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Si insiste molto nel parlare di servizio pubblico per intendere televisione di Stato ed anche per nascondere la sua connessa natura di espressione televisiva del potere statale, vale a dire del governo e dei partiti che lo gestiscono materialmente. Attraverso la Rai, infatti, si è manifestato il potere di informazione e comunicazione di Stato.
La Rai del potere ed il potere della Rai
Nelle diverse fasi storiche, questo potere si è identificato con un unico partito, a lungo fulcro di governo; poi in due aree di governo ed una di opposizione; ed attualmente con la recente riforma approvata questo potere appare tornato al partito principale di maggioranza.
Come è facile intuire questo potere poggia soprattutto sull’attività giornalistica che in Rai è affidata alle distinte figure di giornalisti e dirigenti giornalisti.
L’Usigrai, sindacato dei circa 1500 giornalisti Rai, è ormai la principale voce dei lavoratori organizzati dei media, tanto da aver espresso i due ultimi presidenti del sindacato giornalisti unitario e di aver portato in parlamento la sua espressione storica. Un’organizzazione che a lungo ha identificato l’attività sindacale con l’azione politica allineata al canale partitico di opposizione, da dove provenivano i suoi vertici.
Questa impostazione, nell’ultimo decennio, ha fatto divergere i giornalisti dal resto dei lavoratori Rai, preoccupati per il peggioramento delle condizioni economiche e lavorative e per la decadenza dell’azienda sotto spending review.
I grandi numeri di pubblico e lavoratori, non hanno modo di esprimersi, se non per i corrispondenti momenti elettorali. In occasione delle scadenze sindacali si è, tra gennaio e marzo, votato nelle aziende della comunicazione. Più di 60mila lavoratori, concentrati nei grandi capoluoghi, in Telecom Italia, Vodafone e Rai hanno eletto i loro rappresentanti e le loro sigle sindacali, esprimendo con quelle scelte ovviamente anche un parere politico. Sul quale, è restata straordinaria l’indifferenza, ormai cementata, di politica e ricerca. Nello specifico, in Rai hanno prevalso, come già avvenuto in passato, l’insieme delle sigle sindacali che si sono battute per miglioramenti economici e che per questo si sono trovate in opposizione al sindacato giornalisti, attento soprattutto all’interlocutore del momento o battaglie campali di principio sullo status dell’informazione.
Questo esempio aiuta a capire perché, prima di ogni altra opinione dissimile, esiste un modo di intendere l’espressione servizio pubblico da parte della politica (attiva di chi la fa, parte della burocrazia e quella parte della politica che si fa, spesso a modo suo, portavoce dei consumatori), di chi gestisce l’informazione professionalmente e del mondo accademico (Università, Ricerca, Infoproviders, Fondazioni ed Accademia) di supporto e sostegno. Questo mondo si sente coinvolto come attore che fa il servizio pubblico. Il resto lo subisce.
I lavoratori con la Rai e contro la Rai
Al contrario delle tante opinioni possibili, l’economia pubblica, in via teorica, non può che meravigliarsi di un intervento pubblico in un settore di mercato dove non esiste esigenza di intervento per carenza di offerta dei privati. All’osservazione che esiste sempre necessità di intervento pubblico per garantire i diritti dell’informazione, la stessa economia pubblica proporrebbe di escludere del tutto allora il servizio pubblico dai criteri economici di ricavo e di profitto come si fa per esempio per la sicurezza o per la sanità. Invece i sostenitori intellettuali del servizio pubblico lo vogliono sempre inserito nel mercato dei media, uno strano oggetto che è alternativamente un bene\servizio di mercato e\o un diritto inalienabile.
I lavoratori Rai, non giornalisti, a riguardo hanno un’idea chiara, probabilmente non applicabile nel contesto dell’oggi. Intendono il loro servizio, una piattaforma per il diritto all’informazione ed alla comunicazione, svincolata dai poteri istituzionali e dal mercato. In seconda battuta, intendendo i media come merce, si aspettano che l’intervento pubblico televisivo abbia il senso di sostenere produzione e ricavi dell’insieme della filiera della comunicazione. Quando però la tv di Stato né garantisce l’informazione di tutti per tutti, né agevola la capacità produttiva, quei passivi della politica, che oggi sono i lavoratori, finiscono in gran numero, a vedere di cattivo occhio la Rai, che resta solo un grande costo fiscale, senza apportare benefici sostanziali che non siano soddisfatti dall’offerta gratuita televisiva privata e da quella nuova, ancora free, di Internet.
Sulla Rai bisogna votare, non fare consultazione
Non una consultazione pubblica ufficiale, ma addirittura un voto sarebbe necessario per far esprimere tutti i cittadini (chiamati con il canone a sostegno obbligatorio) sul servizio pubblico televisivo che per loro resta un rapporto istituzionalizzato legato ad un unico soggetto imprenditoriale, caso unico nella filiera della comunicazione. Non esiste più infatti un soggetto unico che fornisca un servizio di telecomunicazione pubblico, né esiste un soggetto unico che fornisca un servizio editoriale delle notizie.
Il voto sulla Rai dovrebbe potere essere molto articolato per punti, rispetto alla secca domanda posta all’elettorato nel giugno ‘95 sulla privatizzazione o meno della Rai. Un voto che con il 54,9%, chiese la fine di un servizio solo pubblico, ma rimase inascoltato.
Il voto non dovrebbe limitarsi alla mera questione manichea dell’esistenza o meno della Rai, ma riguardare la quantità ed il tipo di spazio da dedicare alle diverse tematiche; scegliere tempi e spazi degli stessi nominativi dei presentatori; proporre temi, tagli e contenuti delle fiction da produrre e via dicendo.
Tutto ovviamente in nome di un vero servizio pubblico. In calce si fa notare quanto sia difficile al momento per la Rai gestire anche i rari momenti interattivi. Vorrei citare alcuni esempi apparentemente irrilevanti. Anni fa fu il sindacato a denunciare impicci sul televoto al festival di Sanremo, quest’anno un borgo ligure si è visto d’improvviso tagliato fuori da una premiazione per presunta insicurezza informatica dando la terza vittoria consecutiva ai paesini siciliani.
Un albero isolato in un bosco deserto
Oggi, mentre si tiene questo dibattito sul La Rai che vorrei, si è incerti in altre sedi sul futuro della mission aziendale dell’incumbent delle reti Tlc, mentre si proclama il disastro dei call center.
La stampa è in subbuglio sotto una doppia riforma giornalistica e contrattuale in atto che rischia di snaturarla prima della fine ineluttabile che i ricercatori le pronosticano.
Le tv locali annaspano, affondate più che lanciate dalla moltiplicazione dei canali. Accanto al servizio pubblico, le Tv sono divenute tante con diversi sistemi di trasmissione.
A fianco di Tlc, giornali e Tv si è affiancata Internet, il cui format omnicomprensivo di processi e contenuti, tende a sostituirli tutti, con la sempre più evidente e presente capacità di sradicare piattaforme e contenuti dal contesto nazionale, politico e statuale.
Molti degli interventi del dibattito propongono giustamente un allineamento del servizio pubblico verso una Rai 2.0, o 3.0 o 4.0, raccontando, nelle traversie del rapporto con YouTube, tutto l’imbarazzo di un’azienda che, in concomitanza con lo spirito di un gran numero di italiani, non sente il digitale come la sua core mission e che anzi dai tempi dei tentativi di Rainet ha fatto passi indietro.
In tempi di spending review, la Rai che vorrei, se non sostenuta opportunatamente, rischia di apparire uno schiaffo in faccia ai milioni di piccoli imprenditori e dei loro lavoratori dipendenti, oberati da alte tasse ed alto costo fiscale del lavoro.
Le centinaia di milioni di deficit del servizio pubblico Tv possono apparire un grande peso ai milioni di somministrati e cocopro sopravissuti al Jobs Act, ai giornalisti da 2 euro ad articolo, ai lavoratori digitali in perenne solidarietà, vale a dire a riduzione di salario e stipendio, ed anche ai tanti ricercatori e docenti universitari a contratti da cottimo.
Non è demagogico ricordare che la Rai rischia di essere vista soltanto come una sostanziale, seppure piccola, parte dell’impiego pubblico; e coinvolta con questo da giudizi ingenerosi che si diffondono nella divaricazione economica che si fa sempre più grande tra pezzi della società, tra lavoro privato senza più garanzie e lavoro pubblico, tra lavoro dipendente e partite Iva.
La Rai, spina dorsale del sistema culturale nazionale, era considerata a ragione un sostegno indissolubile al cinema di Cinecittà, al reticolato teatrale, alla trasmissione e promozione dello sport.
Oggi questa reputation è venuta meno.
Malgrado gli investimenti regionali, attorno al colosso televisivo da 50 sedi, si è fatto il vuoto tra una Cinecittà in agonia e i teatri, privatizzati, spesso in chiusura; mentre simbolicamente anche la diretta dello sport nazionale, il calcio, è sparito dagli schermi pubblici.
Come ricorda Flavia Barca, la Rai, tra canone e fatturato, vale ormai il doppio del resto dell’intervento pubblico in cultura (Mibact e Fondo Unico per lo Spettacolo), 4 miliardi a 2.
Una Rai che tutti vorrebbero, è una Tv pubblica, capace di utilizzare le sue risorse, che non prendono un premio di produttività da più di un lustro e non litigare sempre sull’utilizzo di doppioni esterni, con sovrabbondanza di costi.
La Rai degli ultimi anni, malgrado le virtù conclamate, ha speso moltissimo per far uscire molti dirigenti ed ha incassato solo vendendo parte dei gioielli di famiglia, come la quota Raiway. Poi ultimamente ha ripreso gli antichi vizi, inventandosi nuove dirigenze.
E’ evidente che se il tronco solitario non riprende a far crescere attorno a sé un bosco di alberi, arbusti, cespugli e funghi, la voglia di abbatterlo cresce, visti gli alti costi di manutenzione.
Il pubblico contro la Rai
Anche molti del pubblico hanno negli anni visto crescere sentimenti negativi verso la Rai, per squisite ragioni politiche. Ragioni riassunte, in una battuta fulminante dal sottosegretario Giacomelli: “Veniamo da anni in cui Rai era una parte in lotta, non il soggetto centrale del sistema dell’audiovisivo”. Ogni ricerca sui media infatti tralascia un fatto evidente agli occhi di tutti, vale a dire che per decenni la Rai è stata soprattutto un partito, in difesa prima del suo monopolio poi della sua sopravvivenza, armato contro la Tv privata. Le note vicende politiche hanno così visto il servizio pubblico Tv sdraiarsi sullo schieramento di centrosinistra e contrastare quello di centrodestra, immedesimato nella Tv privata. Ovviamente questa scelta, che aveva anche le sue buone ragioni, ha peggiorato l’influenza lottizzatoria partitica precedente che in qualche modo si rivolgeva a quasi tutto il pubblico dei votanti. Metà del pubblico, improvvisamente, si è sentito aggredito dalla Rai per le sue scelte politiche; milioni di persone che si sono sentite paria dell’informazione pubblica televisiva. Alcuni degli interventi di questa consultazione ribadiscono la bontà di questa impostazione, elencando minuziosamente la didattica politica che deve essere divulgata dalla Rai. Si tratta di un modo di pensare contrario al rispetto democratico ed al servizio pubblico che non può essere se non vi è rappresentato permanentemente l’insieme dei modi di pensare e vivere più largamente diffusi, e non tramite ospitate brevi e ghettizzate. D’altronde molti dei problemi che si trascinano derivano dalla visione di scontro politico tra Tv pubblica e Tv privata e che tempi e tecnologia hanno largamente superato nella convergenza Tv –Internet. L’Italia è ancora bloccata per motivi politici di fronte a questo dato di fatto, anche per l’incapacità dimostrata dalla Rai di fondere le sue reti con quelle tlc o di diventare, come già peranuò per potenza di fibra, un soggetto attivo della Rete. Qui però si arriva al problema del rapporto Rai-digitale.
Rai digitale
Negli incontri tenuti da Agid sul tema della cultura digitale, cui partecipai per la UIL, Rai ha potuto dimostrare quante ricerche e studi ha fatto la Tv di Stato per entrare e far entrare gli italiani nella Rete. Basterebbe pensare ai telecomandi testati con il pulsante per l’accesso a Internet, per dare idea di quante cose la Rai abbia provato senza diffonderle.
Per quanto l’Agcom la consideri oggetto del mercato di sua osservazione (ed all’estero il regolatorio pretenda ormai il controllo di tutto il sistema Tv), Rai ed i suoi diversi lavoratori non sono stati inseriti nel dibattito digitale, sia dal punto di vista dell’offerta che degli skill.
Invece il servizio televisivo è in tutto e per tutto un servizio\prodotto digitale, inserito nella relativa filiera.
Il dibattito sull’entrata, l’uscita ed i rientro della Rai in YouTube, misurato sulle royalties ottenute e poi perse, non fa scattare la presa di coscienza che la Rai e le Tv pubbliche europee dell’Ebu sono in pectore dei grandi social, le piattaforme economicamente in grado di esportare il prodotto social europeo anche negli Usa, invertendo il flusso monopolistico digitale Usa di oggi.
E come la Rai servì a unificare gli italiani, solo una grande piattaforma multilingue e social delle tv statali europee può costruire una vera cittadinanza europea. Ovviamente se il prodotto Rai divenisse una merce digitale, concentrandosi sul dato produttivo, come altri interventi hanno decritto meglio di quanto qui non si possa fare, l’evolversi della fusione Tv-Internet ne toglierebbe il controllo a politica nazionale, burocrazia ed intellettualità.
Più che il dibattito sui diritti sulla Rete o sul digital divide, questo rischio sembra il vero ostacolo alla necessaria digitalizzazione Rai, che ne farebbe l’hosting dell’offerta culturale generale. Il nome del servizio pubblico può sottintendere anche la difesa della voce Tv del governo, un’ipotesi di arretratezza che sposterebbe la tv pubblica ancora più in basso di quanto non sia.