una buona compagine di attori e registi meritevoli di maggiore cura audiovisiva.
Come mettere fine a quell’approssimazione, superficialità, negligenza così lontana dalla perfezione dei set americani dove, udite udite, quando agli Oscar un attore viene nominato si vede il suo viso e non quello del suo vicino o, peggio, il primo piano di una poltrona vuota. Bastava fare delle prove, sedersi ad un tavolo e prepararla quella serata, manifestare il dovuto rispetto per il cinema e per il pubblico, quello del cinema e quello della tv. E’ quanto ha fatto Sky con una serata schietta, non particolarmente brillante ma comunque superiore alle ultime, sempre più scarse, prestazioni della Rai.
Non c’è dubbio che questo passaggio di consegne costituisca un segnale in termini di perdita di appeal e di reputazione che la Rai non dovrebbe sottovalutare. Al di là infatti della festa annuale del santo patrono ligure, o delle mega produzioni del sabato sera che vedono impegnate grandi case di produzione come Ballandi o Endemol, è proprio quella produzione media, per la quale la Rai si distingueva, che vacilla.
E questo per chi, come me, ha maturato molti anni di esperienza sul campo, a contatto con squadre esterne e studi di registrazione, appare purtroppo di una evidenza sconfortante.
I motivi, a mio avviso, sono molteplici e non riconducibili tutti alla solita, legittimamente, deprecata intrusione nell’azienda dei partiti, chiamati in causa forse con una smania semplificativa che oscura ragioni più profonde, legate ad un cambiamento antropologico che ha coinvolto la Rai come il Paese intero esprimendo semmai in questo senso, la sua valenza politica, come qualunque fenomeno che riguardi la collettività.
La Rai è un organismo sociale dotato di vita propria che ha, in gran parte, contribuito alle mutazioni psicologiche, emotive e sociali del suo pubblico, ma, in parte, le ha anche subite.
Ieri
Se infatti, negli anni ottanta, la politica la metteva sulla strada della competizione con la tv commerciale, costringendola ad abdicare al ruolo guida che non solo la concessione statale le conferiva, ma l’opinione pubblica tutta le riconosceva, la sua scelta editoriale fu quella di sacrificare la programmazione culturale e un repertorio che pure ancora ne connotava posizionamento e vocazione.
Teatro, cinema, danza, musica, considerati inappetibili dagli inserzionisti pubblicitari svanivano; moriva la televisione dei festival di Spoleto o delle Biennali d’arte, delle commedie e dei documentari con Gadda o Calvino.
Il contraccolpo però non lasciava indenne lo stesso Palazzo, anzi incideva nel corpo vivo della più importante agenzia comunicativa del Paese, influenzava la creatività di autori e registi, toccava perfino dirigenti e funzionari la cui mission divenne sempre più quella di fare cassa piuttosto che quella di produrre qualità.
D’altra parte la voracità dei pubblicitari andava accontentata rendendo sempre più appetibili le polpette avvelenate di programmi confezionati sui gusti medi di un pubblico da accontentare, da blandire, che andava abituato a riconoscere più che a conoscere. Vittima sacrificale, la sperimentazione, vanto della tv dei tempi di Fichera e di Minoli, e unico parametro sul quale misurare l’energia vitale di un’impresa culturale.
Così, la consapevolezza di lavorare in un servizio pubblico radiotelevisivo, come l’obbligo di onorarne le finalità, finirono avvolte dai rami della foresta incantata e la Rai cadde in un sonno lungo cent’anni.
In una capanna, ai margini del bosco, a garantire la coscienza di Presidenti e Consiglieri, la Rai cosiddetta educativa, il recinto nel quale rinchiudere arte, filosofia, letteratura. Ma visti gli orari – notturni – e il conseguente scarso numero di spettatori, con pochissime risorse e ancor meno prestigio, tanto che anni fa era difficile perfino trovare programmisti disposti a lavorarci, attratti com’erano dalle paillettes del varietà di prima serata.
E, fatte le debite differenze, siamo ancora là, al recinto, stavolta promosso al lusso di canale, Rai Cultura che trasmette per ben 24 ore la “cultura”, come se questa fosse una sua esclusiva, come se la fiction o l’informazione non producessero cultura dal momento che influenzano comportamenti e abitudini, suggeriscono stili di vita, orientano gusti e opinioni.
Come se la cultura fosse un tema per appassionati, alla stregua del crime o dei reality.
Come se la cultura fosse un genere.
Un lungo sonno
Nei cento anni di sonno molte prerogative, anche tecniche, sono andate perdute, insieme all’orgoglio di quelli che alla Rai ci lavoravano.
Alcune tappe di questo declino vale forse la pena di ricordare: la presidenza thatcheriana di Letizia Moratti che dal ’94 al ’96, stroncò una generazione di professionisti (direttori della fotografia, operatori, montatori, direttori di produzione) che erano il fiore all’occhiello dell’azienda e la cui fuoriuscita – per uno di quegli sfoltimenti che in un’azienda che non organizza corsi di formazione e aggiornamento, e si basa sul passaggio delle competenze attraverso la tradizione orale e l’affiancamento – propagano il loro effetto nocivo per anni; l’ottusità dei sindacati che, come elefanti in una cristalleria, hanno preteso di muoversi nella maggiore agenzia comunicativa del paese senza alcuna sapienza della sua specificità ma anzi applicando i soliti brutali metodi spartitori o, all’occorrenza, sedativi e protezionisti; l’occupazione da parte dei giornalisti di settori ideativi e direttivi nell’ambito della programmazione delle reti, che ha esportato oltre i confini dei tg, metodi e linguaggi che hanno contribuito all’impoverimento creativo dei palinsesti e alla scomparsa del ruolo di figure storiche come quella del regista, risucchiata da quell’ibrida definizione di programmista regista che, nella sua genericità, ha consentito che si sprecassero talenti ai desk dei talk show.
Si potrebbe continuare con l’ondata boncompagniana di fanciulle domate da Chiambretti e dirigenti sbarcati da Mediaset, che arrivò sulle spiagge di Rai Due sotto la guida dell’allora direttore Freccero; con il balletto di riforme organizzative ad ogni cambio di vertice; con le chiamate agli assessments (cari al dr. Celli) o all’invio dei curricula, come se ogni nuovo direttore generale fosse l’eroe solitario di un film di fantascienza, spedito con il teletrasporto in una landa desolata a ricostruire il pianeta dopo l’apocalisse.
Ma possibile che a viale Mazzini non si sappia nulla dei propri dipendenti?
Possibile che debbano essere loro a spiegare, al nuovo direttore generale, cosa fanno?
E’ difficile trarre da questi esempi un ammonimento generale se non quello che caso mai la politica, incolta e rapace, si è occupata poco della Rai, cioè di quale dovesse essere la sua vocazione e il suo ruolo nel Paese, accontentandosi di piazzare uomini opachi e fidati in posti chiave, a fare da filtro a comandi e richieste, per lo più di bassa cucina. La stessa politica, poi, li lasciava soli a governare su questioni “secondarie” come la qualità della programmazione, la sperimentazione di nuovi linguaggi e tecnologie, la guida del personale, spesso disprezzato dai freschi vertici dell’azienda. “E’ finita la pacchia” sembrava essere il retro pensiero di tanti direttori e presidenti ammazzasette, arrivati a mettere in riga dipendenti raccomandati e fannulloni.
Il capitale umano
La gestione del personale, in Rai, è sempre stata caratterizzata da un atteggiamento ondivago ed ambiguo. Se infatti da un lato si rende sempre più impervio – basti pensare all’invenzione della “infungibilità” partorita dal dg Gubitosi – il ricorso a collaboratori esterni che, se di provata competenza, costituiscono un arricchimento per la Rai e per il suo personale, si coltiva, dall’altro, una scarsa attenzione alle reali capacità professionali dei dipendenti, sottoposti piuttosto che a severe e sacrosante verifiche professionali, a controlli amministrativi su scontrini e buoni taxi secondo la sempre valida regola andreottiana che a pensar male…
Il risultato è quello di scontentare tutti: gli esterni sottoposti a trattative, magari per un contratto di due mesi, estenuanti e talvolta umilianti con uffici che considerano un eminente scrittore come un usurpatore di diritti e prebende; gli interni sempre a coltivare aspettative o, peggio, a rivendicare ruoli che un’accorta valutazione del personale dimostrerebbe presto irraggiungibili.
Quella che sembra mancare da sempre è una cultura manageriale che consideri centrale il capitale umano; promuova nell’azienda la qualità della vita della collettività e di ogni persona che ne fa parte – ponendo ad esempio la massima attenzione al problema della logistica, mai preso in considerazione nelle sue implicazioni di salute, anche mentale (la condizione in cui si lavora in certi settori, tra scatoloni pieni di cassette e libri affastellati è scandalosa) -; il dispiegarsi quotidiano di prassi di lavoro condivise e di relazioni solidali e paritarie, prerequisito, a mio avviso, di ogni innovazione tecnologica e di qualunque piattaforma digitale.
Non sarà la moltiplicazione dei supporti a salvare la Rai, come l’esperienza dell’incremento del numero dei canali digitali ha già ampiamente dimostrato, ma la capacità, tutta umanistica, di rinnovare il desiderio di lavorarci, di condividerne la missione, di risvegliare il rispetto per sé e il proprio compito.
La Rai che vorrei
Nella Rai che vorrei, così, si parte innovando dall’interno, privilegiando modelli organizzativi snelli e flessibili, adattabili ad esigenze diverse per diversi contenuti, favorendo la formazione di piccole comunità di lavoro, di cui la tecnostruttura sia alleata e non nemica. Un esempio di questi gruppi sono già le redazioni dei programmi che costituiscono delle unità operative attive e alle quali potrebbero essere assegnate una serie di responsabilità, anche budgetarie, seppure vincolando i capi struttura e i produttori esecutivi, al rispetto rigoroso delle previsioni di impiego dei mezzi tecnici e delle risorse umane, definite nel planning dei programmi.
Ciò consentirebbe un’autonomia produttiva strettamente correlata alle esigenze mutevoli della realtà quotidiana e svincolata da quella operatività omologata che frustra ogni tentativo di novità.
Se ogni redazione fosse dotata ad esempio, di due, tre telecamere digitali e di computer con final cut si potrebbe agevolmente girare e montare utilizzando quelle abilità che molti programmisti registi spendono fuori dalla Rai, un po’ come i ragazzi che a scuola scrivono a mano e appena arrivati a casa accendono il computer; senza contare che, visti i costi al ribasso di troupes e montaggi, molto spesso già oggi i registi si vedono costretti a sostituirsi a operatori e montatori di scarsa esperienza. Inoltre, questo affidamento diretto, consentirebbe di recuperare su prodotti di qualità alta, le professionalità di operatori e direttori della fotografia sottoutilizzati e malinconici.
La burocrazia, centripeta per definizione, è nemica dell’autonomia di pensiero e del buon senso, alibi per funzionari la cui duttilità è pari a quella di un cingolato; e rende infelici. In una azienda che produce cultura, l’aria della fantasia e della creatività va fatta circolare in tutte le stanze, fugando quella cappa di ipocrisia e perbenismo che blocca lo sviluppo di menti e anche di cuori.
A costo di sembrare retorica e, con un eufemismo, eccessivamente ingenua, vorrei terminare con le parole di Martha Nussbaum che insegna Law and Ethics all’università di Chicago: “Sembra che ci stiamo dimenticando dell’anima, di cosa significa per il pensiero uscire dall’anima e unire la persona al mondo in una maniera ricca, sottile e completa; ci stiamo dimenticando cosa significa considerare un’altra persona come un’anima, anziché come un mero strumento utile, oppure dannoso,per il conseguimento dei propri progetti; di cosa significa rivolgersi, in quanto possessori di un’anima, a qualcun altro che si percepisce come altrettanto profondo e complesso”. *
Happy End
Il principe azzurro, in sella al cavallo alato di Messina, si avvicina alla bella addormentata, butta alle ortiche il mansionario Rai, e la bacia.
*Martha Nussbaum: “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica”, Il Mulino, Bologna, 2011, pag. 25